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Le 7 meraviglie del mondo: la statua di Zeus e il colosso di Rodi

Poche cose nella storia hanno catturato l’immaginazione dell’uomo, sin dai tempi antichi, come l’elenco delle sette meraviglie del mondo, un decalogo di capolavori del genio umano che destavano stupore, riverenza e ammirazione in chiunque le osservasse. Situate tutte nell’area orientale del bacino del Mediterraneo, lì dove per il tempo di un sogno si estese l’impero di Alessandro, esse rappresentarono l’universalismo della cultura ellenistica prima dell’apoteosi di Roma. Delle sette originali solo una, la grande piramide di Giza, è sopravvissuta, ma la loro leggenda si è tramandata con tale forza che oggi è comune trovare riviste, associazioni o siti che chiedono di votare una lista di sette meraviglie ora del mondo moderno, della natura, dello spazio ecc. Onestamente però in quanti possono dire di conoscere questi capolavori al di la della loro semplice enumerazione che finisce sempre, come per i sette nani o i dieci comandamenti, con quell’ultima che non ti viene? Con questa serie di quattro articoli vi porterò la storia di tutte e sette le meraviglie descrivendone due per volta; lo so tutti si saranno immediatamente accorti che i conti non tornano perché 4×2 non fa sette, ma otto però la spiegazione c’è ed è che sulla settima meraviglia non c’era una comunanza di vedute perché gli antichi, tra cui Filone di Bisanzio che ha lasciato il catalogo più lungo e dettagliato, ritenevano che fossero le mura di Babilonia mentre gli autori medievali, come Gregorio di Tours e Beda di Jarrow, scelsero il Faro di Alessandria. Io, dal basso della mia importanza, per completezza narrativa ho deciso di inserirle entrambe lasciando che siate voi lettori a scegliere quale delle due opere meriti il settimo posto oppure se siano di pari grado e quindi, in barba alla tradizione, meritevoli entrambe di rientrare nella lista.

La Statua di Zeus ad Olimpia

Per comprendere quale doveva essere la sensazione che provava un greco trovandosi davanti alla gigantesca statua di Zeus ad Olimpia immaginate un cristiano che, per la prima volta, entra nella Cappella Sistina e fissa lo sguardo sul Cristo giudice del Giudizio Universale di Michelangelo. Quella figura severa ed imperiosa, il rex tremendae maiestatis di cui si canta nei Requiem, desta soggezione perché così lontana dall’immagine di un signore misericordioso a cui siamo abituati; ebbene credo che un sentimento simile dovesse pervadere un abitante dell’Ellade perché, come scrive Filone, “mentre di fronte alle altre sei meraviglie, noi ci meravigliamo semplicemente, di fronte a questa ci inginocchiamo riverenti, perché l’abilità dell’esecuzione è altrettanto incredibile quanto la sacralità dell’immagine.” Autore di quest’opera fu Fidia lo stesso scultore della Atena Parthenos e dell’Atena Lemnia sull’acropoli di Atene, la sola fama di queste tre opere ha permesso al nome di questo artista di giungere a noi come uno dei più grandi scultori di tutti i tempi sebbene nessuno dei suoi lavori sia sopravvissuto (i marmi di Elgin o fregi del Partenone infatti non furono opera di Fidia, ma dei suoi allievi con lui nel ruolo di supervisore). Completata intorno al 438 a.c. la statua di Zeus era realizzata con la tecnica detta crisoelefantino, la stessa dell’Atena Parthenos, cioè si realizzava un’ossatura di impalcature di legno (“barre, bulloni e chiodi, travi e cunei” dirà Luciano) che poi venivano ricoperte di avorio per la pelle  e d’oro per i drappeggi; la sontuosità della statua era aumentata dalla decorazioni in pietre preziose sulla corona d’ulivo e gigli di vetro smerigliato che decoravano gli abiti di Zeus. Alcuni storici dell’arte si sono meravigliati che una statua così eccessiva, quasi orientale qualcuno l’ha definita, fosse considerata dai greci, da sempre ritenuti il punto di riferimento per la raffinatezza scultorea, la loro più grande opera e ciò va unito con l’altrettanto grande stranezza che quest’opera, apparentemente così ammirata, sia stata poco copiata ed imitata.

Raffigurazione della statua di Zeus

Questa stranezza, messa ben in evidenza dall’archeologo John Romer nel suo lavoro sulle sette  meraviglie, può essere spiegato partendo dall’analisi della figura ritratta da Fidia. Il suo Zeus era un gigante di 12 metri d’altezza, come Atena Parthenos che però era in piedi, descritto da Pausania come assiso in trono con nella mano destra una Nike e nella mano sinistra uno scettro con un’aquila appollaiata in cima; il trono è anch’esso fatto d’oro ed avorio  e decorato come figure di donne danzanti, Ercole che combatte le Amazzoni, altre divinità come Apollo ed Artemide e, forse, immagine di giovani che gareggiano nelle Olimpiadi, tra i quali Pausania riteneva vi fosse anche Pentarco il ragazzo amato da Fidia. I piedi della statua non poggiavano sul pavimento , ma su una sorta di poggiapiedi che i greci chiamavano thranion anche esso decorato mentre sulla cima della costruzione, poco sopra la testa di Zeus, le Tre grazie da un lato e le tre stagioni dall’altro; questo immenso trono era sorretto non solo dalle sue stesse gambe, ma anche da colonne posizionate tra di esse e sotto al trono non era possibile accedere perché erano stati posizionati degli schermi per chiuderne l’accesso. L’effetto dirompente dell’opera per lo spettatore era accentuato dal geniale gioco di proporzione e luce adoperato da Fidia infatti il tempio di Zeus ad Olimpia in stile dorico, di cui oggi restano solo rovine sparse al suolo dal terremoto che nel VI secolo d.c. lo distrusse, non era né particolarmente imponente né sontuoso più di altri, per dire ha quasi le stesse proporzioni del Partenone ad Atene ed di 10m più grande del Tempio di Era a Paestum, ma queste dimensioni così ordinarie creavano un effetto ottico perché una volta entrati ci si trovava davanti ad una statua che, parole sempre di Pausania, “la testa era poco sotto le travi del soffitto e se si fosse alzato avrebbe scoperchiato il tempio”. Lo spazio visivo veniva dunque travolto da questa immagine che riempiva la cella e che impressionava ancora di più appunto perché seduta, immaginando quindi cosa potesse essere se si fosse alzata; la cella poi era scarsamente illuminata e la testa sarebbe scomparsa nell’oscurità se Fidia non avesse ideato una stratagemma geniale: alla base della statua vi era infatti una pozza bassa che veniva riempita con olio d’oliva il quale aveva un doppio scopo perché serviva sia a conservare l’Avorio nell’umida atmosfera dell’Altide sia per riflettere, direttamente sul volto di Zeus, la poca luce che filtrava dalla porta. Cosa interessante è che, nonostante tutti questi accorgimenti, nessuno dei commentatori antichi, nel dare la descrizione della statua, definisce la figura di Zeus, il cui appellativo era il tonante, come temibile  bensì equilibrato e per nulla spaventoso; sempre secondo John Romer Fidia, che apparteneva a quella generazione di scultori che aveva definitivamente acquisito la consapevolezza della differenza di un corpo allenato con un normale o di un individuo giovane rispetto ad uno di mezz’età, non rappresentò una divinità ideale bensì  lo snello corpo solido e i muscoli di un giavellottista, dopotutto Zeus non lancia saette dalla vetta dell’Olimpo?, e il volto barbuto di un uomo di mezz’età. Dunque lo Zeus di Fidia era molto meno divino e molto più umano di quanto forse i greci erano abituati e quindi potrebbe essere questa la causa della pochezza di imitazioni dell’opera: in un certo senso appariva irrispettosa perché aveva reso il divino così umano e di conseguenza l’umano, almeno in parte, divino.

Se le cose stanno così allora perché questa statua ebbe tanta fama? Essa non fu né la prima né l’ultima statua colossale e i contemporanei non la ritenevano neanche il miglior lavoro di Fidia, titolo riservato all’Atena Lemnia sulla vetta dell’acropoli; a renderla speciale fu ciò che rappresentava per tutti i greci ciò quell’unità culturale e spirituale che suppliva alla mai trovata unità politica. Essa, non a caso, era situata ad Olimpia che non fu mai una città, ma il santuario nazionale dedicato al culto del padre degli dei e patrono non di questa o quella città bensì di tutta la Grecia; qui si tenevano i giochi olimpici che, prima di una
manifestazione sportiva, erano una grande festa religiosa in cui si celebrava la grecità. Tra quei giochi olimpici e quelli moderni vi è un abisso che noi non saremo mai in grado di riempire perché ai piedi del Monte Olimpo gli atleti giuravano dinanzi a Zeus e i vincitori venivano ammessi alla sua presenza nel Tempio avendo anche il privilegio di donare una statua di bronzo al Dio; inoltre, nel mentre si disputavano le gare, scrittori davano lettura delle loro opere, si tenevano vivaci dibattiti filosofici e cerimonie religiose. Lo Zeus di Fidia allora non era una semplice statua, ma era il centro di questo microcosmo in cui i greci celebravano la loro diversità dal resto del mondo abitato da barbari, chiamati così perché sembrava che balbettassero quando parlavano.

Oggi dell’opera di Fidia non resta nulla travolta dalla guerra senza quartiere che il cristianesimo fece, una volta che divenne religione dominante, a tutte le manifestazione del paganesimo. Nel 393 d.c. l’imperatore Teodosio mise fuori legge tutte le festività pagane, tra le quali anche le Olimpiadi, e nel 424 ordinò l’incendio di Olimpia e il saccheggio dei templi di Zeus ed Era. La statua sopravvisse a questo scempio, sebbene già Costantino avesse ordinato la rimozione dell’oro da essa, e venne trasferita a Bisanzio dal ciambellano di corte Lauso che creò una sua personale galleria di opere pagane saccheggiate un po’ dappertutto. Si trovarono così allineati in uno stesso luogo alcuni dei più importanti capolavori dell’arte antica come l’Era di Samo o l’Afrodite di Prassitele e, nell’abside nel fondo della galleria, anche lo Zeus di Fidia rimasto solo con la sua pelle d’avorio. Quando Lauso perse il suo incarico è probabile che la statua fu smantellata e imballata, ma continuò a vivere almeno fino al 475 quando un incendio distrusse parte di Costantinopoli, compresa la zona dove si trovava la galleria, consumandone probabilmente la struttura portante in legno e se così non fu secoli di rivolte e guerre ne determinarono comunque la distruzione.

Nota conclusiva: secondo John Romer se vogliamo farci un’idea del volto dello Zeus di Olimpia dobbiamo osservare il volto di Gesù in una qualsiasi chiesa orientale: il naso dritto, i capelli con la riga al centro, la barba e lo sguardo severo non sarebbero altro che la metamorfosi dell’antico dio pagano colpito dalla luce dei celi per diventare il Cristo giudicante degli ortodossi.

Il colosso di Rodi

Raffigurazione del Colosso di Rodi

L’immagine tradizionale che si ha del Colosso  è quella di una statua, opera dello scultore Carete di Lindo, raffigurante il dio Elios che, a gambe divaricate, fa da arco all’ingresso delle navi al porto di Rodi. Tale immagine deriva da due litografie di Jean Cousin contenuta nella Cosmografia del Levante del 1556, ma purtroppo, nonostante la sua sicura spettacolarità, è assolutamente inveritiera in primo luogo perché all’epoca di Cousin il Colosso era già stato smantellato da più di dieci secoli e nessuna delle fonti classiche, contemporanee al Colosso, ha lasciato una descrizione né dell’aspetto né della posizione della statua. A oggi noi non sappiamo dove Cousin abbia tratto l’ispirazione per la sua ricostruzione, potrebbe essersi basato su dicerie messe in giro durante i secoli dai pellegrini che si erano fermati a Rodi sulla rotta per la terra santa (ma a questo punto sarebbe da chiedersi da che fonte questi pellegrini avrebbero tratto a loro volta l’informazione) oppure potrebbe essere stato un parto originale della sua mente; fatto sta che quest’immagine si è affermata un po’ in tutto l’occidente e ancora alla metà del novecento alcune enciclopedie la propagandavano come la forma originale del Colosso.
La cosa sorprendente è che basta un rapido controllo delle dimensioni della statua, queste invece sì giunteci attraverso vari autori, per capire quanto irreale fosse l’idea di una statua a gambe divaricate sotto le quali passavano le navi. La statua infatti  misurava 38m d’altezza con 18m di circonferenza del petto e 6m alle ascelle, altri 3m di circonferenza cosce e 1,5m di circonferenza delle caviglie; stante queste misure l’arco che avrebbero formato le sue gambe non avrebbe mai permesso a una nave di passare (tanto più una grossa nave da guerra come una quadriremi) e comunque reso impossibile il passaggio contemporaneo di più imbarcazioni il ché sarebbe stato piuttosto svantaggioso per uno dei principali porti commerciali del Mediterraneo. Ma allora dove si trova il Colosso? L’ipotesi più scontata è che, trattandosi di un omaggio a un dio, fosse posizionata sull’acropoli della città accanto al Tempio di Elios come l’Atena Lemnia ad Atene. Scavi condotti sulla collina di Rodi, dove oggi è situata la chiesa di San Giovanni opera dei cavalieri ospitalieri, hanno portato alla luce antiche mura, con blocchi di pietra che recavano iscrizioni inneggianti al dio, che potrebbero essere appartenute al Tempio. Ciò ha creato la speranza di poter essere vicini all’individuazione del sito della statua, ma poiché un’opera di quelle dimensione, anche dopo smantellata, avrebbe dovuto lasciare delle tracce come i resti della base ben ancorata al terreno morbido della collina o i laboratori dove si lavorarono il bronzo e la pietra, non essendo stato trovato nulla del genere  gli archeologi sono stati spinti ad escludere che l’acropoli di Rodi ospitasse la statua. Si è allora tornati a guardare verso il mare seguendo questo ragionamento: poiché la statua rappresentava il dio protettore della città e la ricchezza di Rodi veniva dai commerci allora forse la si è posta a guardia di quel mare che poteva essere la fortuna o la rovina dell’isola; inoltre in quel punto essa poteva anche avere uno scopo pratico fungendo da punto di riferimento fisso per i marinai in avvicinamento alla costa (stessa funzione del Faro d’Alessandria di cui la statua era contemporanea). Rodi ha sin dall’antichità due porti uno più piccolo, chiamato Mandraki o ovile, che fungeva da arsenale e uno più grande per accogliere i commerci; a separare i due porti è un lungo molo che corre perpendicolare alla costa e proprio qui si sono concentrate le attenzioni di chi cercava il luogo dov’era situata la statua. Si sa per certo infatti che anticamente questo molo era molto più ampio inoltre la sua estremità è costituita da uno zoccolo di rocca dura, su cui oggi si trova la fortezza di San Nicola, che certo avrebbe potuto sopportare il peso della statua. Aggiungiamo poi che il Colosso fu eretto per ringraziare Elios della protezione accordata a Rodi quando il re Demetrio I assediò l’isola; non è da escludere che alcuni dei più duri combattimenti si siano svolti proprio sul molo, come poi accadde durante i due assedi turchi contro gli ospitalieri nel 1480 e nel 1522, e che i rodiesi vollero onorare il dio proprio nel luogo dove, col suo aiuto, avevano difeso la loro libertà. Bisogna considerare poi che proprio nella fortezza di San Nicola si sono trovate forse le uniche prove materiali attinenti al Colosso; qui infatti l’archeologo Albert Gabriel ha notato che alcuni blocchi di marmo, apparentemente risalenti all’epoca delle meraviglie e usati poi per costruire le mura, erano stati tagliati incurvati in segmenti di 15cm di diametro e provando a continuare la curva ne risultava un cerchio delle dimensioni di un torrione medievale. Secondo Gabriel questi blocchi di marmo facevano parte della base del colosso e questa ipotesi sembra essere supportata dalla successiva scoperta che, le fondamenta della fortezza, poggiano su enormi blocchi di pietra arenaria posti anch’essi in cerchio. Ovviamente nessuna di queste prove si può definire conclusiva, ma messe tutte insieme creano sicuramente la teoria più concreta in merito al luogo dove si sarebbe potuto trovare il Colosso.

Ancora più problematica è stata la questione del come sia stata costruita la statua a causa di un contrasto sulla traduzione di un brano di Filone; si sono andate formando due scuole di pensiero: una dello scultore Herbert Maryon che parla dell’uso di lamine di bronzo e l’altra del dott. Haynes del British Museum che sostiene la colatura. Nel 280 a.c., anno in cui Carete realizzò la sua opera, la lavorazione del bronzo aveva già più di duemila anni di storia e il bacino del Mediterraneo era pieno di statue, anche più grandi del Colosso, fatte di questo metallo. La principale tecnica adoperata era quella della cera persa e consisteva nel creare un abbozzo della statua in gesso o argilla (detta “anima”) da ricoprirsi di cera; la cera poi veniva lavorata e, una volta finito, veniva ricoperta a sua volta con un grosso stampo, anche questo in gesso o argilla, che veniva cotto finché non si induriva e la cera, sciogliendosi, fluiva fuori lasciando un’intercapedine tra l’”anima” e lo stampo all’interno della quale veniva colato il bronzo fuso. Diciamo subito che la tecnica di un’unica colata  non fu sicuramente usata per il Colosso perché, anche riuscendo a supplire alle varie difficoltà tecniche tra le quali il portare tutto quel bronzo fuso a 38m d’altezza, il risultato finale sarebbe stato un gigante del peso di 200 tonnellate che non avrebbe mai potuta restare in piedi. Haynes ha proposto, partendo dal testo di Filone, una colatura progressiva delle varie parti della statua cioè, ad esempio, si colavano i piedi poi, una volta freddati , si colavano le caviglie e così via salendo; tale idea però è irrealistica perché, come chiunque lavori i metalli potrà confermare, versando bronzo fuso contro bronzo freddo non si ottiene una fusione tra i due. Aveva allora ragione Maryon? Filone si sbagliava dato che è opinione comune che “colare su” sia la traduzione corretta del testo contestato? Ancora John Romer offre un interessante punto di vista partendo da una considerazione che credo sia utile riportare perché applicabile allo studio su tutte e sette le meraviglie: quando pensiamo a come queste opere furono costruite non dobbiamo farlo partendo da come le erigeremmo noi oggi perché la modernità ha sviluppato una serie di concetti di praticità sconosciuti ed economicità he non erano propri degli antichi i quali confidavano invece nel successo del lavoro di massa. Come detto la lavorazione del ferro nel 280 a.c. aveva più di duemila anni quindi Carete e i suoi assistenti disponevano di secoli di esperienza a cui attingere e per Romer non si può escludere che abbiano messo in capo ben più di una tecnica per realizzare il Colosso. Romer allora fa notare come, tanto Filone che Plinio, nel parlare del Colosso affermano che l’interno era composto da blocchi di pietra tenuti insieme da strutture di ferro; tali blocchi però non erano un semplice scheletro per fornire una base stabile, ma erano a loro volta lavorati “con il martello alla maniera ciclopica” (Filone). Un’iscrizione su un obelisco di pietra a Istanbul, fatto erigere dall’imperatore Costantino VII, afferma “Il Colosso era oggetto di meraviglia a Rodi e questo bronzo è oggetto do meraviglia qui.” dal che possiamo dedurre che la pietra dell’obelisco un tempo fosse ricoperta di bronzo come, a detta dell’autore dell’iscrizione, lo era anche il Colosso a Rodi. Ecco allora emergere l’ipotesi di Romer: il Colosso era costruito da lamine di bronzo, tagliate in sezioni, che coprivano una struttura in pietra lavorata  incastrandosi ad essa; si spiegherebbe così anche l’uso della parola “colata” da parte di Filone in quanto Carete avrebbe sicuramente colato il bronzo su una superfice levigata per ottenere le lamine da usare.

Un gigantesco punto interrogativo difficilmente sanabile attiene invece all’aspetto della statua. Come detto nessuna fonte antica ne parla e, in assenza anche di qualsiasi resto della statua, è pressoché impossibile sapere se fosse vestita o nuda e se avesse in mano una lancia, una spada o  una coppa come appare in certe ricostruzioni. Si potrebbe però avanzare alcune ipotesi in merito alle fattezze del volto in ragione del fatto che, essendo Elios il patrono di Rodi, sono state trovate sull’isola varie monete e busti raffiguranti il dio. Una quasi certezza
è che la statua avesse sul capo una corona di raggi, parte costante dell’iconografia di Elios a Rodi, ed è possibile poi che riprendesse altri elementi tipici della rappresentazione del dio del sole come la lunga veste o il tenere un braccio sollevato, a mo’ di benedizione, mentre con l’altro regge un’orbita, una frusta o uno scettro. Sono state avanzate anche ipotesi come quella di una statua seduta,  da non escludere a priori, o che questa si trovasse alle redini del carro del sole, molto improbabile anche se non impossibile. Romer però prova a spinge oltre partendo da una testa di marmo raffigurante il dio opera della scuola di Lisippo di cui faceva parte lo stesso Carete. Osservando questa testa non si può non constatare una somiglianza con il busto di Alessandro Magno proprio di Lisippo, che era stato uno degli artisti ufficiali del grande macedone, e Romer ritiene che i lineamenti elaborati dal maestro di Carete possano essere stati da questo usati per il volto del Colosso perché essi erano più di un semplice ritratto, bensì un nuovo modo di concepire la scultura più lontana dall’ideale in favore della realtà.

Stando a Plinio solo cinquantasei anni dopo la sua realizzazione, probabilmente nel 227 o nel 224 a.c., il Colosso crollò in mare a causa di un terremoto e i rodiesi rifiutarono di ricostruirla perché l’oracolo di Delfi aveva predetto sciagure per l’isola se lo avessero fatto. La statua rimase così sul fondale del mare di Rodi, destando comunque meraviglia anche in quella posizione, almeno per altri ottocento anni finché, nel 654 d.c., gli arabi non conquistarono l’isola e il generale Mu’awiya, futuro primo califfo Omayyade, ordinò che il bronzo del colosso fosse rimosso per poter essere venduto. Questa descrizione della fine del Colosso sembra, seppur indirettamente, corroborare la tesi di Romer sulla tecnica usata per costruirlo in quanto lamine di bronzo già tagliate e piuttosto sottili sarebbero state facilmente staccabili dalla pietra; ciò spiegherebbe anche la totale assenza di resti dell’opera a seguito del suo smantellamento. Stando a varie fonti, tra cui il “De administrando imperio” dell’Imperatore Costantino VII, il bronzo fu portato in Siria e qui comprato da un mercante ebraico di Edessa che lo caricò su novecento cammelli con probabile destinazione finale la fusione. Non sappiamo che fine fecero i blocchi di pietra usati come interno del Colosso, ma è molto probabile che, una volta rimosso il bronzo, siano stati riutilizzati per svariati lavori di costruzione e non è quindi da escludere che alcuni dei più antichi edifici di Rodi abbiano, nelle loro fondamenta, gli ultimi resti esistenti di quella meraviglia.

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