Sign up with your email address to be the first to know about new products, VIP offers, blog features & more.

La grande persecuzione di Diocleziano

Da bambini una delle prime cose di cui veniamo a conoscenza sono le persecuzioni contro i cristiani ad opera degli antichi romani. Chi a catechismo o da qualche nonna non si è visto raccontare, con dovizia di dettagli, la storia di quel santo locale e del modo in cui è stato martirizzato? Addirittura il primo imperatore romano di cui di solito un bambino ha cognizione, insieme a Giulio Cesare che però non fu mai imperatore, è Nerone perché bruciò Roma e uccise i cristiani nell’arena facendoli sbranare dai leoni. A tal punto la leggenda nera di questo imperatore è divenuta forte, anche per merito di film come “Quo vadis?”,  che praticamente sembra che ogni martire cristiani sia stato ucciso sotto il suo regno; così è andato perso il nome di colui che, nelle cronache dei padri della chiesa e dei primi dotti cristiani, fu il grande persecutore, il massacratore se non proprio l’anticristo: Diocleziano. La sua infatti fu LA persecuzione, fu il più grande e totale attacco portato dalla res publica contro il cristianesimo, ma non fu un pogrom irrazionale espressione di una mente folle e perversa, bensì il prodotto finale di quel grandioso tentativo di riforma dell’Impero che prese il nome di Tetrarchia. Sebbene quest’articolo voglia narrare nello specifico della persecuzione dioclezianea sarebbe impossibile farlo senza preventivamente tracciare un quadro del contesto della situazione all’epoca sia della res publica romana, sia del cristianesimo; chiedo per cui la vostra pazienza mentre faccio questa lunga, ma a mio parere necessaria, premessa che ci fornirà gli elementi necessari per comprendere e valutare ciò che avvenne dopo l’emanazione del primo editto anti-cristiano del 303 d.c.. Diocleziano assunse la porpora in un momento drammatico per l’Impero cioè la così detta crisi del III secolo d.c.; a seguito dell’estinzione delle dinastia dei severi nel 235 d.c. era iniziata un’infinita anarchia militare che in quarantanove anni produsse oltre ventidue imperatori il cui regno, in alcuni casi, non si calcola in anni bensì in mesi. La situazione che si trovò a fronteggiare Diocleziano non era tragica quanto quella che aveva trovato anni prima Aureliano (un impero spaccatosi in tre), ma quanto meno si può parlare di dramma con intere province in rivolta, usurpatori in ogni dove, i persiani sasanidi alle porte e un’economia prossima al collasso. Sin da subito il nuovo imperatore operò col pugno di ferro dimostrandosi di non essere pronto a compromessi o pietismi di sorta nella sua opera di restaurazione dell’ordine. Sicuramente Diocleziano fu il più autocratico degli imperatori fino ad allora regnanti infatti il tipo di governo da lui inaugurato fu un assolutismo “czarista”, per usare una terminologia moderna, definito dagli storici Dominato; in sostanza venne messo definitivamente da parte il principato augusteo cioè quella pantomima di un imperatore che ufficialmente non era un monarca, ma un primus inter pares all’interno di istituzioni repubblicane ancora, formalmente, in vigore. Soprattutto però Diocleziano ebbe il merito, o la colpa a seconda dell’interpretazione che si dà alla cosa, di giungere alla conclusione che fosse impossibile governare l’Impero da solo: le necessità di politica interna, la difesa di confini caldi come quello germanico i quello persiano e la soppressione delle sedizioni interne erano troppo da gestire per un solo individuo in un’epoca in cui non esistevano mezzi di comunicazioni immediata. La tetrarchia aveva lo scopo di superare questo problema; attenzione Diocleziano non voleva dividere l’Impero, come sarebbe successo con gli eredi di Costantino, ma solo condividere il governo in modo che, ad esempio, se si fosse trovato a combattere contro i persiani in Mesopotamia non doveva temere la ribellione di un usurpatore in Britannia né lasciare senza controllo l’immensa macchina amministrativa imperiale. Due Augusti che sceglievano a loro volta due Cesari come successori (recuperando nelle intenzioni l’ottimo sistema del principato adottivo) con ognuno responsabile di una porzione d’Impero così che dall’Atlantico al Tigri, dalla Libia alla Britannia non mancasse mai l’occhio vigile dell’autorità centrale. Sicuramente si trattò della più radicale riforma della res publica dai tempi di Ottaviano e, obiettivamente, non diede buona prova perché il quartetto, mancando un “primo violino” che desse/imponesse lo spartito a tutti gli altri, finì facilmente preda delle ambizioni e degli appetiti dei suoi membri. Non solo però riorganizzazione della struttura di governo, ma anche delle province, dell’esercito e dell’economia (con l’introduzione del famoso calmiere dei prezzi) nonché trionfi militari contro germani, sarmati e persiani; Diocleziano operò a 360° non esitando ad usare l’accetta quando lo riteneva opportuno come ad esempio esautorando completamente il senato da ogni potere o togliendo a Roma il suo rango di capitale. Come la stessa tetrarchia non tutte queste riforme ebbero successo sul lungo periodo, ad esempio il calmiere fu un fallimento, ma certamente nell’immediato furono in grado di bloccare la frana e riportare ordine e unità nell’Impero come non se ne vedeva da quasi un secolo. All’interno di questo processo di restaurazione della res publica si inserì però anche un’azione per dare rinnovato vigore ai culti tradizionali, anch’essi duramente colpi dalla crisi del III secolo d.c. sia per il venir meno di una forte autorità pubblica di riferimento, sia per le incertezza morali ed esistenziali che questo periodo aveva prodotto nella coscienza di molti individui. Fu questa volontà di ridare forza al paganesimo che avrebbe condotto Diocleziano al confronto frontale col cristianesimo. Questo, da piccola setta ancora all’epoca di Marco Aurelio, era rapidamente cresciuto in tutto l’Impero facendo breccia in ogni strato della popolazione; chiariamo non fu solo il cristianesimo a fornire una risposta spirituale alla incertezze dovute alla fase di crisi, ma tutti i culti così detti misterici conobbero una crescita esponenziale durante il III secolo d.c.. Gli antichissimi misteri eleusini, il culto della Grande madre  Cibele, il mitraismo (molto diffuso tra i soldati), il culto di Iside e persino la stessa filosofia neoplatonica assunse alcuni caratteri spirituali. La forza attrattiva di questi culti, come anche del cristianesimo, derivava dal fatto di fornire quelle risposte esistenziali che la fede tradizionale non sembrava in grado di dare; dipingendo il mondo come un campo di battaglia tra le forze del bene e quelle del male si forniva una spiegazione alle cose negative che avveniva e il fedele veniva incoraggiato alla cura dell’anima, mezzo rituali di purificazione e illuminazione, con la promessa dell’immortalità nella vita ultraterrena per i retti o la dannazione eterna per i peccatori. Si trattava dunque di culti che avevano tutti una fortissima componente personale-spirituale (in gran parte estranea alla religione tradizionale) e che favorivano la creazione di comunità di fedeli strette in un vincolo di fratellanza; il cristianesimo però, oltre al messaggio di fratellanza e a un preciso codice etico-morale, aveva alcuni elementi in più che gli garantiva un potere attrattivo superiore: intanto esso era universale e quindi aperto a tutti senza distinzione di genere o classe sociale, inoltre aveva l’ecclesia cioè una comunità di fedeli organizzata attivamente missionaria e sorretta da una robusta gerarchia formata da vescovi, sacerdoti, diaconi e laici. Tutti i culti da me precedentemente citati erano permessi e ampiamenti tollerati; Mitrei, tempi a Iside e a Cibele venivano aperti liberamente in tutte le città dell’Impero e alcuni degli stessi imperatori erano stati iniziati a questi culti. Perché dunque il cristianesimo invece era un problema? Per capirlo è necessario una sommaria spiegazione del ruolo che aveva il paganesimo tradizionale nella società romana. La Triade capitolina era una religione romana fatta per romani che la res publica non aveva mai preteso, né cercato, di esportare  presso i popoli conquistati (infatti le legioni non furono mai strumenti missionari come, ad esempio, lo sarebbero stati invece secoli dopo i conquistadores); anzi era ritenuto assolutamente normale che le popolazioni delle province continuassero a seguire le religioni locali e i governatori inviati da Roma erano incoraggiati a mostrare il loro giusto rispetto per questi culti (ad esempio rendendo omaggio alle divinità locali durante le feste sacre). L’adesione al paganesimo romano era di solito una scelta compiuta da coloro che intendevano intraprendere la strada della romanizzazione, avente come obiettivo l’acquisizione della cittadinanza, che passava anche per il conformarsi a quel mos maiorum che, dopo secoli, era ancora considerata la cartina di tornasole del buon cives. Essendo poi un politeismo elastico il paganesimo romano aveva anche accettato, in maniera praticamente indolore, la commistione con altre religioni in particolar modo identificando alcune divinità locale come null’altro che i propri stessi dei con nomi diversi (sebbene in alcuni casi passando sopra a delle forzature perché lo stesso Giove latino non era esattamente assimilabile in tutto e per tutto allo Zeus greco). Inoltre, semplificando molto, mentre cristianesimo, giudaismo e islam hanno l’idea di un dio immanente e onnisciente, nel paganesimo tradizionale latino gli dei, sebbene esseri immortali dotati di immensi poteri sull’universo, erano simili agli uomini condividendone spesso i vizi e le virtù. Essi però erano in grado di dare o negare la loro protezione all’Imperatore e alla res publica per cui era interesse primario dello Stato quello di accattivarsi i loro favori e ciò avveniva per mezzo dei sacrifici; Giove, Marte o Minerva infatti non erano in grado di vedere nell’animo del fedele e valutarne la devozione e ciò faceva in modo che vi fosse una forte scissione tra l’aspetto pubblico e quello privato della fede. La res publica aveva un interesse diretto a che tutti gli abitanti dell’Impero offrissero, in determinate circostanze, sacrifici agli dei e al genio dell’imperatore per garantirsi la benevolenza divina, ma esaurita questa manifestazione pubblica di devozione lo stato riteneva concluso il suo compito e non aveva interesse ad andare a vedere se nel privato il singolo fosse devoto, unisse la devozione alla Triade con quella a qualche culto misterico o se persino negasse gli dei. Si chiedeva insomma un’adesione meramente formale, compiuta la quale la fede non era più una questione tra il singolo e lo Stato, ma tra il singolo e la divinità. Ciò aiuta a capire come personalità quali Cicerone, Plinio il vecchio o Seneca potessero svolgere ruoli pubblici di primissimo piano e nello stesso tempo scrivere opere in cui esprimevano tutti i loro dubbi sull’esistenza o sulla natura degli dei; nessuno di loro fu mai perseguitato per le sui idee come non v’era divieto di seguire l’epicureismo (basti pensare a Lucrezio con il suo De rerum natura). La res publica dunque si dimostrava molto flessibile in materia religiosa: tutto era ammessi fintanto che si accettava di compiere i sacrifici pubblici formali e non si tentava di sovvertire il paganesimo tradizionale. Ora la maggior parte dei culti misterici accettavano questo compromesso perché non richiedevano “l’esclusiva devozionale” del fedele e in cambio la res publica cercava quanto possibile di venire loro incontro nei punti di frizione per evitare inutili scontri (ad esempio chiudendo un occhio sul fatto che i seguaci di Mitra non potessero portare in pubblico qualsiasi tipo di corona). Il cristianesimo invece con il suo rigido monoteismo non poteva adeguarsi a questo compromesso; anche rimuovendo i reciproci pregiudizi rimanevano delle distanze incolmabili tra la mentalità romano-ellenistica e quella cristiana e comunque, qualora pure si fosse cercato di trovare un modus vivendi accettabile per entrambi, restava comunque un problema insormontabile: quello dei sacrifici. Per i cristiani essi erano inaccettabili anche come mero gesto formale perché rappresentavano un supporto date alle forze demoniache; si trattava di un  peccato d’apostasia che metteva il fedele fuori dall’ecclesia. Per la res publica invece rifiutandosi di compiere i sacrifici pubblici i cristiani negavano la loro lealtà all’Impero e all’Imperatore minacciando inoltre di attirare sullo Stato la collera divina; per Roma dunque il cristianesimo non era una questione religiosa, poco importava che questi volessero adorare il figlio di un falegname morto crocifisso sotto Tiberio, ma una materia d’ordine pubblico e su ciò la res publica era inflessibile. Di culti che a Roma erano stati perseguitati perché ritenuti una minaccia per lo stato ve ne erano già stati, si può citare il senatus consultum de bacchanalibus del 186 a.c. che mise fuori legge i baccanali o i decreti contro il druidismo in quanto considerato sobillatore della resistenza celtica alla dominazione romana. Per quanto riguarda il cristianesimo prima della persecuzione di Diocleziano ve ne erano state altre quattro: quella di Nerone, quella di Domiziano, quella di Decio e infine quella di Valeriano. Le prime due furono però persecuzioni eminentemente romane, cioè concentrate nella sola città di Roma e non estese generalmente a tutto l’Impero (alcuni storici hanno anche avanzato dubbi che quella di Domiziano più che una persecuzione fu un’epurazione contro suoi nemici politici) e dopo di esse si instaurò il lungo periodo del così detto sistema traianeo chiamato così perché espresso da Traiano in una famosa lettera a Plinio. Bisogna ricordare infatti che la res publica si fondava su quello ius di cui i romani andavano estremamente fieri; per quanto i cristiani fossero ritenuti strani se non proprio pericolosi le persecuzioni di Nerone e di Domiziano erano state contra ius e lo spirito romano tendeva a rifuggire ogni arbitraria violazione del diritto (ancora dopo secoli non si era perdonato a Silla le sue liste di proscrizione!). Creare caos e arbitrio solo per perseguire quella che, alla fine, era una piccola setta che, se non nel caso di qualche fanatico, non dava gran ché fastidio era visto da molti magistrati come una perdita di tempo e risorse per cui Traiano indicò questa linea d’azione: nessuna “caccia al cristiano”, rifiuto delle denunce anonime e condanna solo se l’accusato si rifiutava di compiere un sacrificio in presenza del magistrato (altrimenti era chi aveva accusato che rischiava di passare un guaio). Questa “dottrina Traiano” fu la linea guida per la res publica sino al 249 d.c. quando divenne imperatore Decio nel pieno della crisi del III secolo. Convinto che in parte le difficoltà dell’Impero fosse dovuta a una perdita di supporto da parte degli dei il nuovo imperatore emise un editto con il quale ordinava a ogni cittadino di offrire un sacrificio pubblico alla presenza di commissari che avrebbero rilasciato un certificato di partecipazione al rito; chi si rifiutava, quindi i cristiani, era accusato d’empietà e messo a morte. Fu la prima persecuzione sistematica estesa a tutto il territorio dell’Impero e finirono martirizzato i vescovi di Roma, Antiochia e Gerusalemme mentre si diffuse un florido commercio di certificati falsi. Dopo Decio la persecuzione venne continuata da Valeriano che cercò di colpire nelle specifico il clero nell’idea che, rimossa la testa, il corpo sarebbe morto di conseguenza; il disastro della battaglia di Edessa e la cattura di Valeriano da parte dei persiani sasanidi mise fine alla persecuzione in quanto il nuovo Imperatore Gallieno scelse di “firmare una tregua” con i cristiani in base al tacito accordo: la res publica non persegue, i cristiani non provocano. Se l’atteggiamento dell’Impero verso i cristiani era ondivago, anche quello dei cristiani verso l’Impero non era privo d’elementi di ambiguità. Mentre lentamente le comunità iniziavano a dubitare che la Seconda Venuta fosse un evento prossimo, autori come Ippolito descrivevano l’Impero come la quarta bestia di Daniele mentre Tertulliano lo definiva un nemico da combattere infiltrandolo e resistendovi passivamente “La defezioni di così tanti cittadini di ogni lontano angolo della terra basterebbe a far crollare il vostro Impero…”. Gli elementi più radicali poi parlavano di una Politeia Christi opposta all’Impero, dando così quasi ragione a quei funzionari imperiali paranoici che vedevano nei cristiani uno Stato nello Stato. Anche il rapporto con la cultura classico-ellenistica era problematico visto che sempre Tertulliano aveva affermato rabbiosamente “Cosa ha in comune Atene con Gerusalemme?”. A monte di queste trincee dell’osservanza pura vi era però una realtà di fatto, favorita dalla tregua gallianea, molto più sfaccettata; il cristianesimo non era più infatti una religione solo per schiavi e poveri, ma aveva fatto breccia anche nelle classi elevati dove c’erano individui che desideravano conciliare l’essere dei buoni fedeli con la fedeltà alla res publica. Costoro erano certo pronti a combattere nel caso l’Impero avesse ripreso le persecuzioni, ma per intanto non vedeva il motivo per contrastare un sistema giuridico-amministrativo che garantiva una felice convivenza tra tutti. Comprendendo questo sentire molte comunità, in particolar modo quelle occidentali, avevano da tempo messo un freno alla polemica anti-imperiale invitando i fedeli a non provocare le istituzioni, ad esempio interrompendo i giochi gladiatori, e a dichiarare che, pur astenendosi dai sacrifici, ogni buon cristiano pregava sempre per la salute dell’Imperatore. Certi padri della chiesa poi, in contrasto con la visione di Tertulliano, avevano iniziato a cercare il modo di coniugare la filosofia classica con il pensiero cristiano, in particolar modo accostando il vangelo di Giovanni con il pensiero di Platone oppure lavorando a un’interpretazione cristiana del neoplatonismo (Origene). Insomma il cristianesimo, al momento dell’ascesa al trono di Diocleziano, si trovava in un momento di transizione nella sua valutazione dei rapporti tra cristianesimo e res publica. Da par suo l’ellenismo politeista, di fronte alla res publica che si ritirava dal campo del confronto con la nuova religione, sceglieva di scendere in trincea sentendo che la lotta era mortale. Già da qualche tempo il confronto coi cristiani aveva iniziato ad essere materia di polemica dottrinale e l’opera omnia di questa controffensiva ellenistica era stato il “Contro i cristiani” di Porfirio, che evitava luoghi comuni o facili ironie puntando invece su un’analisi serrata della dottrina cristiana per mostrarne l’inconciliabilità di fondo con la romanitas. L’azione più radicale venne però condotta da Giamblico, filosofo neoplatonico, il quale riteneva che l’unico modo di combattere il cristianesimo era affrontalo con le sue stesse armi: l’ellenismo politeista doveva farsi ecclesia cioè darsi un’organizzazione che fosse anche missionaria. In tal senso le varie correnti filosofiche dovevano trovare un’unità e così Giamblico si adoperò in una difficile opera di fusione del pensiero di Platone, Aristotele e Democrito con Ermete Trismegisto, l’astrologia caldea e lo gnosticismo; il tentativo di questo ecumenismo pagano, come lo chiama Sthepen Willisams, era ammirevole, ma arrivava forse troppo tardi e comunque finiva per deformare la stessa natura dell’ellenismo, per sua natura vario e amante della polemica aperta tra le sua varie anime. Inoltre era quasi impossibile, senza il supporto dell’autorità statale, combattere l’attività di proselitismo del cristianesimo con un’uguale azione di conversione di ogni gruppo sociale essendo questa un’attività mai stata propria del paganesimo tradizionale. Fu dunque inevitabile che i capi di questa nuova “chiesa” si rivolsero a Diocleziano per avere il suo supporto, ma l’Imperatore, sebbene persona molto religiosa, nei suoi primi vent’anni di regno preferì dedicare tutte le sue energie alla messa in sicurezza dei confini e alla riorganizzazione della res publica. Chi invece diede ascolto e si fece alfiere della linea dura contro il cristianesimo fu il Cesare che Diocleziano si era scelto come futuro successore: Galerio. Essendo questi stato il più feroce avversario della chiesa di Cristo è ovvio che gli storiografi di questa parte non siano stati teneri con lui rappresentandolo come un soldataccio rozzo, infido e preda delle peggiori perversioni. In realtà Galerio, sebbene certamente non fosse uomo di cultura, era un militare estremamente competente, lui aveva di fatto sconfitto i persiani nel 298, e un politico intelligente che credeva davvero nel progetto della tetrarchia dioclezianea. Convinto dalle ragioni esposte dai leader del paganesimo tradizione, e forte del prestigio ottenuto grazie alle sue vittorie militari, Galerio cercò di convincere Diocleziano ad agire iniziando lui stesso a mettere sotto pressione i cristiani  presenti tra le sue truppe. In effetti l’esercito era una di quelle aree dove più facilmente potevano nascere tensioni tra i cristiani e la res publica. Una delle riforme dioclezianee fu quella di introdurre una forma di coscrizione obbligatoria prevedendo inoltre che i figli dei veterani dovessero a loro volta arruolarsi; il problema era l’incompatibilità tra la lealtà all’Imperatore e quella a Cristo per cui i cristiani, teoricamente, non avrebbero potuto prestare servizio nell’esercito. Nella realtà dei fatti però molte comunità cristiane, per non costringere il fedeli a scegliere tra l’essere cristiano e l’essere cives, chiusero un occhio ammettendo la possibilità di entrare nelle legioni e infatti Tertulliano riteneva motivo di vanto il numero di cristiani arruolati. C’era però sempre qualche zelante che, una volta coscritto, si rifiutava ostentatamente di prestare il giuramento di lealtà all’Imperatore o gettava via pubblicamente armi e insegne (nelle cronache è rimasto la vicenda di un centurione anziano di nome Marcello) tutte condotte che rappresentavano insubordinazione ed erano passibili di morte. I casi del genere, che violavano i fondamenti di quella tregua voluta da Gallieno, non dovettero essere numerosissimi, ma certamente Galerio fu solerte a portarli all’attenzione di Diocleziano. Gli storici non sono concordi se l’editto del 298-299 d.c., che introduceva un maggior numero di sacrifici obbligatori nell’esercito, fosse una diretta conseguenza di alcuni di questi casi o semplicemente se era parte di quel generale processo di rinvigorimento del paganesimo tradizionale, ma certamente andò a colpire duramente i cristiani presenti nelle legioni. La pena per chi rifiutava il sacrificio era il congedo con disonore, un marchio molto pesante che di fatto chiudeva l’accesso a ogni ufficio pubblico, e quindi, almeno a seguito di questo primo editto, i casi di martirio, pochi per stessa ammissione dei cronisti cristiani, dovettero essere legati all’unione al rifiuto anche di gravi violazioni della disciplina militare. Questa “purga” dell’esercito, sebbene non ancora inquadrabile tecnicamente come persecuzione dato che lo scopo dell’editto non era quello di colpire i cristiani bensì di rafforzare la religiosità delle legioni, nacque molto probabilmente su iniziativa di Galerio che però, evidentemente, non riuscì a convincere Diocleziano a prendere ulteriori provvedimenti dato che nei quattro anni successivi  la tregua tra res publica e cristiani continuò a vigere senza scossoni. Effettivamente gli storici, anche quelli antichi, non sono ancora pienamente d’accordo sulla paternità originaria della persecuzione; alcuni autori hanno scritto, sulla scorta anche di un brano di Lattanzio, che Diocleziano agì per paura di Galerio, ma questa tesi pare poco realistica visto che tutte le altre fonti classiche affermano che il rapporto tra i due fosse di una rigida subordinazione del Cesare al suo Augusto (solo pochi anni prima Diocleziano bloccò la campagna persiana di Galerio imponendogli di trovare un accordo di pace quando questi avrebbe invece voluto rendere i sasanidi una provincia romana). Più probabile che Diocleziano, il quale nel 303 d.c. aveva cinquantanove anni e una salute che iniziava a peggiorare, si sia lasciato infine convincere da Galerio che fosse ormai giunto il momento di affrontare la questione cristiana sia per motivi religiose, con il loro atteggiamento i cristiani potevano far nuovamente perdere a Roma il favore deli dei, sia per ragion di stato dato il sempre più alto numero di cristiani nell’amministrazione statale. In effetti in una concezione autocratica del governo com’era quella di Diocleziano l’idea che così tanti appartenenti a un’entità quanto meno ambigua (se non appunto alternativa alla res publica)rivestissero uffici pubblici doveva essere fonte di preoccupazione e sospetto. Certamente oramai i cristiani erano inseriti in ogni ambiti della res publica ed altrettanto certo è che ve ne fossero nel personale di servizio dello stesso palazzo imperiale, anche se molti storici ritengono non vera l’affermazione di Lattanzio che la stessa moglie e figlia di Diocleziano fossero cristiane (effettivamente tolto quest’autore nessun altra fonte dell’epoca né pagana né cristiana riporta la medesima notizia). Che dunque l’Imperatore potesse ritenere necessaria un qualche tipo d’azione è quasi certo, ciò che però lo differenziava da Galerio era la modalità d’azione da portare avanti. Infatti mentre questi “avrebbe voluto bruciare vivo chiunque si fosse rifiutato di offrire sacrifici”, Diocleziano non voleva una persecuzione sanguinaria tipo quella di Decio e ciò per due ragioni: 1) in primo luogo perché una persecuzione del genere avrebbe prodotto solo caos mentre Diocleziano era uomo d’ordine che aveva nel Giove Cosmocrator (e non quello lussurioso dei miti) la sua divinità di riferimento; da vero romano l’Imperatore era troppo attaccato allo ius per ammettere un atto arbitrario fautore di disordine civile; 2) Diocleziano aveva compreso che i martiri invece indebolire il cristianesimo finivano solo per rafforzarlo in quanto spingevano le comunità compattarsi in falange nella difesa del loro credo, creando fervore da Armageddon finale e spirito d’emulazione per non essere da meno di quei confratelli che avevano accettato di dare la vita per testimoniare la fede. Bisogna inoltre considerare quale fosse l’obiettivo che Diocleziano intendeva conseguire; un genocidio dei cristiani? Certamente no non solo perché il numero dei fedeli era troppo alto, ma anche perché uno sterminio di massa avrebbe richiesto risorse eccessive a una res publica che aveva appena iniziato a riprendere fiato e inoltre la maggioranza della popolazione dell’Impero non avrebbe accettato un tale spargimento di sangue di persone che, sebbene avessero riti strani, per lo più non davano fastidio a nessuno. Quasi certamente ciò che l’Imperatore si proponeva era di provocare l’apostasia del maggior numero possibile di fedeli, rendere meno attrattivo il convertirsi al cristianesimo e magari mettere sotto pressione i capi della chiesa per spingerli ad accettare di rivedere il loro culto per renderlo più conforme a una convivenza con  la res publica. Questo però non vuol dire che Diocleziano non potesse essere spietato (lo avevano imparato a loro spese gli abitanti d’Alessandria d’Egitto ribellatisi nel 297 d.c.), ma semplicemente che intendesse provare un diverso approccio rispetto a quello di Decio che non aveva prodotto risultati apprezzabili. Comunque, stando alle fonti, Diocleziano non scelse d’agire dall’oggi al domani, ma si prese il suo tempo per ponderare accuratamente il da farsi chiedendo il parere sia dei suoi collaboratori che dell’oracolo d’Apollo a Didima. La persecuzione ebbe inizio alle calende di Marzo (23 Febbraio 303 d.c.) in occasione della festa del dio Termine. A Nicomedia, capitale di quelle province soggette direttamente a Diocleziano, era stata da poco aperta una nuova chiesa di fronte al palazzo imperiale; il prefetto ordinò alle truppe di circondare l’edificio, saccheggiarlo e raderlo al suolo, il tutto mentre Diocleziano e Galerio sovrintendevano alle operazioni dal palazzo. Il giorno dopo venne emanato il primo editto nel quale si ordinava, in tutto l’Impero, la distruzione delle chiese cristiane, la proibizione del culto e la consegna dei testi sacri perché fossero bruciati; gli schiavi cristiani non potevano essere affrancati mentre qualsiasi cristiano che si fosse rifiutato di offrire i sacrifici sarebbe stato espulso dai pubblici uffici e avrebbe perso la cittadinanza romana, non potendo così più adire i tribunali della res publica e, nel caso dei patrizi, divenendo passibili di tortura nel caso fossero stati accusati di un reato. L’editto permette di capire sia la tattica che intendeva seguire Diocleziano, sia quella che doveva essere la sua personale opinione dei cristiani: essi erano dei parassiti della res publica che volevano tutti i vantaggi dell’esserne cives, senza però accettarne gli oneri; ritenevano che vi fosse una qualche incompatibilità tra la lealtà all’Impero e i dettai della loro fede? Bene, che allora decidessero da che parte stare! Si trattava di una strategia nuova che, evitando di fornire alla chiesa dei martiri, rendeva l’essere cristiani scomodo a ogni livello della popolazione perché se lo schiavo perdeva la possibilità di poter divenire un uomo libero, il mercante perdeva l’accesso ai tribunali per far valere le proprie obligatio mentre il funzionario statale perdeva il lavoro e la posizione sociale che ne derivava. Paradossalmente questo primo editto che non prevedeva la pena di morte produsse subito il suo primo martire in quanto un cristiano di nome Euezio fece a pezzi il pannello di legno su cui era scritto gridando “Ecco i vostri trionfi goti e sarmati!”; essendo reato d’insubordinazione Euezio venne arrestato, torturato e messo al rogo lo stesso giorno. Comunque nonostante questo inizio nella prima fase lo spargimento di sangue fu minimo in quanto l’editto non prevedeva la morte per i trasgressori che dovevano commettere una qualche violazione specifica della legge, come appunto Euezio, per ottenere il martirio. La chiesa, sebbene fu in grado di reggere l’immediato contraccolpo, venne messa in difficoltà dall’editto e anche autori cristiani riconoscono che non pochi furono i casi di apostasia di chi non voleva perdere i propri diritti. Tra l’altro non c’era nemmeno accordo tra i cristiani in merito a come reagire alle disposizioni dell’editto dioclezianeo; tendenzialmente quasi tutti erano d’accordo che non ci potesse essere compromesso sui sacrifici, anche se una minoranza del clero provò a placare i casi di coscienza affermando che spargere un po’d’incenso sull’altare avendo il cuore puro in Cristo era un mero gesto esteriore che Dio avrebbe perdonato, ma come comportarsi in merito alla consegna dei paramenti sacri e delle Scritture? Le comunità europee e del vicino Oriente in quest’ambito scelsero la via della collaborazione e, ad esempio, il vescovo di Roma consegnò i propri testi mentre quello di Cartagine consegnò libri eretici (accettando però di sospendere le funzioni pubbliche), ma in alcune zone del Nord Africa, dove l’ortodossia era più forte, qualsiasi forma di collaborazione con le autorità imperiali era considerato tradimento della memoria di quei coraggiosi martiri che avevano dato la loro vita. Le fonti ci permettono di affermare che questo primo editto fu l’unico che venne effettivamente attuato a tappeto su tutto l’Impero, anche se ovviamente il comportamento della autorità cambiava a seconda dell’area e di chi aveva il potere in loco: in Oriente, dove più forte era l’influenza di Galerio, i funzionari furono incoraggiati al massimo zelo mentre in Occidente i territori sotto il controllo dell’Augusto Massimiano videro un’applicazione seria, ma evitando inutili eccessi (i messi a morte furono solo gli espliciti provocatori come il vescovo di Tibiuca che rifiutò ostentatamente di cedere qualsiasi cosa). Nella parte d’Impero invece sotto il controllo del Cesare Costanzo Cloro (Gallia e Britannia) l’applicazione del primo editto fu molto soft in quanto Costanzo, padre del futuro imperatore Costantino, pur non essendo cristiano come invece successiva agiografia tentò di affermare, non vedeva il cristianesimo come una minaccia per cui spendere tempo e risorse. Vi era poi, ovviamente, differenza di atteggiamento tra magistrato e magistrato, soprattutto se questi non operavano nella grandi città, ma nei piccoli centri; alcuni funzionari prima di procedere a perquisizioni e interrogatori delle comunità cristiane cercavano di trovare un compromesso con queste perché consegnassero qualcosa così da poter redigere un rapporto favorevole, altri magistrati semplicemente non avevamo le risorse per sostenere i costi della distruzione delle chiese. Sarebbe stato interessante vedere quali effetti il primo editto avrebbe prodotto sulle comunità cristiane nel lungo periodo, ma ciò non fu possibile perché solo pochi mesi dopo la sua pubblicazione un fatto gravissimo contribuì a far precipitare la situazione. Nel giro di quindici giorni infatti due incendi dolosi vennero appiccati nel palazzo imperiale di Nicomedia e uno di questi distrusse le stesse stanze da letto di Diocleziano. Ovviamente Galerio e gli ultrà pagani accusarono i cristiani mentre i cristiani accusarono Galerio oppure parlarono d’ira divina. Nemmeno gli storici moderni sono riusciti a dare una risposta definitiva sulla materia, ma, escludendo la pista sovrannaturale, l’ipotesi Galerio è difficilmente sostenibile in quanto questi aveva tutto da perdere e poco da guadagnare con un gesto del genere mentre; per quanto attiene ai cristiani, non si può escludere che frange fanatiche, convinte che ormai fosse iniziata la battaglia finale tra i soldati di Cristo e le forze del male, possano essere passate all’azione. Certamente Galerio sfruttò l’evento per sostenere la propria richiesta di maggior fermezza e in tal senso lasciò con ostentazione Nicomedia affermando di non voler finire arrostito. Diocleziano ovviamente considerò gli incendi come un attentato alla sua persona e, oltre ad istituire una commissione d’inchiesta che però non giunse a nulla, pretese una dimostrazione di fedeltà da parte di chiunque abitasse e lavorasse a palazzo mezzo un sacrificio; gli storici antichi ci tramandano che due fidati servitori dell’Imperatore, Doroteo e Gorgonio, si rifiutarono e per questo furono messi a morte. In senso più ampio gli incendi spinsero Diocleziano ad accentuare la repressione pretendendo una più rigida applicazione dell’editto e una maggiore severità d’azione da parte dei magistrati; iniziarono così gli arresti arbitrari ed aumentarono le condanne a morte cosa che, ovviamente, spinse la Chiesa ad abbandonare le tattiche conciliative in favore del confronto muscolare. Probabilmente ciò che convinse l’Imperatore a non attendere che il suo primo editto spiegasse tutti i suoi effetti fu la notizia di insurrezioni, obbiettivamente piccole e facilmente controllabile, tra alcune comunità cristiane in Siria e Armenia. Si abbandonò così la strategia del lavoro sui fianchi per passare allo scontro diretto: con un secondo editto dell’estate del 303 d.c. venne ordinato l’incarceramenti di ogni membro del clero cristiano.  Stavolta la diversità di vedute dei tetrarchi divenne palese perché se in Occidente questo secondo editto o venne applicato in maniera molto blanda o persino ignorato, in Oriente nelle province governate da Galerio gli arresti di massa si estesero anche ai fedeli. Questo secondo editto aveva però un gigantesco punto debole: il sistema carcerario imperiale non era in grado di assorbire a tempo indeterminato una tale quantità di prigionieri e si trovò rapidamente sull’orlo del collasso totale. Per risolvere il problema venne emanato un terzo editto nel quale si offriva la libertà a qualsiasi arrestato che avesse accettato di compiere i sacrifici, in caso però di rinnovo del rifiuto si aprivano le porte della tortura e delle esecuzioni. In pochi mesi il livello dello scontro era salito esponenzialmente soddisfacendo le aspirazioni di quei fanatici, in entrambi i campi, i quali non attendevano altro che la teomachia: la battaglia finale tra gli antichi dei pagani e il Dio cristiano. Adesso infatti che si era giunti allo scontro muscolare le posizioni di entrambi i fronti si irrigidirono. Tra i cristiani ogni divisione venne messa da parte e le comunità si compattarono, sull’esempio dei martiri, nel rifiutare ogni compromesso facendo loro il verso di Esodo 22,20 “Chi offre sacrifici ad altri dei, fuori che all’Eterno, sarà sterminato come anatema”. Lattanzio ammoniva che “chiunque offra incenso agli immondi demoni si separa da Cristo, come un ramo marcio gettato nel fuoco” ed esortava i fedeli a restare saldi in Dio in quanto “le sibille predicono apertamente che Roma è destinata a perire per volontà di Dio, poiché ha in odio il Suo nome” ed era dunque prossimo il momento in cui “Egli udrà e manderà dal cielo un grande Re a liberarli (i giusti) e a distruggere i malvagi col fuoco e con la spada”. Dal canto suo Diocleziano, probabilmente sempre convinto che offrire ai cristiani il martirio che agognavano non fosse la soluzione, non poté tirarsi indietro dalla battaglia senza che così facendo ne venisse intaccato il prestigio suo e quello della res publica; dal punto di vista dell’Imperatore i cristiani non adempiendo agli editti sfidavano l’autorità imperiale e quindi andavano schiacciati alla stregua di comuni ribelli. Le narrazioni dei cronisti cristiani sono piene di storie di fedeli bruciati con ferri roventi, messi alla ruota e scorticati vivi; questi racconti, che parlano di una moltitudine di martiri vennero considerati inattendibili, anche per un eccesso di miracolosi interventi divini, dagli storici del ‘700 e dell’800 come Voltaire e Gibbon il quale, in particolare, scrisse “Le leggende più stravaganti, furono inventate per l’onore della chiesa, applaudite dalla folla incredula e appoggiati dalla potenza del clero nonostante fossero basate sulla dubbia storia ecclesiastica”. Gli autori moderni invece, pur ritenendo i numero proposti da Lattanzio eccessivi, concordano che le persecuzioni furono durissime e spietate nei mezzi; anche un autore come Stephen Williams, ammiratore dell’opera politica di Diocleziano, ammette che le brutalità descritte dagli autori cristiani non possono essere automaticamente giudicate irrealistiche dato ciò che è successo durante tutto il XX secolo. Per Galerio e i suoi seguaci però ciò non era ancora sufficiente e gli eventi gli diedero la possibilità di portare l’offensiva al cristianesimo al massimo livello di durezza mai usato dalla res publica. Agli inizi del 304 d.c. Diocleziano, di ritorno a una visita alla regione danubiana, cadde gravemente malato e rimase in uno stato di salute precaria per tutto l’anno. Quest’incapacità temporanea dell’Imperatore, unita al fatto che la sua intenzione di abdicare a breve doveva già essere nota negli ambienti del governo, creò un immenso spazio di manovra per Galerio che ne approfittò per far approvare un quarto e ultimo editto contro i cristiani. Gli storici sono tutti abbastanza concordi che Diocleziano non ebbe ruolo nella redazione di quest’ultimo editto il quale gli venne fatto firmare da un Galerio che, probabilmente, si approfitto della sua parziale incapacità; chi avrebbe potuto ostacolare l’azione del Cesare erano i ministri e consiglieri dell’Imperatore, i quali erano consapevoli che se Diocleziano fosse stato vigile e attivo non avrebbe approvato quella linea d’azione, ma questi erano consapevoli che a breve Galerio sarebbe stato il nuovo padrone della baracca e quindi decisero di non contrariarlo. Con questo quarto editto il cristianesimo diveniva religio illecita e veniva vietato in tutto l’Impero, tutti gli abitanti delle province sotto il comando di Diocleziano e Galerio dovevano offrire obbligatoriamente un sacrificio agli dei e chi si rifiutava era condannato a morte. Anche in questo caso Stephen Williams ritiene che lo scopo di Roma non fosse lo sterminio, ma costringere i cristiani all’apostasia ventilando la minaccia di morte e accumulando un po’ di cadaveri per creare il terrore necessario a spingere gli altri a quel semplice gesto che salvava la vita. Proprio Williams riferisce della tattica usata da alcuni magistrati di arrestare e torturare i prelati, per poi liberarli e dunque arrestarli di nuovo così da creare una tensione psicologica da incertezza che li rendesse alla lunga più malleabili e disponibili all’apostasia pur di far finire questo gioco del gatto col topo. Le province dove si contò il maggior numero di vittime furono la Bitinia, la Siria, l’Egitto, la Frigia e la Palestina, ma anche in questo caso l’effettiva modalità d’applicazione dell’editto dipendeva dal funzionario locale. Come sempre avviene in questi casi ci furono i sadici, che ebbero occasione di sfogare legalmente le loro perversioni, e poi ci furono anche gli zelanti che scelsero di applicare ciecamente gli ordini che giungevano dall’alto senza fare domande; vari sono i racconti di non “solo” di decapitazioni e roghi, ma anche di torture più elaborate come versare piombo fuso sulla schiena delle vittime o  canne appuntite infilate sotto le unghie. Vi furono però anche magistrati che ritennero si stesse andando troppo oltre e tentarono di evitare bagni di sangue: alcuni semplicemente mentirono dichiarando di aver assistito a sacrifici pubblici che mai vi erano stati, altri “interpretarono” l’editto ritenendo valido il sacrificio compiuto dai cristiani “all’Unico Dio” senza indagare oltre sulla natura della divinità e infine altri facevano in modo che i cristiani venissero fatti sacrificare a forza ignorando le loro dichiarazioni di disprezzo per il rito che stavano venendo obbligati a compiere. La persecuzione raggiunse il suo picco tra il 304 e il 305 d.c. senza che comunque si riuscisse a vederne l’uscita in quanto le violenze non sembravano in grado di scuotere alle fondamenta la resistenza della ecclesia e ciò iniziò a scoraggiare i persecutori e a spingere la gente comune, stanca di queste angherie, alla pietà verso i cristiani. Fu comunque l’incessante progredire degli eventi storici a segnare il fallimento e la definitiva conclusione delle persecuzioni; Diocleziano infatti, anche dopo essersi rimesso dalla sua malattia, rimase comunque troppo debole per riprendere le redini del governo e così decise che, per il bene della res publica e del sistema da lui creato, fosse venuto il momento di farsi da parte. Il 1° Maggio del 305 d.c., dopo vent’anni di regno, Diocleziano abdicò insieme al suo collega Augusto d’Occidente Massimiano; nel piano della tetrarchia adesso Galerio e Costanzo Cloro dovevano divenire i nuovi Augusti che avrebbero nominato a loro volta dei Cesari, ma il sistema, venuto meno il suo forte architrave, andò rapidamente in tilt. A onor del vero va detto che Galerio, pur continuando con la persecuzione dura fino al 306 d.c., fu l’unico che tentò di far funzionare davvero la successione; i guai si ebbero ad Occidente quando nel Luglio 306 d.c. morì Costanzo Cloro e le sue legioni decisero di ignorare l’Augusto designato Severo in favore di Costantino  figlio di Costanzo. Non è questa l’occasione di narrare gli eventi della guerra civile a cui quest’evento diede inizio e che si concluse nel 324 d.c. con Costantino unico Imperatore, va però detto che la tetrarchia fallì principalmente per colpa di quest’ultimo, di Massimiano e di suo figlio Massenzio. La rinnovata crisi della res publica si ripercosse inevitabilmente sulla capacità di portare avanti la persecuzione contro i cristiani e dal 306 d.c. in poi il tuoo iniziò a perdere forza spontaneamente semplicemente per mancanza di risorse da dedicarvi. Infine essa si chiuse definitivamente nel 311 d.c. quando Galerio, poco prima di morire probabilmente di cancro, a Serdica emise un editto nel quale si affermava che, nonostante molti cristiani persistessero nel loro credo, una parte di loro a seguito delle persecuzioni “né tributavano agli dèi la reverenza e il timore loro dovuti, né adoravano il Dio dei cristiani” e ciò era ritenuto inammissibile; in ragione di ciò l’Imperatore decideva di ammettere come lecito il culto cristiano ingiungendo ai suoi fedeli di pregare il loro Dio per il bene dello Stato e dell’Imperatore.  L’editto di Serdica è un documento importantissimo, ma spesso dimenticato perché messo in ombra dal successivo editto di Costantino, in esso infatti per la prima volta il cristianesimo viene dichiarato ufficialmente come religione tollerata, dunque non un mero ritorno alla tregua di Gallieno, e si dava libertà ai cristiani di celebrare il loro culto purché nel farlo si osservasse il rispetto per la figura dell’Imperatore. Il cristianesimo aveva vinto la grande teomachia e quasi settant’anni dopo, con l’Editto di Tessalonica, esso sarebbe divenuto l’unica religione ammessa nell’Impero. Numeri esatti suoi morti totali prodotti dalla persecuzione è difficile darli in parte per l’ampia distanza temporale, in parte per le già dette innegabili esagerazioni degli autori cristiani; comunque oggi gli storici tendono ad attestarsi tra le 3000 – 3500 vittime mentre molti di più dovettero essere i torturati e gli incarcerati. Non l’apocalisse descritta da Lattanzio, ma certamente uno dei più grandi bagni di sangue della storia romana fuori dalle vicende belliche.

Restano a questo punto una serie di domande a cui credo sia opportuno dare una risposta prima di chiudere questo lungo articolo. In primo luogo poteva Diocleziano vincere la battaglia? Credo che se avesse avuto dieci anni in meno e si fosse limitato a far applicare rigidamente il suo primo editto, che fu l’unico a produrre degli effetti concreti, molto probabilmente avrebbe ottenuto qualche risultato concreto. L’attacco sul piano della privazione dei diritti civili, evitando l’inutile creazione di martiri, era stato un colpo nuovo e duro che aveva messo il cristianesimo sulla difensiva; se un regime del genere fosse andato avanti per un paio di anni, rendendo così l’essere o il diventare cristiani molto scomodo, si sarebbe potuta produrre una spaccatura nell’ecclesia tra gli zeloti e i moderati pronti trattare con la res publica magari sulla base di reciproche concessioni. Dopotutto in seguito agli Editti di Serdica e di Milano il cristianesimo dovette comunque risolvere il suo ambiguo rapporto con lo stato e lo fece abbandonando i toni di condanna dell’istituzione imperiale e riconoscendo nell’Imperatore non una divinità, ma un uomo a cui però Dio aveva dato l’autorità di governare altri uomini in suo nome a cui dunque andava riconosciuta riverenza e obbedienza. Difficile dire se Diocleziano si sarebbe accontento di ciò, ma certamente è una dimostrazione di come il cristianesimo, al di là dei toni millenaristici, fosse ormai pronto ad accettare di trovare un modus vivendi stabile con la res publica. Di qui dunque la seconda domanda e cioè se vi era un’incompatibilità tra l’Impero Romano e il cristianesimo. Qui la risposta è un secco no infatti la tesi di Gibbon di una “responsabilità” cristiana nella caduta dell’Impero è ormai ampiamente smentita; la romanitas sopravvisse ancora per quasi due secoli dopo l’Editto di Milano, attraversando anche fasi di rinnovato vigore sotto Costantino e i suoi immediati successori, e non bisogna poi dimenticare che la pars orientalis dell’Impero, cioè l’Impero bizantino, pur cristianissimo continuò ad essere romano effettivamente, a mio parere, fino alla morte di Eraclio nel 641 e nominalmente fino alla caduta di Costantinopoli nel 1453. L’Impero non cadde a causa di un intorpidimento morale indotto dai cristiani, ma a causa di quella tempesta perfetta originatasi in Asia con la migrazione degli Unni verso Ovest che si abbatté su un edificio che, sebbene ancora grandioso, mostrava ormai delle crepe evidenti. L’incompatibilità dunque non era tra cristianesimo ed Impero, ma tra cristianesimo ed ellenismo-pagano. Il monoteismo radicale cristiano poteva al massimo accettare l’inclusione di alcuni specifici elementi della cultura ellenistica, come la filosofia platonica ed aristotelica, ma non il convivere con il paganesimo politeista. In questo avevano ragione gli autori come Porfirio nel ritenere che si trattasse di due mondi inconciliabili il cui rapporto non poteva che concludersi nell’annientamento dell’uno da parte dell’altro altro e in effetti così fu. Dopo l’Editto di Milano furono i cristiani ad iniziare a passare all’offensiva e non ci volle molto perché, come troppo spesso è avvenuto nei secoli, i perseguitati si trasformassero in perseguitatori. Col passare degli anni esseri pagani o comunque sostenitori aperti dell’antica cultura ellenistica iniziò a divenire scomodo se non pericoloso (vedi il caso di Ipazia) e infine, con i decreti di Teodosio del 380 d.c., l’intero universo pagano venne messo fuori legge decretando la scomparsa di un mondo: vennero proibiti gli antichissimi giochi olimpici, la grande statua di Zeus di Fidia ad Olimpia venne smontata e nascosta, il Serapeo d’Alessandria venne distrutto mentre la Biblioteca o fu distrutta o comunque epurata di tutti quei testi considerati demoniaci… l’ultimo atto lo si ebbene nel 529 d.c. quando Giustiniano ordinò la chiusura delle scuole filosofiche pagane inclusa l’accademia di Platone. Un’ultima conseguenza della “vittoria” cristiana fu la damnatio memoriae che colpì Diocleziano per secoli additato dalla storiografia cristiana come un tiranno sanguinario opposto a Costantino quale vero salvatore dell’Impero; in realtà, e su questo gli storici moderni sono unanimi, Diocleziano fu uno dei più grandi Imperatori che Roma ebbe e forse quello che più di tutti fu uomo di Stato. Di lui infatti non rimangono scandali o storie piccanti come per altri suoi predecessori e successori; tutta la sua opera fu genuinamente diretta a restaurare la potenza della res publica e giustizia storica impone di dire che se Costantino poté regnare e l’Impero sopravvivere per ancora molto tempo fu perché per vent’anni Diocleziano resse la situazioni con pugno di ferro ponendo fine a una spirale infinita di crisi che, altrimenti, avrebbe già ucciso l’Impero tra la fine del III e l’inizio del IV secolo.

 

Bibliografia:

  • Stephen Williams, Diocleziano – Un autocrate riformatore
  • Edward Gibbon, Il declino e la caduta dell’Impero Romano
  • Giuseppe Ricciotti, L’età dei martiri

Ancora nessun commento. Commenta per primo...

Cosa ne pensi? Commenta!

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *