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Alarico, Stilicone e il sacco di Roma

La strada che porterà i goti sotto le mura di Roma inizia sulle rive del Danubio dove, tra l’estate e l’autunno del 376 d.c., i due popoli che, uniti, costituivano appunto la coalizione gotica, i tervingi e i greutungi, si apprestavano a varcare il fiume per trovare salvezza al di là del limes romano. La minaccia che li aveva costretti ad abbandonare le loro terre sul Mar Nero era stata la migrazione degli Unni dalle steppe dell’Asia che, abbattendosi come un’onda di piena, sottomise gli alani e costrinse i goti a scegliere tra la fuga e il medesimo destino. Per Roma la possibilità di accogliere questi fuggiaschi non era di per sé un problema perché da tempo l’Impero accettava di insediare gruppi barbarici nei suoi confini per ottenere contingenti militari da usare nel suo esercito dopo che l’Editto di Caracalla, estendendo la cittadinanza romana a tutti, aveva ridotto sensibilmente il bacino di reclute interne. Il problema coi goti era però l’entità della migrazione perché non si trattava più di un gruppo di reietti o di qualche tribù, ma di un intero popolo che andava alloggiato e messo in condizioni di poter sopravvivere autonomamente. Le difficoltà si fecero ben presto sentire perché ovviamente i goti erano visti come estranei pericolosi e funzionari imperiali corrotti non esitavano a taglieggiarli con ogni genere di ricatto anche solo per fargli ottenere il cibo. Questa situazione portò a una rivolta dei goti, guidati da Fritigerno, che ebbe per Roma il suo momento più drammatico ad Adrianopoli nel 378 d.c. dove l’esercito romano venne annientato e lo stesso imperatore Valente trovò la morte. Per quattro anni i Balcani furono un campo di battaglia, ma infine il nuovo imperatore Teodosio I riuscì, un po’ con il bastone un po’ con la carota, a raggiungere un accordo di pace che, sebbene spacciato ai più come una grande vittoria per Roma, concesse ai goti condizioni fino ad allora mai accordate a nessun altro popolo barbarico stabilitosi entro i confini dell’impero. I tervingi e i greutungi vennero dichiarati foederati dell’Impero e gli furono assegnate le terre della Mesia e della Scizia inferiore con un regime di semi-autonomia in cambio del rifornire a richiesta l’esercito romano di contingenti militari e al divieto di darsi un capo unico. Questo accordo però non riuscì a eliminare lo stato di reciproca diffidenza che animava le due parti: i romani erano convinti che i goti avessero ottenuto troppo mentre questi ultimi erano sicuri che i romani non aspettassero altro che l’occasione per regolare i conti. Gli episodi di intolleranza reciproca furono all’ordine del giorno, ma l’imperatore Teodosio si arrampicò sugli specchi nel tentativo di evitare una nuova rivolta generalizzata senonché anche lui incappò in una sfortunata circostanza che sarebbe divenuta memoria negativa per i goti. Nel 392 d.c. infatti l’imperatore dovette far fronte a uno dei tanti usurpatori, Eugenio, che in quell’epoca di tribolazioni interne di tanto in tanto tentavano di accaparrarsi la porpora, seppur senza arrivare alle degenerazioni del III secolo con più di cinquanta pretendenti in cent’anni. Durante la prima giornata della sanguinosa battaglia del fiume Frigido i goti furono schierati in prima linea subendo perdite gravissime al punto che un autore romano, Orosio, affermò che sul Frigido vi erano stati due sconfitti: Eugenio e i goti che erano stati a tal punto indeboliti da non poter più essere considerati una minaccia; in effetti i goti non smisero mai di sospettare che il loro massacro non fosse stata una circostanza di guerra bensì un piano pre-congeniato. Quando nel 395 d.c. l’imperatore Teodosio morì i tervingi e gereutingi erano pronti a ribellarsi di nuovo a Roma per ottenere una revisione in loro favore del precedente trattato e la loro prima mossa fu quella di darsi un capo unico: Alarico. Questi è uno di quasi personaggi che pare quasi comparire nella storia perché antecedentemente alla sua ascesa come leader della rivolta abbiamo solo frammenti della sua vita come una sua presenza sul Frigido e un’azione di guida durante una delle tante piccole insurrezioni gotiche locali. Sicuramente però doveva già all’epoca disporre di un ampio prestigio se i goti decisero di affidarsi a lui per portare avanti le loro rivendicazioni tra le quali è probabile, dato che nessuno storico romano ci riferisce quali fossero, vi fosse il riconoscimento del ruolo politico di Alarico con la nomina a generale dell’Impero Romano. La scelta di un capo unico poi non rifletteva solo necessità d’ordine militare bensì metteva a nudo un fatto nuovo e cioè che la precedente divisione tra Tervingi e Geretungi si era andata progressivamente riducendo fino a che i due gruppi non avevano finito per fondersi in un’unica entità. Le ragioni di tale processo, comune a un po’ tutto il mondo Germanico tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, trova la sua ragione nel vantaggio della maggior forza contrattuale che se ne ricava visto che la politica di Roma era sempre stata quella di approfittare delle divisioni interne tra i germani per metterli gli uni contro gli altri (divide et impera). I romani si trovarono davanti a un grosso problema: i goti unificati erano una forza temibile e nessuno ci teneva ad andare incontro a una seconda Adrianopoli, ma vi era allo stesso tempo una carenza di leadership tra i romani perché a Costantinopoli era divenuto imperatore il giovane e debole Arcadio e, intorno a lui, si era accesa una lotta di potere dove nessun contendente intendeva rovinarsi trattando la pace con gli odiati goti. Si creò quindi una situazione di stallo perché nessuna delle parti intendeva rischiare il tutto per tutto sul campo di battaglia, ma allo stesso tempo i romani lasciavano cadere nel nulla ogni abboccamento fatto da Alarico nel tentativo di avviare una trattativa. Il capo dei goti non ebbe così altra scelta che devastare i Balcani sino ad Atene nella speranza che la visione di tanta morte e distruzione spingesse Costantinopoli a sedersi al tavolo delle trattative. Bisognò aspettare il 397 d.c. perché il più forte dei cortigiani di Arcadio, un eunuco di nome Eutropio, sentisse la sua posizione sufficientemente stabile da arrischiarsi a una trattativa con i goti che si concluse con un trattato che assegnava loro la Dacia e la Macedonia, sempre all’interno dell’impero, con piena libertà di usare la produzione locale per la loro sussistenza. Per Alarico l’accordo era assolutamente perfetto dato che il suo piano politico non era, né sarebbe stato mai, la creazione di uno “stato” gotico indipendente da Roma. Con grande intelligenza il capo gotico aveva compreso che lo status di foederati all’interno di un Impero che, seppur in difficoltà, restava ancora la prima poteva d’Europa poteva offrire vantaggi molto più sostanziali di qualsiasi indipendenza; la cosa importante era che Costantinopoli smettesse di trattare i goti come ospiti non graditi riconoscendogli un ruolo  politico attraverso l’inserimento dei suoi capi nelle gerarchie militari dell’impero. A Costantinopoli però, con un autolesionismo che sarebbe diventato il marchio di fabbrica romano nella gestione dei goti, invece di far buon viso a cattivo gioco e tentare di trarre il meglio dalla stabilizzazione di un popolo che avrebbe comunque continuato a fornire truppe all’impero si decise di rovesciare il tavolo. Nel 399 d.c. Eutropio, ampiamente detestato sia dalla corte che dal popolo sia perché eunuco sia perché si era accordato coi goti, venne rovesciato e i suoi successori fecero carta straccia dell’accordo. Paradosso a far cadere Eutropio fu un generale di origini gotiche, Gaina, che però non potette festeggiare a lungo perché meno di anno dopo fu lui a passare dall’altare alla polvere. La caduta di Gaina però serve a mostrare quanto grande fosse ormai divenuta l’intolleranza del mondo romano orientale contro i goti; al generale fu infatti concesso di ritirarsi a vita privata, ma a Costantinopoli si scatenò un violentissimo pogrom anti-gotico. Questi eventi dovettero rendere evidente ad Alarico che non vi era, né vi sarebbe stata in un futuro prossimo, alcuna speranza di accordarsi con la corte di Bisanzio. Urgeva dunque trovare una nuova linea d’azione in quanto continuare a devastare sine die i Balcani non era un opzione; l’unica possibilità realistica era di muoversi verso occidente nella speranza di ottenere da Ravenna ciò che era stato rifiutato da Costantinopoli. Così nel 401 d.c. Alarico portò i goti in Italia intenzionato a saccheggiare e devastare così da intimidire la corte imperiale, ma stavolta si trovò davanti qualcuno che non aveva timore di scendere sul campo di battaglia per affrontarlo: Flavio Stilicone. Stilicone, insieme al suo successore Ezio, fu l’ultima personalità d’occidente che invece di vivere alla giornata cercò di mettere in atto un progetto politico che permettesse alla pars occidentalis dell’Impero di sopravvivere alla tempesta che si profilava all’orizzonte. Come Gaina anche il reggente d’occidente era figlio di un ufficiale dell’esercito d’origine barbarica, vandalica per l’esattezza, e di una nobildonna romana ed era stato un eccellente ufficiale sotto Teodosio ottenendo molte promozioni sotto il regno di questi. Durante la guerra contro l’usurpatore Eugenio Stilicone accompagnò l’imperatore in occidente venendo nominato comes et magister utriusque militiae praesentalis (il più alto grado militare) al comando di tutte gli eserciti romani d’occidente. Solo due anni dopo la vittoria Teodosio cadde gravemente malato a Milano e sul letto di morte mandò a chiamare Stilione; nessuno conosce i contenuti di questo dialogo, ma il generale affermò, e nessuno lo contestò, che l’imperatore l’aveva nominato custode del figlio Onorio, appena dodicenne, cui aveva lasciato la pars occidentalis dell’impero. Mostrando dubito prudenza e capacità nell’arte del compromesso Stilicone si adoperò subito per crearsi una base stabile di potere corteggiando il senato, che non aveva avuto esitazioni ad acclamare Eugenio per ostilità nei confronti di Costantinopoli, garantendo un’amnistia a tutti coloro che avevano collaborato con l’usurpatore. Stilicone era però anche ambizioso e puntava a riunire le due metà dell’impero sotto la sua tutela; per far ciò cambiò all’improvviso la sua versione dell’ultima conversazione con l’imperatore morente affermando che questi aveva posto sotto la sua custodia anche Arcadio. Ovviamente a Costantinopoli l’idea di cedergli il potere non venne neanche presa in considerazione così Stilicone si preparò a far valere i suoi diritti, o presunti tali, attraverso le armi. L’occasione per farsi avanti venne proprio con la rivolta di Alarico; per due volte, nel 395 e nel 397 d.c., Stilicone inviò le sue forze in Oriente ufficialmente per aiutare, ma di fatto nella speranza che queste sconfiggessero i goti trasformando lui nel salvatore di Costantinopoli nonché suo legittimo governatore. La torma di cortigiani che circondava Arcadio intuì subito le intenzioni del reggente d’occidente e cercò di metterlo in difficoltà fomentando il governatore del Nord Africa, la provincia più ricca d’occidente, perché si ribellasse; è bello vedere come me mentre i Balcani venivano devastati dai goti le due pars dell’impero si preoccupavano di più di farsi la guerra tra loro. Stilicone riuscì a stroncare la rivolta prima che il blocco dei rifornimenti di grano all’Italia potesse minacciare la sua posizione, ma superata una crisi se ne prospettò all’orizzonte ben presto un’altra: stava arrivando Alarico. Il reggente d’occidente non era assolutamente intenzionato a farsi ricattare dal capo dei goti, ma neppure di lasciare che questi trasformasse l’Italia nei Balcani così si apprestò ad un’azione di contenimento consapevole che, senza appoggi in loco, Alarico prima o poi si sarebbe trovato a corto di rifornimenti e costretto a ritirarsi cosa che avvenne nel 402 d.c.. Alarico si trovò così bloccato in una sorta di limbo politico nelle sue basi della Dacia e della Macedonia per tre anni quando, improvvisamente, una luce si accese proprio ad opera di Stilicone. Il reggente d’occidente aveva dovuto affrontare, nel 405 d.c. una nuova pericolosissima minaccia: un nuovo movimento degli unni verso ovest stava di nuovo agitando i popoli germanici e dalla pianura ungherese un re goto, Radagaiso, si mise alla testa di un esercito multietnico per guidarlo oltre il Danubio direttamente in Italia. Stilicone stavolta non si limitò a temporeggiare, ma lo affrontò direttamente sul campo di battaglia a Fiesole sconfiggendolo. I migliori guerrieri dell’esercito sconfitto vennero inserito da Stilicone nel suo esercito mentre Radagaiso fu giustiziato a Firenze nell’Agosto del 406 d.c.; pareva che l’occidente avesse egregiamente parato il colpo invece, appena quattro mesi dopo la morte del re goto, una multiforme coalizione di Vandali, Alani e Svevi forzò il limes del Reno riversandosi in Gallia. La situazione era difficile: i piani di Stilicone per riunire le due parti dell’Impero erano fallite, ma questi aveva ancora un saldo controllo dell’occidente sia in ragione delle reti di clientele che aveva creato sia grazie al rapporto personale di fiducia che aveva con l’imperatore Onorio cui, per legarlo più a sé, fece sposare sua figlia Maria. Apparentemente la soluzione più sensata sarebbe stata quella di muovere rapidamente verso Nord per tentare di arginare i barbari sul Reno invece Stilicone puntò di nuovo contro Costantinopoli cercando per altro l’aiuto proprio di Alarico. Il suo obiettivo stavolta non era la riunificazione dell’impero bensì la restituzione, dal suo punto di vista, delle diocesi (il nome che era dato all’epoca alle province) di Macedonia e Dacia minacciando guerra in caso contrario. Perché questa scelta? Gli storici se lo sono chiesto a lungo e se alcuni hanno provato ad argomentare che semplicemente il generale, vittima della sua megalomania, non si rendesse conto della catastrofe che si stava profilando sul Reno, altri pensano invece che questi avesse un ben preciso piano d’azione. Le due diocesi da lui pretese erano da secoli un eccellente bacino di reclutamento quindi, forse, Stilicone tentava solo di procacciarsi i mezzi per far fronte alla crisi che si era aperta ottenendo la manodopera militare di cui aveva disperato bisogno. Inoltre in Dacia e Macedonia era già stanziato un gigantesco contingente militare perfettamente addestrato, i goti di Alarico, per cui potrebbe essere che il reggente d’occidente meditasse di venire a patti con questi per poi spedirlo sul Reno. Ricordiamo che Alarico non desiderava altro che un accordo più vantaggio di quello ottenuto dai suoi antenati e se questo gli veniva offerto dall’oriente o dall’occidente poco gli importava; lo stesso poco gli importava se una delle condizioni della controparte era di essere usati per scopi bellici purché il conquibus fosse adeguato. Va precisato che siamo però nel capo delle ipotesi perché nessuna testimonianza certa c’è giunta in merito alle reali intenzioni di Stilicone e la propaganda successiva alla sua morte che puntava a dipingerlo con un barbaro intenzionato a distruggere Roma dall’interno non ha certo facilitato il sorgere di pareri storici obbiettivi. Personalmente faccio fatica a pesare che Stilicone fosse talmente accecato dalla sua ambizione di governare l’oriente da non rendersi conto, appena pochi mesi dopo il rischio corso con Radagaiso,  che lo sfondamento del limes a nord poteva avere conseguenze gravissime. L’ipotesi che è stata avanzata di un suo piano d’azione diretto tanto al breve quanto al lungo periodo mi pare assolutamente sensato in quanto altrimenti perché minacciare la guerra con Costantinopoli solo per due diocesi? Secondo me Stilicone stava anticipando quella che sarebbe stata la tattica di Ezio cioè usare interi popoli germanici, nel suo caso i goti in quello di Ezio gli unni prima e i visigoti poi, come arma per compensare le ridotte capacità militari dell’Impero. C’era poi la questione di cosa dare in cambio ad Alarico il quale, in primo luogo, chiedeva un’area di stanziamento per il suo popolo e Stlicone, evidentemente, invece di cedergli una parte dell’occidente pensò bene di farsi dare da Costantinopoli le terre dove i goti già si trovavano in modo tale da garantire loro in loco la maggior autonomia che desideravano senza allo stesso tempo creare una pericolosa enclave magari in Gallia o Spagna. E‘ probabile che Stilicone non puntasse a entrare davvero in conflitto aperto con Costantinopoli, ma contasse che l’unione dei goti con un esercito romano fosse una minaccia sufficiente a costringere la corte di Arcadio ad accettare, obtorto collo, le sue condizioni. Alarico si spostò in Epiro, ancora parte dell’occidente, in attesa della fine dell’inverno del 407 d.c. e dell’arrivo delle forze di Stilicone con cui eseguire uno sfoggio di muscoli sufficiente a spaventare Costantinopoli. Nulla di tutto questo però vide mai luce perché la situazione però a Nord peggiorò ben più rapidamente di quanto ci si poteva aspettare; non solo non era stato possibile contenere i germani sul Reno, ma l’usurpatore di Britannia Costantino III passò in Gallia ottenendo la fedeltà di molte città che si sentivano abbandonate da Ravenna. Il reggente d’occidente si stava ormai muovendo sulla lama di un coltello: la Britannia era perduta, la Gallia invasa e l’esercito da lui inviato non era stato in grado di contenere tanto i germani che l’usurpatore mentre Alarico in Epiro iniziava a perdere la pazienza. Per Alarico il problema non era solo di natura strettamente militare, ma anche interno; dopo quasi un decennio dall’inizio della sua insurrezione senza risultati tangibili la sua leadership iniziò ad essere messa in discussione per cui gli era necessario dimostrare di avere ancora il pieno controllo della situazione. Il capo goto decise così di provare a forzare la mano a Stilicone pretendendo i pagamenti che gli erano stati promessi e, per aggiungere ferro al guanto, spostò nuovamente i suoi dall’Epiro fin nel Norico sulle Prealpi lasciando dunque intendere di essere pronto a una seconda calata in Italia. Ovviamente questa mossa di Alarico non poté arrivare in un momento peggiore per Stilicone che già faceva fatica a barcamenarsi tra i germani e Costantino III. Onorio e il senato, evidentemente vittime di un complesso di superiorità nei confronti dei goti e quindi incapaci di comprendere la situazione, avrebbero voluto far la guerra ad Alarico, ma Stilicone capì che aggiungere in quel momento un terzo nemico poteva essere la rovina e riuscì a difendere questa linea facendo uso di tutta la sua influenza e della sua capacità retorica. Quella del reggente d’occidente fu però una vittoria di misura e, sentendo odore di sangue, si iniziò a coagulare un opposizione contro di lui proprio nel momento in cui il rapporto personale tra Stilicone e Onorio subiva i primi scossoni. Nel Maggio del 408 infatti morì Arcadio lasciò sul trono di Costantinopoli un bambino di sette anni, Teodosio II, e tra Stilicone e Onorio ci fu un profondo disaccordo su chi dei due dovesse recarsi in Oriente per gestire la situazione; alla fine il reggente d’occidente la ebbe vinta, ma Onorio si sentì umiliato e, probabilmente, per la prima volta mise in dubbiò l’imprescindibilità del suo custode. La situazione dopotutto pareva giorno per giorno sempre peggiore e Stilicone non pareva in grado di formulare un piano realistico su come gestire il caos della Gallia; in quel momento salì in cattedra il leader dell’opposizione anti-reggente, un anziano uomo politico di nome Olimpio, il quale mise in giro la voce che Stilicone ci tenesse tanto ad andare a Costantinopoli per poter rovesciare Teodosio II e sostituirlo con suo figlio Eucherio. Il 13 Agosto 408 d.c. Onorio si recò a Pavia per ispezionare le truppe che stavano per partire alla volta della Gallia quando scoppiò un ammutinamento contro gli uomini di Stilicone che furono massacrati; in un  primo momento credendo che l’imperatore fosse morto il reggente d’occidente pensò di riunire le truppe germaniche lui fedeli e di muovere verso Ravenna per punire gli organizzatori della rivolta. Venuto però a sapere che Onorio era vivo Stilicone decise di non procedere con questo piano e, nonostante fosse consapevole che i suoi nemici avessero convinto l’imperatore a sbarazzarsi di lui, non tentò alcuna resistenza rientrando a Ravenna per finire giustiziato il 22 Agosto. Il reggente d’occidente uscì così di scena con grande dignità e, a fronte della accuse di tradimento e la damnatio memoriae, resta l’immagine di un uomo che, invece di buttare un impero già sull’orlo della rovina nella guerra civile, andò incontro al suo destino. Triste conclusione quello di questo servitore dello stato che dopo la morte fu etichettato come “pubblico brigante” e le cui proprietà vennero confiscate. Fu ambizioso? Certamente. Voleva farsi Imperatore? Improbabile perché quando ne ebbe l’occasione avendo a disposizione 15.000 fedelissimi soldati germanici non agì sebbene consapevole di quale potesse essere l’alternativa. Stilicone probabilmente si rese conto che il mondo germanico non era più uno spauracchio lontano ai confini dell’impero bensì una realtà interna che andava gestita magari tentando di integrare progressivamente quei popoli più affidabili all’interno delle sue strutture; non nego che alcune sue scelte siano discutibili, ma resta il confronto impietoso tra il suo pragmatismo nel cercare una soluzione ai problemi della pars occidentalis e le decisioni altezzosamente suicide dei suoi successori. Il nuovo regime guidato da Olimpio infatti stacciò gli accordi con Alarico e assunse un atteggiamento di ostile superbia nei confronti dei goti il che di per sé non era un errore, ma doveva essere accompagnato con azioni concrete per non trasformarsi in una pericolosa minaccia con una pistola scarica. Come se non bastasse si decise di dare avvio ad una serie di prescrizioni nei confronti di soldati di origine barbarica, le cui famiglie vennero spesso massacrate, che non ebbero altra alternativa alla morte del trovare rifugio presso Alarico aumentando il già considerevole numero di truppe a sua disposizione fino a 30.000 uomini. Per il re goto la caduta di Stilicone era stata una pessima notizia perché scompariva l’unica personalità all’interno dell’impero che si era detta pronta a trattare con lui. Il rischio per i goti di trovarsi di nuovo sospinti in un angolo era serio, ma Alarico dovette intuire che Olimpio c’era più fumo che arrosto e quindi decise di andare a vedere il suo bleff. Nel 408 d.c. i goti, dopo essersi riuniti con il contingente rimasto di retroguardia in Pannonia al comando di Ataulfo, passarono le Alpi entrando in Italia e puntando su Roma. Era dai tempi di Annibale che un esercito ostile non romano penetrava tanto in profondità nella penisola e la cosa più grave fu che il condottiero cartaginese venne almeno affrontato, andando certo incontro a disastri, mentre i goti poterono razziare e distruggere praticamente indisturbati. A Novembre Alarico fu ad portas e fu subito evidente che il suo obiettivo non era una sterile conquista della città eterna, ma fare bottino… e farne tanto. Il re goto aveva infatti bisogno di quietare gli animi dei suoi e quale modo migliore se non quello di foraggiarli con i tesori custoditi dietro le mura della città eterna. Nonostante quasi da un secolo l’urbe non fosse più la capitale essa restava pur sempre il simbolo perché l’Impero era pur sempre romano, la cittadinanza di mezz’Europa era romana e il senato di Roma primeggiava ancora sul suo doppione di Costantinopoli perché restava il luogo dove si erano seduti Scipione, Cicerone e Cesare. Era dunque chiaro che, sebbene la capitale d’occidente fosse a Ravenna,  la presenza di un esercito barbarico accampato fuori dalle porte di Roma fosse un’immagine quasi apocalittica, la fine di un’era storica o la perfetta chiusura di un ciclo storico iniziato con i Galli di Brenno nel 390 a.c.. Non si tentò neanche una resistenza, ma si aprì immediatamente la cassa per offrire ai goti 5000 libbre d’oro, 30000 libbre d’argento più meri di varia natura come seta, pelli e spezie. Alarico fu ben lieto di accettare l’offerta non essendo mai stato il suo piano quello di perdere uomini in un inutile assalto alle mura aureliane, ma contemporaneamente cercò di nuovo di giungere a un compromesso con l’Impero chiedendo al senato di farsi mediatore tra lui e Ravenna per convincere Olimpio a tornare al tavolo delle trattative. La rappresentanza senatoria si recò dunque a Ravenna per spiegare ad Onorio che la situazione era gravissima e dunque urgeva riaprire la trattative con i goti al fine di giungere ad un’alleanza con questi. L’imperatore biascicò qualche blanda rassicurazione che gli emissari ingigantirono a uso e consumo di Alarico il quale, sentendosi rassicurato, volle dare prova di buona volontà togliendo il campo da Roma e spostandosi in Toscana. A Ravenna però il partito anti-gotico di Olimpio non aveva nessuna intenzione di avviare una trattativa, allo stesso tempo però semplicemente non fece nulla pur avendo nel bel mezzo dell’Italia un esercito ostile. Mi sono sempre chiesto se questa gente semplicemente navigasse a vista o si illudesse che magari aspettando prima o poi Alarico sarebbe evaporato da sé… è davvero incomprensibile l’atteggiamento di assoluto immobilismo che si ebbe in questo decisivo momento storico. Col passare dei mesi il capo dei goti iniziò sospettare di essere stato di nuovo ingannato e la sua frustrazione passò il livello di guardia quando un suo contingente cadde in un’imboscata di mercenari unni al soldo romano presso Pisa. Deciso a far capire a Onorio una volta per tutte che non stava scherzando si portò di nuovo a Roma e impose al senato di inviare a Ravenna una seconda ambasciata “scortata” stavolta da alcuni suoi uomini. Messo stavolta di fronte l’aut aut di Alarico l’imperatore non ebbe altra scelta che licenziare Olimpio e affidarsi a un ex uomo di Stilicone, il prefetto del pretorio Giovio, che passò rapidamente in rassegna le opzioni sul tavolo: dare battaglia ad Alarico era semplicemente suicida per cui l’unica scelta era cedere alla sua richiesta di trattare. Giovio incontrò il capo dei goti a Rimini e sembrava che l’Impero d’occidente fosse sul punto di cedere perché la situazione in Gallia era talmente drammatica che l’Italia andava subito stabilizzata; Alarico chiedeva un tributo annuo in oro e grano, la possibilità per i goti di stabilirsi tra il Veneto, il Norico e la Dalmazia e infine la nomina a magister utriusque militiae dell’esercito romano. Giovio suggerì all’imperatore di accettare tutte le condizioni, anche perché il tentativo di far entrare di nascosto 6000 uomini a Roma era miseramente fallito, ma Onorio era disposto a cedere su tutto fuorché sulla nomina di Alarico a generale e lo mise in chiaro in una lettera dai toni tutt’altro che diplomatici. Il capo dei goti però seppe giocare d’astuzia e dopo esseri irritato, o aver finto di esserlo, tornò conciliante chiedendo ad alcuni vescovi di portare a Ravenna un suo messaggio personale in cui si diceva pronto ad accettare solo i tributi nonché le due province di frontiera del Norico. Ancora una volta Alarico dava prova che il suo obiettivo principale era giungere a un accomodamento definitivo con l’Impero che risultasse accettabile anche per questi sul lungo periodo. Secondo lo storico Peter Heather ciò era dovuto al suo timore delle potenzialità dell’Impero romano, in quel momento certamente  in crisi, che se spiegate di nuovo in tutta la loro forzo avrebbero potuto annientare i goti; certo in quel momento l’impero seppur scheggiato era ancora integro però secondo me la sua moderazione era dovuta alla volontà di non ripetere l’errore fatto con Stilicone. Alarico probabilmente aveva capito che la sua impazienza aveva contribuito alla caduta del reggente d’occidente, cosa che si era rivelata molto negativa per i goti, e che quindi era meglio non tirare di nuovo troppo la corda bensì giungere a un accordo quantomeno sufficiente prima che la situazione nel Nord si facesse a tal punto critica da ritrovarsi di nuovo senza una controparte con cui trattare. Cosa sarebbe successo infatti se il pretendente Costantino III, che proprio in quel momento stava tentando di legittimare il figlio come erede al trono, avesse vinto ridando unità all’Impero? Oppure peggio se l’intero limes renano fosse crollato e si fosse riversata nell’Impero un’altra orda di Germani che sgomitavano per ottenere un posto? Meglio allora prendere l’oro e le terre e rimandare la questione del generalato a quando Ravenna avrebbe avuto un disperato bisogno di lui e delle sue truppe per salvare il salvabile. Incredibile a dirsi, ma Ravenna rifiuto di nuovo anche la proposta di conciliazione! Qui siamo nel masochismo puro perché non esiste alcuna ragione razionale per continuare ad avere un esercito ostile in armi accampato in Italia anche quando questi aveva offerto termini assolutamente ragionevoli e che fino a poco prima sembrava essere accettabili. Alarico fece così di nuovo dietro front per tornare sotto le mura aureliane senza per la terza volta provare a entrarvi con la forza, ma trattando di nuovo col senato perché eleggesse un nuovo imperatore nella persona del patrizio Prisco Attalo. L’idea di “creare” un proprio imperatore ci poteva stare soprattutto perché poteva risvegliare l’orgoglio di Roma contro Ravenna che gli aveva sottratto il ruolo di capitale dell’Impero e in effetti sul momento parve funzionare perché i goti si impegnarono a sottomettere molte città del centro-Italia alla potestà del nuovo Augusto. La stessa Ravenna venne messa sotto assedio e un esercito venne inviato in Africa, rimasta fedele ad Onorio, che, come già detto, era il granaio dell’Impero d’occidente; Onorio parve sul punto di darsi alla fuga perché anche il suo esercito, non pagato da mesi, pareva ormai sul punto di ammutinarsi e passare dalla parte di Attalo quando… la salvezza! Costantinopoli inviò 4000 uomini a Ravenna per difendere la città e il tentativo di Attalo di ottenere l’Africa fallì così che, coi tributi provenienti da Cartagine, Onorio poté comprare la fedeltà dei suoi. Alarico capì che il suo esperimento era fallito e senza pensarci due volte rovesciò la sua creatura offrendola a Onorio come gesto di riconciliazione sperando ancora una volta che la ragione fosse tornata a Ravenna e si potesse finalmente trattare seriamente. Venne organizzato un incontro a 12 km da Ravenna, ma l’anti-goticismo era ancora forte tra gli ufficiali dell’esercito romano che diedero incarico a un goto rinnegato di nome Saro di tendere un agguato a Alarico per mandare a monte il negoziato. Saro era fratello di Sigerico che già nel 390 d.c. aveva tentato di contendere ad Alarico la guida dei goti e ci avrebbe provato ancora in seguito. Per il capo dei goti era troppo; non solo Ravenna lo aveva continuamente preso in giro, ma adesso usava un suo avversario interno per tentare di ucciderlo? Per la quarta volta puntò su Roma stavolta però intenzionato a mandare un messaggio che fosse udito in tutto l’Impero Romano da Occidente a Oriente: dopo un breve assedio a una Roma già stremata dai precedenti tre il 24 Agosto 410 d.c. la porta Salaria si aprì. Nessuno sa come fecero i goti a espugnare Roma; la versione storica dei 300 giovani goti inviati come omaggio ai senatori pare troppo una riedizione di scarsa fantasia del “cavallo di Troia” per risultare credibile e io sono d’accordo con coloro che ritengono che non vi fu nulla di epico o drammatico… semplicemente Roma, stremata, si arrese. L’andamento dell’sacco sembra portare acqua a questa tesi di una resa condizionata dalla garanzia di aver salva la vita perché, contrariamente a ciò che accadde coi lanzichenecchi 1527, tutto andò in maniera abbastanza “civile”: i goti, che erano cristiani, trattarono col massimo rispetto le chiese della città dichiarandole zone d’asilo per la popolazione e successive testimonianze raccontano addirittura che gli stessi saccheggiatori aiutarono le matrone più in vista a recarvisi. I paramenti liturgici di San Pietro furono lasciati dov’erano e l’unico furto sacro degno di nota di cui ci è giunta notizia fu quello di un ciborio in Argento donato da Costantino alla Basilica del Laterano. Per il resto la città venne metodicamente razziata, ma senza accanirsi sui monumenti o sulle strutture tant’è che sembra che gli unici danni rilevanti furono nella zona della Porta Salaria, cioè da dove i goti irruppero, e alla vecchia sede del sanato nel foro. Il bottino fu immenso, ma più che il senso monetario il sacco fu un evento simbolico che colpì l’intero mondo conosciuto come un terremoto: Roma era stata saccheggiata! Non succedeva da ottocento anni cioè dai tempi di Brenno che gettava la sua spada sulla bilancia del riscatto urlando “Vae Victis!”. Generazioni cresciute nel mito dell’invincibilità di quel simbolo di eternità lo vedevano adesso mestamente crollare d’innanzi ai loro occhi! Per i cristiani fu come il segnale dell’imminenza della fine del mondo e alcuni, come Gerolamo, pianse la caduta della città che rappresentava tutto ciò che c’era di buono al mondo; ma anche gli ultimi seguaci del paganesimo avrebbero detto la loro affermando che questo era il risultato dell’abbandono del culto dei padri perché, fintato che Giove era stato onorato, Roma non era mai caduta. Soprattutto però prese la parola Sant’Agostino che dalle riflessioni nate sull’onda della notizia del sacco gettò le basi della sua monumentale “De civitate Dei” in cui elabora la sua dottrina delle due città quella terrena e quella celeste; Roma era solo la miglior città terrena che con la sua pax aveva certo garantito una strada per avvicinarsi a Dio, ma non era la Gerusalemme celeste irraggiungibile e inconfrontabile con qualsiasi città terrena per quanto splendida fosse. Ogni città terrena è in fondo illegittima e per questo Roma è caduta, solo la città di Dio non potrà mai cadere e la città di Dio non è dei romani o dei goti, ma di tutta la comunità dei fedeli che deve alzare lo sguardo verso essa abbandonando finalmente la futilità del mito della Roma Aeterna. In un attimo Agostino declassa l’Impero Romano a uno stato tra i tanti del divenire storico destinato a scomparire di fronte all’unica eternità che è quella di Dio.

Tre giorni durò il sacco, tre giorni durante i quali Alarico probabilmente non si chiese altro di che fare? Perché Ravenna non si era mossa quand’era stato per tre volte sotto Roma, non si era mossa quando la quarta volta aveva saccheggiato Roma ed era quindi realistico credere che non si sarebbe mossa mai; l’accordo che inseguiva da ormai più di un decennio era una chimera irraggiungibile e bisognava prenderne atto cambiando completamente gli obiettivi dei goti. Alarico rinunciò all’idea di stabilire i suoi all’interno dell’Impero e per primo tra i capi germanici accarezzò il progetto di occupare una porzione di questo per farne un regno indipendente, un idea che avrebbe presto messo radici. Il suo sguardò si posò sul Nord Africa, ma una tempesta fece affondare la flotta riunita per lo scopo e solo poche settimane dopo, mentre si trovava nei pressi di Cosenza, cadde malato morendo a neanche un anno dall’impresa che avrebbe consegnato eternamente il suo nome alla storia. La leggenda vuole che i suoi uomini fecero deviare il corso del fiume Busento per seppellirne il corpo nel letto prima di massacrare tutti gli schiavi che avevano partecipato ai lavori in modo che la memoria del luogo andasse perduta. Ciò che accadde dopo è un’avvincente storia che riguarda il tesoro più prezioso portato via da Roma, Galla Placida sorella dell’imperatore, il nuovo capo dei goti Ataulfo e l’ultimo vero imperatore d’occidente Flavio Costanzo, ma che non è il caso di trattare in questa sede.

Ciò che lascia sgomenti di tutta questa vicenda è, lo ripeto ancora una volta, l’atteggiamento assolutamente irrazionale tenuto dalla corte di Ravenna in opposizione a quello pragmatico e dialogante del “barbaro” Alarico. Fu come se l’Impero Romano si ritrovasse prigioniero del suo stesso mito e quindi convinto che la sua superiorità militare e culturale dovesse, alla fine, avere la meglio in un modo o nell’altro. Tale era questa convinzione che vennero messi da parte tutti coloro che, Stilicone in testa, tentavano invece di essere realisti. Per entrambe le pars dell’Impero era inaccettabile scendere a patti con un germano, ma allo stesso tempo non si aveva alcuna reale alternativa e così ci si limitò a restare a guardare.  E’ incontestabile che Alarico saccheggio Roma solo quando non vide altre possibilità per convincere una corte imperiale apparentemente completamente fuori dalla realtà e non in grado di comprendere quale significato simbolico avrebbe avuto l’immagine di un’urbe violata. L’Impero Romano d’occidente ebbe ancora qualche boccata d’ossigeno, ma decise per il definitivo suicidio quando nel 454 d.c. l’imperatore Valentiniano III uccise l’ultimo romano d’0ccidente Flavio Ezio (la cui vicenda ho già trattando nell’articolo sulla battaglia dei Campi Catalaunici) in una specie di deja vu di ciò che era successo con Stilicone. I goti ebbero miglior fortuna e, stabilitisi dopo alterne vicende nel sud della Francia, crearono infine tre grandi regni uno in Aquitania distrutto dai Franchi, uno in Italia che dopo gli splendori di Teodorico il grande cadde alla fine di una lunga guerra contro i Bizantini di Giustiniano e infine uno nella penisola iberica che, sebbene in gran parte travolto dagli arabi, impregnò di se il Regno delle Asturie capostipite della nazione spagnola.

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