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Le 7 meraviglie del mondo: il mausoleo di Alicarnasso e la grande piramide

La grande piramide di Menfi

“Soldati! Di lassù quaranta secoli vi guardano!” con questa celebre frase Napoleone incoraggiò le sue truppe che, nel Luglio 1798, stavano per affrontare i mamelucchi. Purtroppo io non ho ancora avuto il privilegio di poter vedere dal vivo la grande piramide di Giza, ma ritengo che le parole di Napoleone siano ancora valide per descrivere quel senso di silente eternità che si prova trovandosi al suo cospetto. Unica delle meraviglie del mondo sopravvissuta sino a noi la grande piramide era già vecchia di quasi tremila anni quando Filone d’Alessandria la inserì nella sua lista nonché oggetto di dibattiti tecnico-scientifici tra gli studiosi greco-romani. Erodoto la ammirò, Talete la usò come base per elaborare il suo teorema mentre Plinio la ritenne null’altro che una tediosa ostentazione di ricchezza a prova dell’arroganza dei monarchi orientali; gli autori cristiani, che sentivano il bisogno di cercare nella Bibbia riprova di ogni cosa vi fosse al mondo, la indentificarono, insieme con le sue due sorelle, nei granai di Giuseppe costruiti per custodire il raccolto durante i sette anni di carestia dell’Egitto. Solo verso la fine del seicento si iniziò ad avere il coraggio di chiamare le piramide come tali e ammettere che erano un grandioso monumento funebre pagano, ma ci volle la campagna egiziana di Napoleone perché l’Europa riscoprisse la terra dei faraoni e perché le piramidi fossero oggetto di uno studio scientifico. Oggi “l’orizzonte di Cheope” e le sue sorelle osservano ancora silenti i turisti che giungono da tutto il mondo a omaggiare il genio degli antichi egizi e resteranno nella piana di Giza per altri quaranta secoli sempre se l’uomo, abilissimo nel distruggere la sua stessa storia, non ci metterà il suo zampino distruttore.

Ci vollero quasi vent’anni perché la grande piramide voluta dal faraone Cheope fosse completata; vent’anni durante i quali, ogni volta che i Nilo inondava i campi, tutta la manodopera abile veniva convogliata alla realizzazione di un’unica grande opera perché non furono degli schiavi, come un tempo si credeva, a spaccarsi la schiena sotto il sole per spostare 2.300.000 blocchi di pietra bensì degli operai salariati (stimati tra i trenta e i cinquantamila) precettati tra coloro che, durante il periodo della piena, si ritrovavano senza un lavoro. A un osservatore moderno può apparire assurdo che una tale quantità di tempo, risorse e uomini sia stata usata per costruire una tomba; è qualcosa di talmente lontano dalla nostra moderna mentalità di efficienza dei lavori da spingere, insieme con l’incertezza dei mezzi usati, qualcuno ad affermare che non possono essere stati gli egizi i veri artefici di queste costruzioni tirando in ballo al loro posto di volta in volta gli atlantidei, gli alieni e altre fantasie. Ora come ho già detto in merito al Colosso di Rodi nel ragionare sulle sette meraviglie, ma vale per qualsiasi monumento dell’antichità, dobbiamo entrare nell’ordine di idee che furono erette da persone con un insieme di valori e concetti diversi dai nostri nonché depositarie di conoscenze tecniche che si erano accumulate per secoli. Infatti come i costruttori di cattedrali del medioevo non passarono da un giorno all’altro dalle chiese romaniche alla Sainte Chapelle di Parigi così per gli architetti dei Faraoni la Grande Piramide non fu uno sfizio estemporaneo bensì il punto di arrivo di almeno un secolo di tecnica; bisogna ricordare che prima dell'”orizzonte di Cheope” erano già state costruite, tenendo in considerazione solo quelle che sono giunte sino a noi in base alla lista di Lepsius, almeno dieci piramidi e dopo altre sessanta ne sarebbero state erette durante quasi mille anni. Purtroppo di questa sapienza tecnica non è rimasto nulla perché nessun papiro o affresco ci ha tramandato i metodi usati dagli egizi, perché sono stati loro mi rifiuto di parlare di omini verdi, per costruire le piramidi e la descrizione di Erodoto è di più di mille anni successiva all’erezione dell’ultima tomba. Ovviamente sono state avanzate varie teorie tentando di supplire col buon senso alla mancanza di informazioni; possiamo così supporre che, dopo aver portato i blocchi di pietra estratti dalle montagne di Mokattam in loco attraverso il Nilo, gli operai li muovessero attraverso una slitta in legno (ne appare un modello in una pittura della tomba del faraone Djehutihotep della XIII dinastia) o tronchi rotolanti o qualche tipo di macchinario rudimentale e alcuni esperimenti archeologici svolti sembrano confermare che, quantomeno, i mezzi dell’epoca rendevano possibili soluzioni del genere. Molto probabilmente per mettere i blocchi in posizione si usavano delle rampe (ne sono state proposte di ogni tipo: dritte, a spirale, zigzoidali, ecc.) unite a un sistema di leve, ma è giusto dire che, a parte alcune rampe minori e camminamenti, nessuna prova archeologica è stata mai trovata a sostegno di queste ipotesi. Una certezza invece è che i vari blocchi non fossero uniti tra di loro da alcun tipo di cemento e che tra negli spazi rimasti tra gli uni e gli altri (le pietre non erano geometricamente squadrate) venisse colata una malta, probabilmente di gesso e macerie, al solo scopo di stabilizzare la struttura. Tengo a ripetere ancora una volta che quanto riferito fino a qui in materia di tecniche di costruzione delle piramidi rientra nel campo delle teorie e nulla ci permette di megare che gli antichi egizi avessero trovato altri metodi più complessi o anche più semplici, e magari dal loro punto di vista anche più ovvi, per rispondere a ognuna di queste problematiche.

 Andando nello specifico alla Grande Piramide questa deve aver subito almeno due variazioni di progetto in corso d’opera perché la prima camera mortuaria era scavata nella roccia sotto il centro della piramide, com’era tradizione, ma non venne mai utilizzata anzi ne venne costruita una seconda sopra di essa all’interno della struttura della piramide ed esattamente sotto il suo vertice. Anche questa camera però in fine non venne destinata al faraone e, nonostante il nome di “camera della regina”, nessuna prova archeologica è stata portata a sostegno dell’ipotesi che sia stata usata per una qualche sepoltura. La camera mortuaria del faraone, costruita sopra la seconda camera, si raggiunge attraverso la così detta grande galleria, la cui funzione è ancora oggi misteriosa, un percorso verticale attraversato al centro da una rampa che si conclude in un’anticamera dove, secoli addietro, fu posto il gigantesco blocco di granito che avrebbe dovuto sigillare il sepolcro di Cheope. Al centro della Camera del re vi è il sarcofago in granito che, un tempo, forse ha contenuto la mummia del faraone; le sue dimensioni superiori all’arcata che separa la stanza dalla grande galleria ci permettono di affermare che fu posto lì prima che le nove lastre del tetto. Per evitare che il peso che grava sulla camera del re determini un crollo su di essa furono costruiti cinque comparti, detti camera di scarico quattro con un soffitto piatto e il quinto con un soffitto a capanna, allo scopo di redistribuire il carico di pressione; va detto però che in questo caso gli ingegneri di Cheope ebbero un eccesso di zelo perché calcoli moderni hanno confermato che per lo scopo sarebbe bastato anche un solo compartimento. L’aspetto attuale della grande piramide, ma anche quello delle sue sorelle, non è quello dell’opera finita perché si è perso il rivestimento esterno di calcare bianco che rendeva perfettamente lisce e lucenti le quattro facce; anche il suo vertice o pyramidion, che la tradizione vuole fatto in oro, è andato perduto sostituito da una spianata di 10 metri. Nemmeno l’ingresso che viene usato dai turisti è quello originale, rimasto sigillato, bensì quello aperto nell’820 d.c. dal califfo al-Ma’mun per saccheggiare i tesori che si fantasticava fossero nascosti all’interno. I numeri dell’opera non possono che impressionare: ogni lato era lungo più di 230 m. e l’intero edificio si elevava per oltre 146 m su una superfice di 54.300 mq per un volume di 521.000 mc.; le facce sono tra loro talmente ben equidistanti che gli scarti in lunghezza e negli angoli, come scrisse il grande egittologo Wiliam Petrie, “possono essere coperti col pollice”. La grande piramide, e in generale ogni piramide, non era però un unicum buttato nel deserto bensì parte di una grande complesso funerario sacro che comprendeva templi, fosse per tirare in secca le barche sacre usate durante la cerimonia funebre nonché piramidi o mastabe minori per le consorti del faraone, i principi reali e alcuni nobili.

Ma perché imbarcarsi in un’impresa del genere? Sin da che l’Egitto ebbe un faraone le rive del Nilo si riempirono i necropoli reali da quella antichissima di Abydos, ai siti delle piramidi a Giza e Dahshur sino agli splendori della valle dei re fuori Tebe. Origine di tutto va ricercata nella  concezione che gli antichi egizi avevano dell’aldilà come prosieguo del cammino dell’uomo possibile però solo a chi possa continuare ad usufruire delle condizioni fondamentali per la “vita”. Tra queste condizioni vi è la disponibilità dei beni che ne hanno accompagnato l’esistenza come una casa, gioielli, mobili, cibo, ma soprattutto un corpo che protegga l’anima la quale, separatasi da esso dopo la morte, dovrà tornarvi insieme al ka, cioè lo spirito protettore che rappresenta la forza vitale, per poter rinascere nella terra dei defunti. Probabilmente, ma non è certo, è proprio allo scopo di permettere all’anima di riunirsi al corpo che furono scavati due condotti, detti oggi d’areazione, della larghezza di 18 cm che collegano l’esterno della grande piramide con la camera del re. Diviene dunque chiaro il perché tanto della mummificazione quanto della costruzione di gigantesche tombe: tramite l’imbalsamazione dei cadaveri si preservava il rifugio dell’anima mentre con le piramidi le si garantiva  allo stesso tempo una casa e una difesa da attacchi esterni. Le piramidi, di fatto, erano delle fortezze innalzate per difendere il sonno eterno del faraone dai profanatori di tombe. Questo era il loro unico scopo, non si trattava di un edificio di culto per la collettività, ma solo dell’ultima dimora per il signore dell’alto e del basso Egitto costruita unicamente per la sua utilità. Certo c’era sicuramente anche una componente di esibizione di potenza negli sforzi titanici della IV dinastia, ma l’elemento centrale restava il terrore che la propria anima e il proprio ka restassero senza offerte o peggio non potesse rinascere nell’aldilà perché il corpo era stato profanato.  Le medesime considerazione di ordine puramente utilitaristico furono alla base della decisione di smettere di costruire piramidi: semplicemente non erano riuscite a scoraggiare i razziatori di tombe che, probabilmente attirati invece che intimoriti dalle loro dimensioni, riuscirono a penetrarle.  Quella dei tombaroli era una vera piaga per l’antico Egitto, le ricchezze nascoste nelle tombe dei faraoni e dei nobili erano troppo allettanti perché il senso del sacro o la minaccia delle punizioni per l’essere scoperti fermasse chi aveva come alternativa il morire di fame. Quando anche quelle gigantesche fortezze di pietra si rivelarono inefficaci semplicemente si smise di erigerle perché erano diventate inutili e, al loro posto, si provarono le tombe scavate, nonché nascoste, nella roccia della valle dei re senza però miglior fortuna. Va aggiunto che lo storico dell’archeologia C. W. Ceram afferma che accanto a questa ragione tecnica vi sia anche una ragione che lui definisce di “morfologia della storia”: per lui edifici monumentali come le piramidi, ma anche le ziggurat babilonesi e le chiese gotiche dell’Europa occidentale rappresentano il momento in cui una civiltà esce dello stato barbarico, assumendo coscienza di se, ed esprime una forza derivante dal prendere coscienza delle leggi della statica, della meccanica e dell’interpretazione della natura. Comunque è quasi certo che la grande piramide fu depredata secoli prima che gli arabi aprissero il loro passaggio perché nessun cronista musulmano nel riferisce di quest’evento lo accompagna con la descrizioni di fantastici tesori saccheggiati. Il destino della mummia di Cheope resta altresì ignoto; il suo sarcofago, come anche quello di Chefren scoperto nel 1818 dall’italiano Belzoni, è danneggiato in un modo che sembra suggerire un tentativo di apertura forzosa. Non deve comunque sorprendere che i razziatori di tombe non si fermassero neanche al cospetto del sacro corpo del faraone perché tra le bende di lino usate per l’imbalsamazione venivano posti degli amuleti preziosi per proteggere l’anima dal male, paradossalmente proprio quegli amuleti erano una calamita per chi era penetrato nella piramide in cerca di ricchezze.

Resta da discutere del così detto “Mistero della grande piramide” e cioè che la grande piramide sia costruita in modo da rivelare una mistica dei numeri o, in una versione più laica, che essa sia la prova delle immense conoscenze matematiche degli antichi egizi. Ci tengo a fare un’onesta premessa a questa sezione: essa si baserà interamente su fonti precise senza alcuna mia integrazione personale; il motivo di ciò è che tanto la matematica quanto la geometria sono due campi a me completamente avulsi e quindi non sono in grado di fare affermazioni sia perché molti concetti tecnici sono in primo luogo a me incomprensibili sia perché correrei il rischio di commettere macroscopici errori. Ora la teoria della mistica dei numeri suggerisce che tutto nella grande piramide dalle sue dimensione alla posizione di ogni singola apertura o corridoio ha un significato che, se interpretato, permetterebbe di leggere l’intera storia del genere umano. Mettiamo subito da parte questa ipotesi facendo notare che, nel 1922, l’archeologo tedesco Ludwig Borchardt pubblicò “Contro la mistica dei numeri applicata alla Grande piramide di Gizeh” in cui demolisce punto per punto tutte le affermazioni dei sostenitori della mistica e passiamo invece alla tesi “laica” in base alla quale si sostiene che gli elementi della Grande Piramide presentano delle precisioni tecniche tali da non poter essere il frutto del caso, ma di una precisa conoscenza scientifica di alcune discipline come la matematica, la geometria e l’astronomia. Di dati certi ve ne sono soltanto due e cioè che le tre piramidi di Giza sono esattamente orientate secondo le regioni celesti e che la diagonale nord-est della piramide di Cheope cade sul prolungamento della piramide di Chefren. Stando a C. W. Ceram tutte le altre misurazioni fatte si fondano su errori o esagerazioni o “arbitrarie amplificazioni delle possibilità che ogni grande costruzione può fornire quando si affrontano le sue dimensioni con unità di misura troppo piccole”. Per Ceram ogni misurazione fatta pecca del non tenere in considerazione che, essendo venuta meno la cima della piramide, non possiamo rilevare il diametro originario esatto del monumento; secondo lui non esiste alcuna prova che i gli antichi egizi fossero a conoscenza di nozioni matematiche e geometriche così avanzate, come il numero del Pi greco, da rasentare scoperte del XIX e del XX secolo mentre è certo che non disponessero di un’unità di misura fissa come il nostro metro. L’autore tedesco ammette che essi potessero aver sviluppato ampie conoscenze astronomiche, ma ancora una volta non c’è alcuna prova certa che dimostri che abbiano applicato tali conoscenze alla costruzione delle piramidi. L’archeologo John Romer, che ho già citato nel precedente articolo sulle sette meraviglie in quanto studioso di esse, è invece più possibilista ritenendo che alcune relazioni matematiche e geometriche come l’uso del triangolo con proporzioni 8:5, i cui angolo risultano retti e i cui numeri sono parte della proporzione della “sezione aurea”, non possano essere casuali e cita a riprova che simili serie numeriche erano spesso usate dai costruttori di templi egizi. Riguardo poi al rapporto piramide-astronomia Romer è invece certo portando a riprova che i due condotti di areazione da me precedentemente citati sono in perfettamente allineati alle principali stelle, probabilmente in un legame mistico con l’anima che rientra nel corpo del faraone, come perfettamente allineati ai quattro punti cardinali sono le facciate della piramide. Romer dice esplicitamente che, a suo parere, gli antichi egizi stessero tentando di fissare i loro edifici nei celi e, astrattamente, nell’universo naturale; Cheope avrebbe così riposato eternamente nel cuore di questo armonioso regno specchio della perfetta armonia dell’Egitto definito, non a caso,  dai suoi sacerdoti come “il tempio del mondo”. Riaffermando la mia completa assenza di supporti tecniche che mi permettano di valutare le due ipotesi, applicando la fredda logica mi sento tendenzialmente più in linea con la visione di Ceram non per manca di fiducia nel genio degli egizi quanto perché, come sapete, tendo sempre ad applicare a tutto il rasoio di Occam e l’ipotesi di Romer, per quanto affascinante, non mi sembra sufficientemente supportata per poter scartare la teoria più semplice. Concludo però con questa aggiunta: tempo fa provai la “Storia della matematica” di Boyer, un testo sacro per questa materia, e, prima di abbandonarla per incapacità di comprendere il più che vi era scritto, sono riuscito a leggere il capitolo sulla matematica dell’antico Egitto. Boyer ritiene che l’affermazione fatta da Aristotele che la matematica greca derivi da quella egizia sia un’esagerazione del loro debito nei confronti della civiltà del Nilo. Partendo dai papiri a noi pervenuti lo studioso inglese afferma che le conoscenze egizie fossero principalmente di natura pratica legate al calcolo di cui le conoscenze teoriche erano solo un elemento per facilitarne lo svolgimento; per quanto riguarda la loro geometrica, a lungo decantata proprio in ragione delle piramidi, anche essa è da lui ritenuta una branca dell’aritmetica applicata. Boyer afferma che si gli egizi fossero padroni di alcuni rapporti di relazione, come afferma Romer, ma che essi non fossero diretti al raggiungimento di una profondità concettuale bensì alla necessità di artifici per effettuare misurazioni pratiche come quella dei campi sulle rive del sacro fiume. Potrei sbagliarmi, ma queste considerazioni mi paiono andare molto più a sostegno della tesi minimalista di Ceram rispetto a quella “mistica” di Romer.

Il mausoleo di Alicarnasso

Nel novembre del 1856 il console inglese a Rodi Charles Thomas Newton sbarcò nel piccolo villaggio di Bodrum sulle coste ioniche della Turchia portando con se una cannoniera da guerra, l’HMS Gorgon, e un’autorizzazione del sultano per effettuare scavi nella zona. Da giovane Newton era stato un ricercatore presso il British Museum e qui aveva avuto occasione di ammirare i marmi che Sir Redcliffe, un altro funzionario dell’impero con il pallino della ricerca delle antichità, aveva trovato nel medesimo luogo e che si supponeva provenissero nientemeno che dal Mausoleo di Alicarnasso. Convinto che a Bodrum vi fosse molto altro da scoprire Newton iniziò la sua carriera diplomatica per avere occasione di esplorare la costa ionica e, una volta acquisita la certezza che quel piccolo villaggio di pescatori turchi fosse stato costruito sulle rovine della capitale della Caria, informò il British Museum e l’ambasciatore inglese a Costantinopoli della possibilità di entrare in possesso dei resti di una delle sette meraviglie del mondo con un ovvio aumento di prestigio dell’impero nel mondo. Sovvenzionato con 2000 sterline e una nave da guerra a protezione, più ingegneri dell’esercito, artisti, fotografi e altro personale tecnico, Newton iniziò a scavare una serie di tumuli sparsi in vari punti dell’abitato; dopo aver trovato i resti di una villa romana, i cui mosaici furono accurata staccati e imballati direzione Londra, il 1 Gennaio del 1857 iniziarono ad emergere i primi resti di sculture simili a quelle ritrovare da Redcliffe. Newton, come Schliemann dopo di lui, era completamente all’oscuro delle tecniche moderne di uno scavo archeologico e quindi si limitava ad aprire delle “miniere” a cielo aperto per poi riempirle con i cumuli di detriti se non davano i frutti sperati. Nonostante ciò riuscì a identificare l’area in cui un tempo si trovava la grandiosa tomba giungendo, agli inizi di Aprile, all’ampia scalinata che conduceva alla camera mortuaria e, sebbene finì per riseppellire i resti della grande festa funebre che sarebbero riemersi solo anni dopo, trovò alcuni nascondigli contenenti statuette di alabastro e vasi provenienti da Egitto e Mesopotamia. Sicuro di essere ormai sulla strada giusta Newton continuò a scavare trovando infine la grande lastra di lava che sigillava l’ingresso al corridoio per il sepolcro del re; eccitato si affrettò a farla rimuovere solo allo scopo di subire la medesima delusione che, in quegli stessi anni, tanti suoi colleghi provarono nelle tombe dei faraoni: non era rimasto nulla se non un pozzo vuoto. Più si procedeva negli scavi infatti e più ci si rendeva contro che il Mausoleo non era stato vittima del trascorrere del tempo, ma oggetto di un’accurata opera di demolizione che aveva lasciato integri solo pochi resti. Per quanto storicamente grandiose le scoperte di Newton fino a quel momento erano ben poca cosa: quale tamburo di colonna, alcune lastre di marmo, i resti di una persiano a cavallo gravemente mutilato e tanti, tanti frammenti. Ottimisticamente uno degli ingegneri militari che seguivano lo scavo scrisse che la cosa in sé non era negativa perché sarebbe bastato rimettere insieme tutti questi resti per avere un quadro dei fregi del monumento, oggi al British Museum si tenta ancora di farlo… Ma la fortuna decise in fine di arridere al nostro archeologo dilettante perché aprendo una nuova “miniera” a nord della zona della camera mortuaria trovò una zona di terra morbida sotto la quale, sparpagliate, vi erano lastre di marmo e resti di statue, che sebbene in pezzi, appartenevano sicuramente a un unico gruppo. Newton suppose che prima che giungesse la mano dell’uomo a fare pulizia un terremoto avesse colpito l’area provocando la caduta di alcuni elementi dal Mausoleo, ma nella disgrazia questa fu una fortuna perché questi resti finirono sepolti passando così inosservati finché il diplomatico inglese non li andò a cercare. Fu trovato così anche il pezzo da novanta che avrebbe giustificato al British Museum i soldi spesi: i resti della biga e dei suoi cavalli, con ancora le briglie e i morsi di bronzo attaccati, che si diceva si trovasse sulla cima del monumento. Forte di queste scoperte Newton poté fare il suo trionfale ritorno a Londra venendo nominato direttore del dipartimento di antichità al British Museum nonché cavaliere dell’ordine del bagno dalla regina Vittoria mentre i resti da lui scoperti, dopo un attento lavoro di recupero, vennero esposti per la prima volta nel 1882 in una galleria loro dedicata.

Dopo Newton altri, in particolare un team danese, eseguirono scavi a Bodrum portando alla luce le rovine dell’antica Alicarnasso e del suo Mausoleo; in particolare studiando di nuovo l’area del sacrificio funebre che Newton aveva rapidamente ricoperto furono trovate alcune ossa di animali che permisero la comprensione di molte delle tecniche di macellazione antiche. Ma nello specifico cosa fu questa tomba monumentale il cui nome ha definito per l’eternità un genere di edifici? La leggenda vuole che Artemisia, moglie e sorella, di re Mausolo di Caria all’improvvisa morte di questi nel 353 a.c. fece costruire la tomba (Mausoleo appunto tomba di Mausolo) prima di berne le ceneri disciolte nel vino e morire di dolore. Per quanto romantica questa versione necessita di alcune precisazioni: in primo luogo Mausolo non era un re bensì il satrapo della Caria allora assoggetta all’impero persiano e la tomba, date le dimensioni dell’opera, sicuramente fu iniziata su suo ordine anche se è probabile che venne continuata sotto Artemisia e, forse, i loro successori dato che la regina morì solo due anni dopo il consorte. Non ci è giunto molto rispetto alla vicenda umana di Mausolo, ma quello che si è potuto ricavare dalle fonti antiche unite con le evidenze archeologiche è che fu lui a portare la capitale della Caria ad Alicarnasso, all’epoca poco più di un villaggio sulla costa ionica, in ragione della sua ottima posizione commerciale erigendovi mura, strade, due porti, un arsenale, una fortezza e un grandioso palazzo celebrato secoli dopo da Vitruvio nel suo trattato sull’architettura. Sempre gli antichi affermano che Mausolo si impegnò nell’opera di aggregazione tra la cultura asiatica e quella greca e ciò ha portato alcuni storici moderni a ritenere che, una delle cause per cui il Mausoleo fu tanto ammirato in epoca ellenistica, fosse perché rammentava l’opera di un uomo che aveva anticipato il sogno di Alessandro Magno di commistione tra oriente e occidente.

Posto esattamente al centro della città nel punto di incontro tra le quattro vie principali si trattava di una struttura rettangolare con un colonnato e un tetto a piramide a gradoni sulla cui cima si stagliava una quadriga che Newton riteneva fosse condotta da due statue da lui ritrovate in ottime condizioni e identificate con Mausolo e Artemisia anche se oggi ciò è stato oggetto di contestazione da parte di molti archeologi in quanto le due sculture in questione non hanno le caratteristiche della rappresentazione degli aurighi nell’antica Grecia. L’edificio svettava al di sopra di tutte le altre costruzioni della città e i riflessi provenienti dalle acque della baia sicuramente contribuivano a illuminare il bianco marmo che lo ricopriva. Posto sul fianco di una collina il Mausoleo si trovava all’interno di un recinto delimitato da un basso muro; una scalinata, ai cui lati erano poste statue di leoni alcune delle quali oggi ritrovate, conduceva sino alla base dell’immensa struttura. Va sin da ora detto che non vi è una ricostruzione certa dell’aspetto del monumento esistendo invece varie ipotesi, alcune anche molti distanti tra loro, ma vi è una generale concordava che esso potesse essere sintetizzato in tre elementi posti uno sopra l’altro: una piattaforma di pietra, che conteneva il sepolcro di Mausolo, al disopra della quale si trovava il colonnato (pteron ovvero ala) e, probabilmente, una cella che serviva a redistribuire il peso del tetto piramidale. Questa è l’unica meraviglia di cui non ci è giunta la descrizione di Filone in quanto la parte ad essa dedicata è andata perduta, fortunatamente però vari autori greci e latini come Plinio il vecchio ci hanno lasciato molte informazioni in merito ad essa. Sappiamo così che il suo perimetro era di circa 132 m. con la facciata e il retro di una lunghezza lievemente minore rispetto ai due lati che misuravano 20 m, l’intera struttura infine era alta 42 m nello specifico 20 di edificio + 20 di tetto + 2 di quadriga; nessuna notizia invece in merito all’ubicazione della camera sepolcrale forse scavata nella fondamenta o all’interno di una cella ad hoc. L’assenza delle parole di Filone ci rende più difficile capire il perché della sua inclusione nell’elenco delle meraviglie: i rilievi di centauromachia e amazzonomachia che lo adornavano e che sono oggi in esposizione al British non paiono di fattura particolarmente eccelsa e di per sé l’edificio non è né il più grande né il più raffinato in chi si poteva imbattere un greco di epoca ellenistica vagando per l’Asia minore; l’idea generale era che a destare meraviglia fossero le “statue del superbo Mausoleo di pallido alabastro” che, cosa rare per l’epoca, non rappresentavano dei, ma animali e uomini. Sembra certo che il Mausoleo fosse ornato da almeno 100 statue colossali posizionate o in gruppi tra una colonna e l’altra o in qualche altro punto più basso del monumento. Le parole di Plinio sembrano far propendere per la prima ipotesi e lo studioso latino ci informa che i quattro angoli furono affidati a quattro artisti diversi: Scopa per l’est, Briasside per il nord, Timoteo per il sud e Leocare per l’ovest, ma sembra che anche i grandi Lisippo e Prassitele abbiano prestato la loro arte al monumento. Si tratta di tutti artisti di primissimo piano la cui maestria era universalmente riconosciuta già nei tempi antichi e le cui opere, o meglio nella maggior parte dei casi le copie romane delle loro opere, adornano i musei di mezzo mondo. Sebbene l’idea di tanti artisti in competizione tra loro è particolarmente affascinate logica vuole che, a capo di tante menti, vi fosse un’unica persona incaricata della conduzione generale dei lavoro e, secondo studi recenti, questi era il quinto artista citato da Plinio cioè l’autore della grande quadriga sul tetto: Pytheos. Non solo eccelso scultore, ma anche architetto se colui di cui parlò Plinio è la stessa persona che Vitruvio ci dice aver scritto un ‘opera sul Mausoleo nonché progettato un tempio ionico dedicato ad Atene a Priene città vicina ad Alicarnasso. Le rovine di questo tempio sono giunte sino a noi e studi comparatistici tra la sua struttura e le sue sculture con il Mausoleo hanno mostrato molti elementi in comune: simili sono i capitelli ionici, simile l’uso di un elaborato cassettone, simili le proporzioni e le misure delle facciate che mostrano relazioni matematiche e infine simili alcune sculture di Priene con il cavallo del Mausoleo. Stando a Vitruvio però Pytheos non era un semplice architetto, ma era anche il portatore di un nuovo concetto di architettura basato sull’unità delle arti: le sculture e i rilievi non dovevano essere un’aggiunta su di un edificio, ma dovevano fondersi perfettamente con esso in un perfetto gioco di proporzioni e forme. Per il già da me spesso citato John Romer questo concetto di architettura, che trova la sua prima espressione nella tomba di Mausolo, fu una delle cause della fama dell’opera in quanto creò un canone poi ampiamente seguito in molte altri monumenti del mondo ellenistico come l’altare di Pergamo custodito oggi al Pergamonmuseum di Berlino.

Ancora agli inizi del quattrocento la base del Mausoleo era in piedi nonostante nei secoli che seguirono la caduta dell’Impero romano una serie di terremoti aveva provocato il crollo del tetto e del colonnato con le sue grandiose statue; ma il suo tramonto era prossimo perché nel 1402 i cavalieri ospitalieri, nel loro continuo guerreggiare contro i turchi, occuparono la baia di Bodrum e vi costruirono il Castello di San Pietro ancora oggi visibile. I cavalieri rimasero sonnecchianti in zona per quasi un secolo, limitandosi a taglieggiare gli abitanti dei dintorni, finché nel 1482 non riesplose la guerra con il sultano a causa della defezione del fratello ribelle di questi prima a Rodi e poi a Roma. Il gran maestro dell’ordine temendo che le bombarde turche facessero a pezzi le fortezze ospitaliere inviò architetti con l’incarico di irrobustire le mura con ogni mezzo. Inizialmente si prese la pietra nelle immediate vicinanze del castello, ma progressivamente ci si iniziò ad avvicinare al perimetro del Mausoleo mezzo sepolto nel lato della sua collina che fu infine raggiunto nel 1522. Claude Guichard,  un lionese membro del personale civile che serviva il castello, ci ha tramandato il triste resoconto della distruzione della meraviglia: in primo luogo furono demoliti gli scalini e ,trovando che sotto di essi vi era della buona pietra, iniziarono a scavare portando alla luce le colonne, le statue e i fregi. Tutto venne fatto sistematicamente a pezzi e i resti buttati in delle fornaci per ottenere la calce da usare per il rafforzamento del castello; questo scempio non deve stupirci troppo perché all’epoca era opinione in molti ambienti religiosi che gli antichi monumenti fossero una pericolosa testimonianza pagana buoni solo per ottenere materiali da costruzione di buona qualità. Guichard ci racconta poi che durante questi lavori gli ospitalieri si imbatterono infine nel sepolcro di Mausolo che non aprirono perché si stava facendo buio, quando tornarono il giorno dopo trovarono che la tomba del signore della Caria era stata saccheggiata, probabilmente dai pirati che veleggiavano lungo la costa, e che tutto ciò che rimaneva del tesoro funebre erano dei frammenti di stoffa e oro. Così dopo 2247 anni la stessa mano del uomo che lo aveva eretto pose fine all’esistenza del Mausoleo di cui oggi a Bodrum restano solo rovine sparse che solo l’immaginazione può ricondurre all’immensa struttura che fu un tempo. Tragica ironia della sorte questa sistematica distruzione si rivelò inutile perché solo pochi mesi dopo, a seguito della caduta di Rodi, il castello di San Pietro verrà pacificamente consegnato ai turchi che l’avrebbero usato come prigione.

1 Response
  • Johnf277
    29 Dicembre 2017

    Hello. excellent job. I did not expect this. This is a great story. Thanks! gbdaeddeafaa

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