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L’eruzione di Pompei

Di  Giovanni Raimondo

L’eruzione di Pompei è un fatto storico noto a piccoli e grandi, ma dentro questo fatto storico, sono stati inseriti alcuni miti che ancora tutt’ora grazie alle guide, film, romanzi famosi ecc, vengono ancora divulgati.

Primo mito da sfatare: Il Vesuvio  ha eruttato la sua furia sulle  città collocate sulle sue pendici

La vulgata  ufficiale  racconta che il Vesuvio fu ad esplodere, ma studiando la geografia dell’epoca, si nota che la realtà è un’altra e ci riporta un altro vulcano: Il Monte Somma! Il Monte Somma è quel dentello, che sta alla sinistra del Vesuvio, che non è altro che, una parte dell’ampia cresta circolare  del cratere antico, che gira intorno al Vesuvio. Il Vesuvio nacque proprio da quella eruzione  del 79 d.C. e per raggiungere quell’altezza così minacciosa che in qualunque cartolina di Napoli si vede, impiegherà secoli. I Romani  poi chiamavano il vulcano “Vesuvius” o “Vesbuis”. Bisogna tenere a mente questo particolare per evitare confusione, quindi  il vulcano  al tempo dei Romani si chiama “Vesuvius” e quello in  seguito “Vesuvio”.

Secondo mito da sfatare: Il vulcano che distrusse Pompei aveva un cono impotente

I film come i romanzi famosi, tramandano questa visione del cono, ma in realtà, il vulcano ebbe quelle dimensioni durante l’ultima glaciazione, grazie alle colate laviche, ma in seguito alle esplosioni eruttive, la struttura collassò lasciando in superficie solo la base del cratere. Eh, si , così al tempo dei Romani, si presentava il vulcano: Un monte basso e lungo. Inoltre a rendere difficile la vera natura di quella montagna era la sua fertilità che ospitava boschi, vigneti, e campi coltivati. Quindi era normale che i Romani non se ne accorsero di vivere alle pendici di un vulcano. La cosa più emozionante è che i Romani raffiguravano negli affreschi l’omicida silenzioso e questa testimonianza ci è  pervenuta  grazie alla scoperta di un affresco  nella casa  di Rustio Vero, nel 1879. L’affresco raffigura il dio del vino, Bacco, e alle sue spalle il monte ripido.  Il vulcano aveva ucciso già prima del 79 d.C., e infatti ricordiamo: Le Pomici di Avellino di 4.000 anni fa, l’eruzione di Pollena in cui  le ceneri giunsero fino a Costantinopoli(472 d.C.), l’eruzione del 1631 e quella del 1944. Come uno ben sa, prima che un  vulcano compie  l’eruzione, ci sono sempre dei segnali premonitori: i terremoti. Infatti  prima dell’eruzione del 79 d.C., già negli anni precedenti si ebbero terremoti ed il più violento fu quello del 62 d.C. L’ultima scossa di terremoto si ha pochissimi giorni prima dell’eruzione.  La domanda che uno si potrebbe farsi arrivati a sto punto è: Ma ci sono stati studiosi che avevano intuito la pericolosità del vulcano?? Bhè, la risposta è si. Tra gli studiosi ricordiamo il geografo Strabone che nella sua opera “Geografia”, morto 50 anni prima dell’eruzione, scrisse:

“Il Vesuvio è una montagna rivestita di terra fertile alla quale sembra che abbiano tagliato orizzontalmente la cima; codesta cima forma una pianura quasi piatta, totalmente sterile, del colore della cenere, nella quale si incontrano di tratto in tratto caverne piene di fenditure, formate da pietre annerite come se avessero subito l’azione del fuoco; di modo che si può congetturare che là vi fosse stato un vulcano il quale si è spento dopo aver consumato tutta la materia infiammabile che gli serviva da alimento. Forse è questa la causa cui dobbiamo attribuire la mirabile fertilità delle pendici della montagna”.

e poi Diodoro Siculo che nella sua “Bibliotheca historica”, scrive:

“Si racconta che questa natura si chiamasse Flegrea, per un monte che in passato eruttava un terribile fuoco come l’Etna in Sicilia:quel monte ora si chiama Vesuvio e conserva molte tracce del fatto che era infiammato”.

Un’altra fonte che ci parla dell’intuizione della pericolosità del Vesuvio, è quella di  Marco Vitruvio Pollione, contemporaneo di Diodoro Siculo. Ma nessuno dei tre studiosi venne ascoltato. Neanche Plinio il Vecchio, grande naturalista, abitante alle pendici del Vesuvio si accorse del pericolo che incombeva. Ma prima di procedere agli eventi drammatici dell’eruzione, fornitoci da Plinio il Giovane, nipote di Plinio il Vecchio, faremo un exscurs storico sulla storia di Plinio il Vecchio.

Plinio il Vecchio era il comandante della principale flotta imperiale a Miseno. Lui servì per 12 anni nelle legioni stanziate in  Germania, comandando uno squadrone di cavalleria, ma la sua carriera  subì un’interruzione con la salita di Nerone. Morto Nerone,la sua carriera riprese, diventando consigliere personale dell’Imperatore Vespasiano( Plinio aveva militato nell’esercito in Germania, insieme al figlio dell’Imperatore, Tito) e poi successivamente del figlio Tito. Ebbe incarichi governativi in Gallia Nabornese, in Africa proconsolare  e in Spagna Tarragonese. E autore di un’opera colossale “Naturalis Historia”,che tratta vari argomenti dall’antropologia  alla mineralogia, ancora tutt’ora citata e consultata. Purtroppo tutte le altre opere che ha scritto  sono andate perdute. Bene, dopo questo exscursus storico su Plinio il Vecchio, passiamo a raccontare gli eventi drammatici dell’eruzione. Il Vesuvius esplode innalzando una colonna  scura di fumo, portandosi con sé una tonnellata di gas, vapore e magma alla velocità di centinaia di metri al secondo……

Prima lettera di Plinio il Giovane a Tacito:

“Caro Tacito

Mi chiedi che io ti esponga la morte di mio zio, per poterla tramandare con una maggiore obiettività ai posteri. Te ne ringrazio, in quanto sono sicuro che, se sarà celebrata da te, la sua morte sarà destinata a gloria immortale. Quantunque infatti, egli sia deceduto nel disastro delle più incantevoli plaghe, come se fosse destinato a vivere sempre -insieme a quelle genti ed a quelle città- proprio in virtù di quell’indimenticabile sciagura, quantunque abbia egli stesso composto una lunga serie di opere che rimarranno, tuttavia alla perennità della sua fama recherà un valido contributo l’immortalità dei tuoi scritti. Personalmente io stimo fortunati coloro ai quali per dono degli dei fu concesso o di compiere imprese degne di essere scritte o di scrivere cose degne di essere lette, fortunatissimi poi coloro ai quali furono concesse entrambe le cose. Nel novero di questi ultimi sarà mio zio, in grazia dei suoi libri e in grazia dei tuoi. Tanto più volentieri perciò accolgo l’incombenza che tu mi proponi, anzi te lo chiedo insistentemente. È per questo che sono ben lieto di fare ciò che mi chiedi, ed anzi te lo chiedo io stesso come favore. Egli era a Miseno, dove personalmente dirigeva la flotta. Il nono giorno prima delle calende di settembre (24 agosto), verso l’ora settima, mia madre lo avverte di una nube inconsueta per forma e grandezza. Egli, dopo aver fatto un bagno di sole ed uno d’acqua fredda, se ne stava disteso, fatta una piccola colazione, a studiare: chiede le calzature e sale in un sito dove poteva osservare meglio quel fenomeno straordinario. Una nube si formava e non era chiaro all’osservatore da quale monte s’innalzasse (si seppe, poi, essere il Vesuvio), il cui aspetto, fra gli alberi, era vicino a quello del pino. Essa, infatti, levatasi verticalmente come un altissimo tronco, s’allargava poi a guisa di rami, probabilmente perché, sollevata grazie alla spinta di una corrente ascendente e poi abbandonata a se stessa per il cessare di quella, o cedendo al suo stesso peso, si allargava lentamente: a tratti bianca, a tratti nera e sporca a causa della terra e della cenere che trasportava. Da persona eruditissima quale era, gli parve che quel fenomeno dovesse essere osservato meglio e più da vicino. Ordina, allora, che gli sia apprestata una liburna: mi autorizza, se voglio, ad andare con lui. Io gli rispondo che preferisco restare a studiare. Era sul punto d’uscire di casa, quando riceve un messaggio di Rectina, moglie di Casco, atterrita dal pericolo che la minacciava (la sua villa era, infatti, ai piedi del monte, e nessuna possibile via di scampo v’era tranne che con le navi): supplicava d’essere sottratta a tale pericolo. Egli, allora, mutò consiglio e, quello che intendeva compiere per amor di scienza, fece per spirito di dovere. Mette in mare le quadriremi e s’imbarca egli stesso, per portare aiuto non alla sola Rectina, ma a molti perché, per l’amenità del lido, la zona era molto abitata.”

L’inizio dell’eruzione del Vesuvius

Nessuno comprende la gravità della situazione da Miseno , ma l’ammiraglio romano, da grande naturalista vuole  studiare il fenomeno da vicino, quindi ordina che gli venga preparata una liburna. Nel momento di imbarcarsi, gli giunge un messaggio da Rectina, nobildonna che viveva ad Ercolano appartenente all’elite romana, e  l’ammiraglio trasforma la missione scientifica in missione di soccorso. Come mezzo di salvataggio usa i quadriremi, navi da guerra, già armate per via delle esercitazioni militari, con una  capienza di 400 posti.  Inoltre Plinio il Giovane descrive  la colonna eruttiva che  è una miscela densa e caldissima che  contiene magma frammentando in piccole particelle, rocce e soprattutto gas(vapore e anidride carbonica).Salendo, aspira e risucchia aria attorno a sè, dai lati e soprattutto dal suolo. Questo crea potentissimi venti radiali, che risucchiano ogni cosa  verso il vulcano. Continuiamo con il racconto di Plinio il Giovane:

“S’affretta proprio là donde gli altri fuggono, va diritto, il timone volto verso il luogo del pericolo, così privo di paura da dettare e descrivere tutti i fenomeni del flagello che si compiva davanti ai suoi occhi. Già la cenere pioveva sulle navi, sempre più calda e densa quanto più esse si avvicinavano; e si vedevano già pomici e ciottoli anneriti e bruciati dal fuoco e spezzati; poi ecco un inatteso bassofondo e la spiaggia ostruita dai massi proiettati dal monte. Dopo una breve esitazione, indeciso se tornare indietro come gli suggeriva il pilota, esclama: «La fortuna aiuta gli audaci, dirigiti verso Pomponiano! Questi si trovava a Stabia, dall’altro lato del golfo. Quivi Pomponiano, sebbene il pericolo non fosse imminente, ma considerando che tale potesse presto divenire, aveva trasferito su navi le sue cose, pronto a fuggire non appena il vento si fosse calmato. Ma il vento era allora del tutto favorevole a mio zio, che arrivava in direzione opposta. Egli abbraccia l’amico impaurito, lo incoraggia, lo conforta e, per calmarne le paure con la propria sicurezza, chiede di essere portato al bagno: si lava, cena allegramente o, assai più probabilmente, fingendo allegria. Frattanto in molte parti del monte Vesuvio risplendevano larghe fiamme e vasti incendi, il cui chiarore e la cui luce erano resi più vividi dalla oscurità della notte. Per calmare le paure, mio zio diceva che si trattava di case che bruciavano abbandonate dai contadini in fuga. Poi se ne andò a dormire e dormì di un autentico sonno, poiché la sua respirazione, resa più pesante e rumorosa dalla corporatura massiccia, era udita da quanti passavano accanto alla soglia.”

Rectina aspetta con impazienza l’arrivo di Plinio il Vecchio, con alle spalle il vulcano che continua ad alimentare l’orrenda nube che torreggia sul paesaggio. Plinio il Vecchio non si vede però. Dopo un po’ di tempo, si intravede  Plinio il Vecchio, sempre in piedi sulla prua, che annota ogni cosa e detta al suo segretario, sull’impressionante fenomeno. Neanche i marinai distolgono lo sguardo dal vulcano. Le navi  ancora ad una certa distanza da Ercolano, rallentano e non se ne capisce il motivo. Dopo una decina di minuti si capisce che è per via dell’innalzamento del  fondale, provocato dal graduale svuotamento della camera magmatica, se le navi non raggiungono la costa. Plinio a malincuore,  visto l’impossibilità di salvarla, decide di dirigersi verso Stabia. Una volta arrivato a Stabia, chiede all’amico Pompeiano di poter  essere ospitato a casa sua per mangiare e per fare il bagno. Pomponiano accetta.

“Intanto il livello del cortile s’era cosi tanto innalzato per la caduta di cenere e pomici che, se avesse più a lungo indugiato, non sarebbe più potuto uscire dalla stanza. Svegliato, egli esce dalla sua camera e raggiunge Pomponiano e gli altri, che non avevano chiuso occhio. Si consultano tra loro se devono restare in casa o uscire all’aperto. Continue e prolungate scosse telluriche scuotevano infatti la casa e, quasi l’avessero strappata dalle fondamenta, sembrava che essa sbandasse ora da una parte, ora dall’altra per poi riassestarsi. D’altra parte all’aperto si temeva la pioggia di lapilli, per quanto leggeri e porosi. Tuttavia, confrontati i pericoli, egli sceglie di uscire all’aperto. Messi dei cuscini sul capo li legano bene con lenzuoli. Fu questo il loro riparo contro quella pioggia. Già ovunque faceva giorno, ma colà regnava una notte, più scura e fitta di ogni altra notte, sebbene mitigata da molte fiamme e varie luci. Egli vuole uscire sul lido e guardare da vicino se fosse possibile mettersi in mare; ma questo era, tuttavia, agitato e impraticabile. Quivi, riposando su un lenzuolo disteso, domanda dell’acqua e beve avidamente. Intanto le fiamme e l’odore sulfureo che le annunciava mettono in fuga alcuni e riscuotono lo zio. Sostenuto da due servi, si leva in piedi, ma subito ricade perché, suppongo, l’aria ispessita dalla cenere aveva ostruita la respirazione e bloccata la trachea, che egli aveva per natura delicata e stretta e frequentemente infiammata. Quando fu giorno (il terzo dopo quello che aveva visto per ultimo), il suo corpo fu ritrovato intatto ed illeso, con indosso i medesimi vestiti: l’aspetto più simile a un uomo che dorme che a un morto. Io e mia madre eravamo intanto a Miseno … ma ciò non riguarda questa storia e tu da me non volevi conoscere altro che la sua morte. Dunque concluderò. Aggiungerò solo che ho fedelmente esposto tutto ciò che ho visto o che ho saputo subito dopo, quando i ricordi sono più veritieri. Tu cavane fuori il meglio. Addio.”

Plinio il Giovane ci descrive cosa è avvenuto a Stabia, tra cui la morte di Plinio il Vecchio. Ci vollero tre giorni per ritrovarlo. Seconda lettera di Plinio il Giovane  a Tacito:

“Precedentemente, per la durata di molti giorni, la terra aveva tremato senza però che ci spaventassimo troppo, perché i terremoti sono un fenomeno consueto in Campania. Ma quella notte, la terra tremò con particolare violenza e si ebbe l’impressione che ogni cosa veniva non scossa, ma rivoltata sottosopra. Già il giorno era nato da un’ ora e la luce era ancora incerta e quasi languiva. Già le case intorno erano sconquassate. L’ambiente in cui ci trovavamo, pur all’aperto, era tuttavia angusto e la paura di un crollo era forte, anzi certa. Solo allora decidemmo di abbandonare la città di Miseno….Una volta fuori del centro abitato, sostiamo. Molti spettacoli prodigiosi vediamo, molte angosce patiamo. I carri che ci facemmo portare con noi, anche se erano su un terreno assolutamente piano, sobbalzavano ora in una, ora in un’altra direzione e, pur puntellati con sassi, non rimanevano fermi nel medesimo punto. Inoltre vedevamo il mare ritirarsi, quasi ricacciato dal terremoto. Senza dubbio, il litorale si era allungato e sulle aride sabbie era rimasto al secco un gran numero di pesci….Dalla parte orientale, un nembo nero e orrendo, squarciato da guizzi sinuosi e balenanti di vapore infuocato, si apriva in lunghe figure di fiamme: queste fiamme erano simili a folgori, anzi maggiori delle folgori…..Non molto tempo dopo quel nembo discende sulle terre, copre la distesa del mare. Avvolse Capri e la nascose, sottrasse al nostro sguardo il promontorio di Miseno…..Rischiarò un poco: non riappariva la luce del giorno, ma era un indizio che il fuoco stava per avventarsi sopra di noi. Ma il fuoco, a dire il vero, si fermò abbastanza lontano. Fu tenebra di nuovo: fu cenere di nuovo, fitta e pesante. Noi ci alzavamo ripetutamente e ci scrollavamo di dosso la cenere. Altrimenti ne saremmo stati coperti e il suo peso ci avrebbe anche soffocato…….Alla fine quella tenebra diventò quasi fumo o nebbia e subito ritornò la luce del giorno, rifulse anche il sole: un sole livido come suole essere quando si eclissa. Dinanzi ai miei occhi spauriti tutto appariva mutato: c’era un manto di cenere alta come di neve.”

Ultima curiosità: La data dell’eruzione è ancora un divario aperto, ma da  studi  e precise osservazioni archeologiche, sembra essere il 24 ottobre del 79 d.C.

 

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