Con questo articolo concludo un ciclo cioè quello dedicato alla sequenza di eventi che avrebbe condotto alla fine della pars occidentalis dell’Impero Romano; un ciclo iniziato con la narrazione della battaglia dei Campi Catalaunici, cioè l’ultimo colpo di coda di una romanitas ormai morente nell’Europa occidentale, continuato con la vicenda del sacco di Roma, e quindi la fine del mito dell’inviolabilità dell’Urbe, e giunto oggi a conclusione con l’evento zero, l’inizio della crisi che avrebbe travolto l’Impero e un intero mondo: la battaglia di Adrianopoli.
L’origine degli eventi che avrebbero determinato la catastrofe è da ricercare in Asia, in un momento imprecisato tra il I e il IV secolo d.c. quando la popolazione che poi l’Occidente avrebbe conosciuto come Unni iniziò la sua migrazione dai confini dell’Impero cinese direzione le pianure dell’Ucraina. Non sappiamo quali siano state le ragioni di questo spostamento, sono state avanzate varie ipotesi dalla sete di ricchezza a un generale spostamento di tutti i popoli nomadi ai confini della Cina, ma è certo che fu la comparsa di questi cavalieri asiatici nel bacino del Mar Nero attorno al 370 d.c. a determinare la rivoluzione geopolitica che avrebbe dato inizio alle così dette invasioni barbariche. Generalmente gli storici accettano la cronologia degli eventi fornita da Ammiano Marcellino. Come detto attorno al 370 d.c. gli Unni si affacciarono all’altezza del Volga travolgendo gli Alani, che vennero sottomessi e costretti ad entrare nell’orda; immediatamente dopo gli Alani gli Unni iniziarono a premere contro i Greutungi, una delle tante tribù che comprendeva la galassia etnica in seguito nota come Goti. I Greutungi tentarono di resistere sotto i re Ermanarico e Vitimero, ma la morte in battaglia di quest’ultimo spinse i suoi successori Alateo e Safrax a decidere per una ritirata verso occidente attorno la metà del 375 d.c.. Come nel gioco del domino i Greutungi movendosi iniziarono a fare pressione suoi loro vicini Tervingi, anche loro Goti, i quali si trovarono a dover contemporaneamente resistere a questa marea umana nonché ai contingenti Unni che continuavano ad avanzare. Non riuscendo a opporre una valida resistenza ai cavalieri asiatici lungo le vecchie fortificazioni della Dacia romana i Tervingi elessero due nuovi capi, Alavivo e Fritigerno, che decisero di muovere in direzione del Danubio per trovare salvezza all’interno dei confini dell’Impero. Così agli inizi del 376 d.c. le guarnigioni romane di stanza sul limes danubiano iniziarono a vedere ammassarsi sull’altro sponda del fiume una massa di uomini, donne e bambini; oltre ai Tervingi c’erano anche i Greutungi che si erano uniti ai loro “cugini” durante la ritirata. A questo punto però avvenne un fatto che ha spinto Peter Heather ad avanzare delle perplessità sulla sequenza di eventi così come generalmente accettata. I goti infatti inviarono un’ambasceria all’Imperatore della pars orientalis Valente, che in quel momento si trovava ad Antiochia, per chiedere di poter essere accolti dentro i confini dell’Impero; dal Danubio ad Antiochia tra andata e ritorno ci vollero molti mesi per avere la risposta imperiale e durante questo periodo i goti rimasero in paziente attesa sulle rive del fiume. Ora questo non sembra certo il comportamento di chi si trovava tallonato da un’orda ferocie; il che però, stando a Heather, non vuol dire che la migrazione Unna non vi fosse stata, ma che il suo andamento possa essere stato mal inteso. Leggendo Ammiano Marcellino si ha l’idea che l’intera orda Unna si sia riversata sui goti, ma è invece più probabile che l’orda, cioè la popolazione nel suo complesso, si fosse momentaneamente stabilita nelle terre degli Alani e che quindi solo diciamo un’ “avanguardia” avesse iniziato a premere contro i Greutungi. Questi, dopo un lungo conflitto, valutarono di non essere in grado di contenere questa spinta e decisero, prima di fare la stessa fine degli Alani, di abbandonare un’area divenuta troppo calda; nel far ciò i Greutungi misero in movimento anche i Tervingi i quali a loro volta, dopo pochi incontri, riconobbero l’incapacità gotica di far fronte alla forza militare unna. Dunque è probabile che nel 376 d.c. i Goti non avessero propriamente gli Unni alle calcagna, se non delle piccole unità più che altro di saccheggiatori, ma non intendessero allo stesso tempo restare in attesa che il grosso di questa popolazione iniziasse nuovamente a muoversi nella loro direzione. I romani avevano già avuto nei secoli precedenti rapporti con popolazioni dell’universo “barbarico” che in un certo momento iniziavano una migrazione verso l’Europa occidentale: Roma era stata saccheggiata dai Galli di Brenno nel 390 a.c., Mario aveva sconfitto i Cimbri e i Teutoni tra il 102-101 a.c., Cesare aveva giustificato la sua guerra gallica con la necessità di mettere i confini di Roma al sicuro da queste migrazioni e l’imperatore Marco Aurelio aveva dovuto far fronte al tentativo dei Marcomanni di forzare il Limes danubiano tra il 166 e il 189 d.c.. Non sempre però queste migrazioni si concludevano con un esito violento, soprattutto dalla metà del III secolo d.c. in poi era divenuto sempre più frequente che Roma accettasse di far stanziare all’interno dei confini dell’Impero popolazioni germaniche dietro precise condizioni, in particolare quella di rimpolpare le file degli eserciti dissanguati dai lunghi anni di anarchia e guerre civili pre-Costantino. Questi ingressi però erano controllati e organizzati in modo tale che Roma non perdesse mai il controllo militare della situazione; i “barbari” venivano fatti entrare solo dopo che gli Imperatori avevano stanziato in zona truppe sufficienti a spegnere sul nascere ogni intemperanza e inoltre alle popolazioni non veniva mai permesso di stanziarsi tutte in un solo luogo, ma venivano sparpagliate per tutto l’Impero al fine di evitare il crearsi di una grossa sacca ostile difficilmente controllabile. Nel 376 d.c le cose andarono però in maniera molto diversa; Valente infatti concesse il passaggio ai soli Tervingi, popolazione con cui i romani avevano già avuto lunghi contatti essendo stati stanziati molto più vicini al Limes, a condizioni però senza precedenti perché avrebbero mantenuto un forte autogoverno e avrebbero potuto scegliere la zona dove stanziarsi, scelsero la Tracia, in cambio della promessa di fornire contingenti di truppe all’esercito imperiale. Come mai un accordo così in contro tendenza con i precedenti? La risposta è che la crisi danubiana giunse nel momento peggiore per Valente; come abbiamo detto l’imperatore si trovava ad Antiochia e non era lì per vacanza, ma per seguire il precipitare di una lunga diatriba diplomatica con la Persia. Senza entrare nei dettagli tra il 371 e il 375 d.c. Valente e il re dei re persiano Sapore si era combattuti indirettamente nei regni di confine del Medio Oriente (Armenia e Iberia caucasica), ma nel 376 d.c. la situazione era precipitata con Valente che inviò tre ambascerie ultimative e iniziò i preparativi per una guerra radunando le legioni. I goti dunque si presentarono sul Danubio proprio nel momento in cui l’imperatore aveva bisogno di tutte le truppe a disposizione per fronteggiare la Persia; Valente si trovò così a negoziare coi Goti senza poter sfruttare quella forza militare che lo avrebbe messo in una posizione di vantaggio. Rimandare truppe sul Danubio avrebbe richiesto un anno, sempre che la Persia non avesse deciso di approfittare della situazione, così Valente decise di provare un difficile equilibrismo: seguendo il vecchio principio del divide et impera autorizzò la migrazione solo dei Tervingi, così da spezzare l’unità gotica e dover far fronte a un minor numero di persone, accettando condizioni al ribasso, ma stando ben attento a non trattare subito l’assegnazione delle terre coltivabili. In questo modo l’imperatore contava nel fatto che, una volta che i Tervingi avessero finito le scorte alimentari che si sarebbero portati, avrebbero dovuto fare appello ai romani per evitare la fame; attraverso il rifornimento di derrate Valente sperava di tenere sotto controllo i Goti il tempo sufficiente per schiacciare la Persia, ottenere aiuti dal nipote Graziano imperatore d’occidente e ridistribuire le forza militari in modo da poter rinegoziare l’accordo da una posizione di forza. Era una scommessa rischiosa, che vedremo si sarebbe risolta in un completo disastro, ma bisogna comprendere che in quel momento per Valente non poteva esserci scenario peggiore che quelli dei Goti, Greutungi e Tervingi insieme, che tentassero una forzature del Limes danubiano mentre il grosso del suo esercito era schierato contro quello che, all’epoca, era considerato il principale nemico dell’Impero.
Dunque i Tervingi ottennero il permesso di entrare mentre i loro “cugini” no e per sicurezza tutte le forze di terra e fluviali disponibili nei Balcani vennero mobilitate perché facessero buona guardia sul Danubio. Ovviamente gli agiografi di Valente tentarono di spacciare il trattato per una grande vittoria della romanitas e l’idea che in fondo l’imperatore fosse contento di poter rimpolpare le fila del suo esercito con un po’ di goti è ancora vivo oggi visto che molti storici accennano a questa tesi. Personalmente condivido più la teoria di Heather di un Valente tutt’altro che lieto e costretto a trovare la soluzione meno peggio a una crisi intempestiva. Dopotutto la migrazione dei goti era qualcosa di completamente diverso da ciò che i romani avevano affrontato in precedenza. Fino ad allora a fare domanda per entrare nell’impero erano state singole tribù o comunque gruppi limitati e quindi in numero gestibile; a passare il Danubio nel 376 d.c. erano stati 200.000 solo tra coloro che erano in età per combattere a cui bisogna aggiungere ovviamente donne, bambini, anziani ecc., ed è probabile che altrettanti erano rimasti dall’altra parte del fiume nelle file dei Greutungi. L’Impero si era assunto l’onere di nutrire questa gente nell’immediato, ma era un’impresa immane dato che il sistema logistico imperiale era già sotto pressione per la preparazione della campagna persiana. La scarsità di viveri fu aggravata dalla corruzione del Comes della Tracia Lupicino e dei suoi sottoposti che approfittarono di ogni occasione per ingrassare sulle spalle dei goti; divenne abitudine sottrarre parte dei carichi di derrate alimentari per vederle in cambio di denaro, schiavi o favori sessuali dalle donne dei goti. Ben presto il clima iniziò a farsi rovente e Lupicino pensò di concentrare i Tervingi vicini alla sua base di Marcianopoli; per far ciò però usò le truppe a guardia del Danubio e così i Greutungi ne approfittarono per attraversare a loro volta il fiume in tre diversi gruppi. Ben presto i due gruppi di goti si riunirono tornando a formare un fronte compatto e una forza superiore alle difese romane della regione. Avvenne a questo punto un evento mai del tutto chiarito: Lupicino invitò i capi dei Tervingi Alavivo e Fritigerno a un banchetto, ma ben presto fuori Marcianopoli esplosero degli scontri tra i goti affamati e le truppe romane. Informato di ciò Lupicino fece mettere a morte la scorta dei capi goti e tentò di imprigionarli, ma di fronte alle minacce di Fritigerno di una rappresaglia decise di liberarli dietro la vaga promessa di placare gli animi dei goti. Si trattò di reciproca incomprensione o di un banchetto-trappola finito male? Gli storici tendono a prediligere questa seconda ipotesi considerando che quella di eliminare i leader dei germani era una strategia comunemente usata all’epoca dai romani per tenere sotto controllo le varie tribù. Più difficile dire se fu un’iniziativa dello stesso Lupicino o se questi si limitò ad eseguire gli ordini di Valente; tanto Heater che Andrea Frediano ritengono che probabilmente Valente, bloccato ad Antiochia, avesse dato delle linee guida al Comes il quale però era comunque l’unico che poteva valutare la situazione concreta. In effetti Lupicino sembrò ondivago perché prima parve andare nella direzione della soluzione di forza, poi però fece marcia indietro quando ormai la situazione era sfuggita di mano. Il giorno dopo infatti si era già in piena guerra aperta tra i goti e i romani. Lupicino mandò a chiamare truppe tentare di colpo di mano contro l’accampamento principale dei Tervingi, ma le sue forze vennero spazzate via lasciando così i Balcani praticamente indifesi. Le uniche ulteriori truppe a disposizione dell’Impero erano infatti quelle rimaste nei forti di frontiere, ma esse erano troppo poche e non sufficientemente addestrate per poter rappresentare un argine all’avanzata dei goti. Neanche per questi però la conduzione della guerra si apprestava ad essere facile: bisognava rapidamente procurarsi del cibo, ma l’assalto ai forti o alle grandi città fortificate era da escludersi data la mancanza di macchine d’assedio. I goti si risolsero così a saccheggiare i dintorni di Marcianopoli finché non ebbero abbastanza provviste per potersi spingere verso l’interno in direzione della ricca città di Adrianopoli. Qui era di guarnigione un piccolo contingente di goti, guidati da Sueridas e Colias, già da tempo integrati nell’esercito romano, ma che iniziò ad essere guardato con sospetto, se non proprio con ostilità, dai residenti. Frattanto i Goti, di cui intanto Fritigerno era divenuto il principale capo, si diedero al sistematico saccheggio della campagna balcanica, ma molti storici riferiscono anche di dimostrazioni di solidarietà verso gli invasori da parte dei contadini locali, evidentemente non troppo felici della loro condizione come sudditi dell’Impero. Frattanto Valente aveva dovuto rapidamente prendere le prime misure per contrastare la rivolta che gli era esplosa in casa. Subito inviò un’ambasciata in Persia con l’ordine di accettare qualsiasi condizione di pace proposta; contemporaneamente inviò nei Balcani parte delle forze che aveva radunato ad Antiochia, affidandone il comando ai generali Traiano e Profuturo, due individui descritti da Ammiano come “ambiziosi, ma imbelli”, cioè proprio le persone giuste per gestire la situazione… Nell’immediato comunque la situazione parve evolversi a favore dei romani poiché i goti si ritirarono nuovamente verso Nord mentre dalla pars occidentalis giungevano i rinforzi a lungo richiesti da Valente nella persona del comes domesticorum Ricomero, altro generale germano al servizio dell’Impero, alla testa di un piccolo contingente. I romani si misero allora all’inseguimento dei goti che, frattanto, avevano trincerato il loro accampamento con un cerchio di carri in una località chiamata ad salices. Sebbene in inferiorità numerica i romani decisero di dar battaglia in un giorno imprecisato dell’inizio autunno 377 d.c.; nessuno degli autori classici fornisce una descrizione dell’andamento tattico della battaglia fuorché il dettaglio che, a un certo punto, il fianco sinistro romano cedette, ma l’intervento delle riserve permise di tamponare la falla. Il combattimento si risolse comunque in un nulla di fatto con pesanti perdite reciproche. Fritigerno, forse sottovalutando il suo vantaggio numerico, decise di tenere la posizione per una settimana dando così tempo ai romani di adottare una nuova e più efficacie strategia. Il nuovo comandante inviato da Valente, Saturnino magister equitum, decise di rinunciare allo scontro diretto tentando invece di affamare i goti; fece così bloccare i passi di montagna con una serie di fortificazioni facilmente difendibili e si preparò ad attendere l’inverno quando le provviste dei barbari sarebbero finite e Valente sarebbe potuto giungere con il grosso dell’esercito. La scelta si rivelò felice perché, nonostante i tentativi, i goti non riuscirono a spezzare l’accerchiamento restando quindi bloccati in un limbo di terra tra il Danubio i monti Haemus con nuovamente il rischio concreto di morire di fame. I Goti però non avevano completamente rotto i rapporti con il mondo che si erano lasciati alle spalle dietro il Danubio e presero contatti con loro ex-nemici unni, già all’epoca disposti a combattere come mercenari, perché venissero in loro soccorso dietro promessa del bottino derivante dai saccheggi delle ricche città romane. Così agli inizi d’inverno un piccolo contingente di unni e alani passò il Danubio ed attaccò alle spalle le posizioni fortificate dei romani. Saturnino, consapevole che se solo uno dei forti fosse caduto tutti gli altri avrebbero corso il rischio di trovarsi circondati, ordinò un’immediata ritirata. Durante queste manovre i romani però incapparono in una grave sconfitta quando presso Dibaltus alcune truppe furono colte di sorpresa e completamente annientate; meno fortuna i goti la ebbero attaccando un altro assembramento di forza romane al comando del germano Frigerido che, sebben costretto a ritirarsi, inflisse pesanti perdite al nemico. Comunque spezzato l’accerchiamento i Goti furono nuovamente liberi di scorrazzare per tutti i Balcani fino ai monti Rodopi; alcuni autori riferiscono anche di una loro comparsa sotto le mura di Costantinopoli conclusasi però con la ritirata a seguito di uno scontro con la guarnigione araba. Ammiano parla di una distruzione sistematica delle campagne e Heather afferma che le prove archeologiche, come i resti delle ville romane dell’epoca, sembrano confermare questa affermazione. Bisognò attendere la primavera del nuovo anno perché le truppe rimaste ad Antiochia cominciassero ad affluire verso i Balcani e lo stesso imperatore Valente giunse a Costantinopoli il 30 Maggio accolto in maniera ostile della sua capitale. In città c’erano infatti molti possidenti terrieri che avevano visto le loro proprietà impunemente devastate dai goti e più in generale si imputava all’Imperatore di essere il responsabile delle sofferenze avendo lui firmato il trattato che avevano portato i barbari dentro l’Impero. Nonostante ciò però Valente poteva dirsi ottimista perché era riuscito a stipulare una pace con la Persia, svincolando così molte forze dal teatro orientale, e aveva raggiunto un accordo con il nipote Graziano che si era impegnato ad unirsi a lui con un grosso esercito; l’intero Impero romano si stava preparando a schiacciare i Goti. Purtroppo però il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi e quando tutto sembrava pronto per la partenza di Graziano i lentinesi, popolo germanico imparentato con gli alemanni, approfittarono della riduzione di truppe a guardia del limes renano per varcare il fiume. Vedendo minacciati i suoi stessi confini Graziano fece marcia indietro e attaccò i lentinesi che vennero pesantemente sconfitti ad Argentovaria presso Colamr dal generale franco-romano Mellobaude. Graziano però non si accontentò del successo difensivo e puntò a una vittoria completa decidendo di passare il Reno per stroncare definitivamente la minaccia; la campagna fu un completo successo e i lentinesi furono costretti a una resa incondizionata impegnandosi a fornire truppe per l’esercito imperiale. La campagna germanica di Graziano mandò a monte i piani di Valente che aveva sperato di poter lanciare un attacco congiunto con il nipote contro i Goti. Non fidandosi di muovere da solo decise di aspettare, ma frattanto la situazione andava precipitando perché i Goti continuavano le loro scorrerie. Accampato a Nord di Adrianopoli Fritigerno inviava costantemente squadre di razziatori sia per foraggiare il suo popolo sia per tenere aperte tutte le vie di ritirata qualora la situazione si fosse messa al peggio. Una di queste squadre venne però sorpresa da un attacco notturno presso il fiume Ebro e completamente annientata; l’azione, condotta dal navigato generale Sebastiano, inviato apposta dall’Italia da Graziano, spinse Fritigerno a una maggiore prudenza. Il capo goto infatti richiamò le varie squadre di razziatori e spostò il grosso delle sue forza a Cabyle nel pieno della pianura della Tracia, terreno perfetto per la potente cavalleria dei Greutungi. Intanto i mesi passavano con Valente in costante attesa del nipote, ma invece di questi giunse una sua lettera i cui, oltre all’affermazione che si era messo in movimento per raggiungerlo, vi era anche una particolareggiata descrizione della sua vittoria contro i lentinesi. La missiva provocò un attacco di gelosia in Valente; la questione gotica non era più solo di natura militare, ma anche politica. Già l’imperatore era sempre più apertamente contestato nella pars orientalis sia per la sua passività che per il suo essere di religione ariana, ma adesso arrivava anche la notizia della brillante vittoria del nipote a minarne l’autorità. Smanioso di passare all’azione Valente ricevette una notizia che ne decise il destino: i goti erano in movimento e la loro forza non superava i diecimila uomini. L’informazione era completamente sbagliata e l’ipotesi più probabile per questo marchiano errore fu che chi la diede non si fosse riferito all’intero insieme di Greutungi e Tervingi, ma solo ai secondi il cui grosso, sotto il comando personale di Fritigerno, effettivamente stava muovendo in direzione Adrianopoli per raggiungere Nike forse, come sostiene Andrea Frediani, allo scopo di frapporsi tra Valente e Costantinopoli. Il numero molto minore di nemici rispetto al preventivato solleticò l’ego di Valente che non desiderava altro che cogliere una vittoria per rafforzare la sua prestigio. L’imperatore decise dunque di muovere verso Adrianopoli dove il suo esercito costruì un campo fortificato ed ebbe inizio un tempestoso consiglio di guerra: attaccare o attendere l’arrivo di Graziano? Non sappiamo per certo di quali forze fosse a disposizione Valente, ma alcuni autori, come Heater e Frediani, respingono i numeri giganteschi come trentamila uomini preferendo una comunque consistente forza di quindicimila. Tale opinione è dovuta sia alla constatazione che per arrivare a trentamila soldati Valente avrebbe dovuto completamente sguarnire la frontiera persiana, mossa che nonostante la pace sarebbe stata comunque molto pericolosa, sia dall’indecisione fino all’ultimo nel consiglio di guerra sull’opportunità di attaccare; tale indecisione sarebbe assolutamente immotivata se i romani avessero avuto una forza quasi tripla rispetto a quella supposta del nemico. Alla fine, nonostante il parere contrario di alcuni generali che insistettero per attendere le forza di Graziano, Valente decise di dare battaglia e Ammiano lasciò scritto che a tale decisione fu incoraggiato “dalle opinioni adulatorie di alcuni dei suoi cortigiani che lo esortavano ad affrettarsi per non dover condividere con Graziano una vittoria che aveva già in pugno.”. La notte tra l’8 e il 9 Agosto 378 d.c. Fritigerno inviò a Valente un prete cristiano con un’offerta di pace: i Tervingi sarebbero divenuti foederati dell’Impero ottenendo l’intera Tracia; in pratica i goti avrebbero formato un’entità autonoma all’interno dell’Impero, ma fortemente indipendente da questo. Sebbene questa sarebbe divenuta la prassi nei rapporti tra i popoli germanici e l’Impero dopo Adrianopoli, in quel momento apparve come una pretesa eccessiva e venne respinta. La parola era definitivamente consegnata alle armi.
L’esercito di Valente iniziò a muovere all’alba in direzione del campo goto, distante almeno sedici chilometri ed identificato in un luogo all’altezza dell’attuale villaggio di Muratcali. Verso le due si giunse in vista delle posizioni nemiche e le forza romane iniziarono a schierarsi con la cavalleria in testa che copriva le operazioni della fanteria. A questo punto, stando ad Ammiano, mentre l’ala sinistra ancora non era giunta sul campo di battaglia Fritigerno inviò una seconda ambasceria a Valente; stavolta quella del capo goto era solo una mossa tattica per guadagnare tempo e permettere alla cavalleria dei Greutungi di rientrare dal foraggiamento. Probabilmente a questo punto Valente si era reso conto dell’errore dei suoi informatori in merito al numero delle forze nemiche e infatti tentò di aprire una negoziazione. I goti si dovevano aggirare tra un minimo di trentamila e un massimo di cinquantamila anime totali, cioè sia soldati che loro famiglie, presenti presso il carrago, cioè l’accampamento fatto di un cerchio di carri, a cui poi si doveva aggiungere la citata cavalleria dei Greutungi che, alcuni autori, stimano di eguali dimensioni al totale dei soldati appiedati. Di fronte a una forza nel migliore dei casi tripla rispetto alla sua è ovvio che Valente abbia vacillato, ma è anche probabile che nemmeno lui intendesse seriamente discutere una pace bensì cercare di evitare lo scontro per poter attendere l’arrivo di Graziano. Le trattative sembrarono giungere a un buon puntò e si arrivò a discutere l’invio di un ostaggio romano, nella persona del generale Ricomero, come garanzia del loro prosieguo quando un contingente di cavalleria romana, che Ammiano riferisce comandati da tali Bacurio e Cassio, si lanciò all’assalto del fianco destro goto dando inizio alla battaglia. L’azione di cavalleria era stata assolutamente autonoma nonché intempestiva dato che i romani non avevano ancora finito di schierarsi, ma nonostante ciò le prime linee della fanteria dell’ala sinistra riuscirono a sfondare le difese gote costringendo il nemico a ritirarsi sin dietro il muro di carri. In quel momento però avvenne l’evento decisivo della battaglia cioè il ritorno della cavalleria Greutungia guidata da Alateo e Safrax che, scrive Ammino, “partendo come il fulmine dalla vetta di una montagna seminarono il panico e uccisero tutti coloro che si trovarono sul percorso del loro tempestivo attacco”. Impattando direttamente sul fianco sinistro romano non solo vanificarono il tentativo di penetrazione, ma provocarono la rotta della cavalleria lì schierata andando così a scoprire il fianco del centro dell’esercito di Valente. Si venne così a creare una situazione simile a quella della battaglia di Canne in cui l’ordine estremamente serrato in cui era solita schierarsi la fanteria romani finì peri ritorcersi contro di essa. “Stretti l’uno all’altro che quasi nessuno riuscì a estrarre la spada o sollevare il braccio” i romani iniziarono ad essere decimati dalla pioggia di dardi che proveniva dalle linee gote dato che, come scrive ancora Ammiano, “non era possibile vederle arrivare in anticipo o proteggersi in alcun modo”. In questa situazione quelli che potevano essere gli unici vantaggi dei romani in grado di compensare l’inferiorità numerica, cioè il miglior equipaggiamento e addestramento, vennero completamente annullati e le truppe di Valente si trovarono a combattere in una situazione drammatica, buttate nello scontro subito dopo una marcia di otto ore senza aver mangiato e sotto trenta gradi di temperatura. Ammiano ancora racconta che i goti sfruttarono anche la direzione del vento accendendo dei fuochi i cui fumi e colore si riversarono addosso ai sempre più esausti soldati romani. Valente, che si trovava tra il centro e l’ala destra, dopo aver perso la sua guardia personale, coinvolta anch’essa nello scontro, indietreggio tra le legioni palatine schierate nelle seconde linee. Disperatamente il generale Traiano tentò di capovolgere le sorti dello scontro dando ordine al suo collega Vittore, che comandava la cavalleria sul lato destro, di lanciare un attacco tentando allo stesso tempo di prendere contatto con la riserva, costituita dai batavi. Il tentativo fallì però miseramente e Vittore si diede alla fuga seguito da Ricomero e Saturnino. Lo sfaldamento anche del fianco destro diede inizio alla rotta romana e al massacro; la descrizione di Ammino parla di soldati che morirono travolti dalla calca, altri uccisi dai loro stessi compagni in fuga mentre i goti non concedevano quartiere né ai feriti né a chi si arrendeva. Solo il calare della notte mise fine allo scontro. Sulla fine di Valente non c’è mai stata sicurezza. Pare certo che venne ferito da una freccia verso le ultime ore di sole, ma ci sono varie versioni su ciò che accadde dopo. L’ipotesi che Ammiano fa intendere essere quella secondo lui più probabile è che venne ucciso sul campo, ma c’è anche un racconto più articolato che pare aver avuto per testimone uno dei servitori dell’imperatore. A quanto pare il ferito venne trasportato in una vicina fattoria dove si tentò di curarlo; i goti circondarono l’edificio e tentarono di abbattere la porta finendo però bersagliati dal lancio di ogni genere di cosa dal secondo piano dell’edificio. Ignorando chi vi fosse dentro i goti decisero di dare alle fiamme il casolare per non rischiare perdite inutili; comunque il corpo di Valente non venne mai ritrovato. Insieme all’imperatore perirono anche i generali Traiano e Sebastiano, trentacinque tribuni e, stando ad Ammino, i due terzi dell’esercito quindi, sulla base delle stime precedenti, circa diecimila uomini. Nessun dato invece è mai stato dato in merito alle perdite dei goti che comunque dovettero essere ingenti anche se non catastrofiche come quelle dei romani.
Nell’immediato del dopo battaglia i Goti si avventarono prima contro Adrianopoli e poi contro la stessa Costantinopoli, riportando però in entrambi casi due completi fiaschi. Graziano, che il giorno della battaglia si trovava a trecento chilometri dal luogo dello scontro, valutò che le sue forze non fossero sufficienti da sole a tenere testa ai goti e decise di ritirarsi per difendere i confini della pars occidentalis. I goti così ebbero campo libero per devastare interamente i Balcani, ma il venir meno della minaccia romana finì per favorire l’aprirsi di crepe all’interno del loro campo e la messa in discussione del primato di Fritigerno. Di fronte alla crisi della pars orientali dell’Impero Graziano, sotto il cui scettro adesso era stata provvisoriamente riunita tutta la romanitas, decise di inviarvi come nuovo Augusto il suo miglior generale: Teodosio. Di origini spagnole questi sarebbe poi passato alla storia soprattutto per aver fatto del cristianesimo religione di stato, ma fu anche forse l’ultimo grande imperatore romano perché riuscì a tenere testa per tre anni ai goti, sebben ciò trasformò i Balcani in un gigantesco campo di battaglia. Nell’Ottobre 382 d.c., a fronte della reciproca impossibilità di prevalere, si giunse così a un trattato di pace che ricalcava molto le condizioni domandate da Fritigerno la sera prima della battaglia. I goti divennero foederati dell’Impero ricevendo l’intera Tracia, l’esenzione fiscale e la piena autonomia pur se all’intero dello stato romano; in cambio avrebbero fornito costantemente forze aggiuntive all’esercito imperiale, seppur guidate da comandanti goti. La vicenda dei rapporti tra romani e goti però non si chiuse qui perché trentaquattro anni dopo, sotto il comando del loro nuovo leader Alarico, questi ultimi avrebbero inferto un nuovo mortale colpo all’autorità dell’Impero saccheggiando la stessa Roma.
Adrianopoli fu la più grave sconfitta che un esercito romano subì all’interno dei suoi stessi confini dai tempi del disastro di Canne. Se però dopo la vittoria di Annibale la res publica reagì con tutto il suo orgoglio lanciandosi in una sfida all’ultimo sangue, nel 378 d.c. di quella Roma non vi era più traccia. Ormai satolla della sua stessa gloria e con un edificio amministrativo grandioso, ma ormai marcio nelle sue fondamenta l’Impero iniziò a traballare a fronte dei continui colpi che gli giungevano dalle popolazioni di oltre limes sospinte verso occidente dalla costante marcia degli unni. Lentamente, ma costantemente questi popoli iniziarono a insediarsi all’interno dell’Impero e a portarne via dei pezzi, creando i prototipi delle prime entità statali medievali pre-carolinge. Paradossalmente a sopravvivere al termine di questa prima grande ondata migratoria fu proprio quella pars orientalis dove tutto era iniziato mentre quella occidentali, svantaggiata dalla geografia, tracollò anche per il cretinismo dei suoi stessi vertici che, come già raccontato, non trovarono niente di meglio da fare che eliminare gli unici due uomini che tentarono di arginare la frana: Stilicone e Flavio Ezio.
Alcuni storici hanno visto in questa battaglia, in cui la cavalleria gotica prevalse sulla fanteria romana, l’alba dell’arte della guerra medievale con il dominio. Personalmente non condivido troppo questa tesi in quanto mi sembra troppo legata a quel modo di fare la storia cercando l’evento cesura. Certamente Adrianopoli vide i primi accenni della crisi del sistema bellico romano fondato sulle legioni, ma più che l’inizio della guerra medievale forse sarebbe più giusto parlare dell’inizio della lunga fase di transizione dalla guerra tardo antica a quella medievale. Una transizione che sarebbe stata molto lunga se pensiamo che ancora ai Campi Catalunici e durante la guerra gotico-bizantina fu la fanteria ad essere protagonista rispetto a una cavalleria spesso ancora usata come forza ausiliaria e non di per se stessa risolutiva degli scontri. Personalmente ritengo che l’affermarsi della cavalleria come forza decisiva durante le battaglie avvenga molti secoli più tardi con i Franchi e, soprattutto, i Normanni.
Giunti dunque alla conclusione di questo ciclo di tre articoli dedicati alla caduta dell’Impero Romano permettetemi alcune riflessioni di ampio spettro. Innanzitutto l’inquadramento dell’evento perché oggi si è soliti usare arbitrariamente e scorrettamente il termine invasione; ora come ho già detto altre volte non ci fu mai un’invasione barbarica dell’Impero perché ciò implicherebbe che di punto in bianco le popolazioni d’oltre limes abbiano deciso di lanciare una campagna di conquista. Come abbiamo visto non fu assolutamente così; Roma fu vittima di quello che probabilmente fu il più grande fenomeno migratorio delle fine delle glaciazioni. L’arrivo degli unni da oriente mise in movimento l’intero mondo germanico in un modo assolutamente imprevedibile e come mai si era visto prima e questo gigantesco evento migratorio durò per secoli, probabilmente fino all’anno 1000 quando si concluse la migrazione dei magiari. Se non ci fossero stati gli unni i goti nel 376 d.c. non avrebbero avuto alcun motivo di bussare alle porte di Roma; di fatto essi si trovarono in una situazione disperata dovendo scegliere se restare sul Danubio in attesa di essere travolti , come già era successo agli Alani, oppure trovare la salvezza all’interno dell’Impero. Anche se Valente avesse deciso di non accoglierli questi avrebbero comunque tentato di entrare con la forza perché dal loro punto di vista era sempre meglio rischiare il tutto per tutto piuttosto che restare e soccombere ciò a dimostrazione che quando il flusso migratorio è il prodotto di una situazione d’emergenza è sempre difficile poterlo controllare dato che chi vive quella situazione prediligerà sempre la speranza di una salvezza per quanto rischiosa sia. Infine mi sento di dire che in un bilanciamento complessivo delle responsabilità per la fine dell’Impero, quelle dei romani sono superiori rispetto a quelle dei barbari. L’evento come detto fu senza precedenti, ma i romani fecero tutte le mosse sbagliate fino ad arrivare a delle condotte assolutamente suicide. Come visto infatti la rivolta del 376 fu il prodotto di una gestione disastrosa e criminale dei goti; se invece di trafficare e arricchirsi gli ufficiali romani che si trovarono per primi a gestire i nuovi arrivati avessero agito per controllare la situazione, almeno fino a che Valente non avesse risolto i suoi problemi ad Oriente, forse non sarebbe esplosa nessuna crisi. Dopotutto senza il problema dei rifornimenti quale ragione avrebbero avuto i goti per rischiare il loro status di coloni sfidando la potenza dell’Impero romano? Il peggio è che anche dopo Adrianopoli i romani continuarono a commettere una serie di errori assurdi. Infatti, invece di tentare di trovare delle soluzioni, gli imperatori e le loro corti si trincerarono su delle dichiarazioni di principio del tipo: nessuna trattativa coi barbari o nessuna ulteriore concessione. Facile dire “fermateli” (ma anche “fateli entrare”) senza poi specificare il come. Ora le dichiarazioni di principio non sono sbagliare, ma devo essere sostenute dai fatti per avere un senso! Se non si hanno gli strumenti per darvi seguito continuare a insistere su di essere può portare solo al disastro e così sarebbe successo nel 410 d.c. quando invece di trattare con Alarico, come questi tentò di fare fino all’ultimo, la corte imperiale di Ravenna rimase inerte come a sperare che i goti potessero evaporare da sé. Stilicone ed Ezio compresero che arroccarsi nella speranza che tutto si risolvesse da solo o che la superiorità di Roma avrebbe comunque avuto la meglio era pura follia; cercarono invece di creare un nuovo modus vivendi che prendesse atto del cambiamento in corso e permettesse all’Impero di salvare il salvabile. Purtroppo i loro stessi imperatori, che invece non ebbero mai un piano, provvidero a farli uscire di scena condannando così la romanitas.
Bibliografia:
- Andrea Frediani, Le grandi battaglie di Roma Antica
- Peter Heather, La caduta dell’Impero Romano
marco
27 Giugno 2017interessante e godibile, ben circonstanziato. ‘inizio della fine? o solo uno dei tanti momenti di rottura tra l’epoca imperiale del controllo e del massimo potere e quella della decadenza e dell’insufficienza delle forze schierabili in campo? dell’incapacità di opporsi ai famosi “cambiamenti epocali” ? il parallelismo fra le concause delle migrazioni di allora, sulla base di spinte e movimenti esogeni, e le odierne migrazioni oggi come allora dettate dal “peggio di così è impossibile, il rischio è accettabile”: è un parallelismo, un accenno analitico di indubbio interesse… qualche lezione importante, seppur mediata lontana e interpretabile, la storia nei suoi snodi e nel suo svolgimento ce li dona sempre.
Eduardo D'Amore
27 Giugno 2017come tutti i se della storia, se roma avesse vinto ad Adrianopoli può dare solo ipotesi e non certezze. Sicuramente il movimento migratorio d’oltre limes non si sarebbe arrestato perché legato a eventi esterni allo stesso Impero. Certo l’Impero del IV-V secolo d.c. non era più quello dell’età dell’oro del I secolo, ma è anche vero che Roma aveva dalla sua l’inerzia di un sistema statale collaudato e che ai più conveniva mantenere fintanto che persisteva una situazione d’equilibrio. Forse senza la tempesta perfetta delle grandi migrazioni Roma avrebbe potuto resistere, magari nella forma delle due pars per meglio gestirlo. Storicamente dopotutto c’è l’esempio della Cina che, pur con alterne vicende, è giunta sino ad oggi transitando dalla sua forma imperiale a quella moderna.