
Da un lato il re degli Unni, il flagello di Dio, Attila e dall’altro l’ultimo romano d’occidente, il magister militum Flavio Ezio, ecco i comandanti dei due eserciti che, in un giorno di Giugno del 451 d.c., combatterono la più importante e sanguinosa battaglia del V secolo dopo Cristo; due eserciti che però, a parte i comandanti, non erano neanche per metà unni e romani essendo per lo più composti da un coacervo di popoli di ceppo germanico e iranico a volte persino imparentati tra loro. La battaglia dei Campi Catalaunici ha rappresentato sempre un enigma per gli storici: evento cruciale nella storia dell’Europa o fatto militare largamente sopravvaluto? Certamente la nomea di sconfitta che fermò Attila ha contribuito molto alla fama dell’episodio e il fatto che a confrontarsi furono due dei tre uomini più importanti d’occidente, il terzo era il re vandalico Genserico, ne ha fatto l’evento centrale della prima metà del V secolo d.c., ma lo fu davvero? Al di là della componente epica quale fu il reale peso di quest’ultima vittoria di Roma sulla storia d’Europa?
Da quasi un secolo l’Impero Romano stava attraversando quella crisi, che infine si sarebbe rivelata fatale, impropriamente chiamata come le invasioni barbariche. Ho usato l’avverbio impropriamente perché, parlando di invasioni, sembra quasi che, di punto in bianco, tutte le tribù di oltre Reno e Danubio abbiano deciso di riversarsi oltre il limes romano con lo scopo di smantellare l’impero per occuparne il posto. In realtà ciò che avvenne dal 376 d.c., anno in cui i Goti attraversarono il Danubio, fu una delle più gigantesche ondate migratorie della storia le cui origini vanno ricercate nella steppa asiatica. Qui, intorno al 370 d.c., gli unni smisero di lanciare incursioni contro la Cina mettendosi in marcia verso occidente finendo per piombare sui popoli stanziati nel bacino del Mar Nero; gli Alani vennero sottomessi scompartendo per un secolo mentre i goti, per evitare la medesima sorte, chiesero asilo all’interno dei confini dell’Impero Romano. In un primo momento Roma sembrò favorevole a questi ingressi perché, già da tempo, sopperiva alla penuria di soldati per le sue legioni offrendo a gruppi germanici terre su cui insediarsi in cambio di reclute, ma la dimensione di questo movimento mise ben presto in crisi una struttura che non era più quella del secolo d’oro di Traiano e Adriano. Il disastro di Adrianopoli, nel quale Roma perse esercito e imperatore, mise l’impero nell’impossibilità di controllare il fenomeno potendo solo cercare di contenerlo attraverso lo strumento dei foederati cioè l’accettazione dell’insediamento di popoli germanici al suo interno, in territori ufficialmente ancora sotto il dominio di Roma, ma di fatto indipendenti, in cambio della fornitura di contingenti militari. Questo sistema ovviamente funzionò come si voleva molto raramente perché i germani battevano spesso cassa chiedendo un tributo in cambio dei loro servigi minacciando, in caso di rifiuto, sangue e distruzione, ma se la parte orientale dell’impero, nonostante i continui colpi, riuscì a mantenere il controllo dei suoi territori l’occidente non fu altrettanto fortunato. La pars orientalis era ovviamente favorita dalla geografia perché, qualsiasi invasore, poteva anche devastare tutti i Balcani e la Grecia, ma infine si sarebbe comunque trovato schiacciato nel cono d’imbuto rappresentato da Costantinopoli che difendeva l’accesso alle ricche terre dell’Asia Minore e dell’Egitto; al contrario a Occidente, superato il Reno, c’era campo libero fino all’Oceano Atlantico e così ampi settori dell’impero, dalla Britannia sino all’Africa, sgusciarono via dal controllo di Roma. A peggiorare la situazione le generazioni di imperatori successive a Costantino I si rivelarono per lo più inette, spesso sotto la pantofola di donne forti come Galla Placida, e il vuoto di potere generatosi determinò l’emergere, in ruolo di supplenza, dei comandanti militari tra i quali spiccò, appunto, Flavio Ezio.
Nel 433 d.c., al termine di una delle tante lotte di potere interne all’impero, questo meticcio figlio di un goto e di una nobildonna romana divenne l’eminenza grigia d’occidente con un preciso piano per garantire la sopravvivenza della romanitas per almeno un’altra generazione. Poco amato dall’imperatore Valentiniano III ed odiato dalla madre di questi Galla Placida, Ezio aveva però la completa fiducia della corte di Costantinopoli che vedeva in lui l’unico uomo in grado di risollevare le sorti della pars occidentis i cui problemi poteva essere riassunti in questo semplice schema “matematico”: la struttura amministrativo-militare dell’impero necessitava di denaro per funzionare, ma il denaro, dato il completo stallo dei commerci, poteva giungere solo dal gettito fiscale, ma il gettito fiscale era al minimo perché la maggior parte delle province non erano più sotto il controllo di Ravenna ergo bisognava ristabilire l’autorità su questi territori per poter ricominciare a riscuotere le tasse. Detto così pare semplice, ma calando il tutto nella realtà si può facilmente capire quale impresa toccasse al magister militum d’occidente: in Gallia si era stabiliti una serie di popoli ognuno dei quali aveva fondato un suo regno autonomo, la Spagna era interamente finita in mano agli svevi mentre in Africa erano appena piombati gli Alani e i Vandali. Ezio però non si lasciò intimidire e mise subito a fuoco il primo obiettivo: ricondurre la Gallia all’obbedienza; qui i problemi principali erano tre: a nord-ovest i bagaudi cioè ribelli che, a fronte dell’incapacità dello stato di proteggerli, si erano staccati da Ravenna rivendicando un’autonomia locale, a sud-ovest i visigoti e sulla frontiera del Reno Burgundi, Franchi e Alemanni. Benché l’esercito romano fosse ancora una macchina efficiente se in mano a chi era in grado di dirigerlo i suoi effettivi non erano comunque sufficienti per poter affrontare tutti questi avversari, era dunque necessario rivolgersi a un aiuto esterno e gli unici disponibili erano gli Unni presso i quali Ezio, da ragazzo, era stato ostaggio imparandone in costumi. Impossibilitato a pagarli con moneta sonante, dato lo sfascio delle finanze imperiale, Ezio fu costretto a consegnarli la Pannonia, ma in cambio ottenne un nutrito contingente che poté scatenare contro le tribù stanziate sul Reno nel 436, i Burgundi in particolare furono letteralmente massacrati, e poi contro i bagaudi un anno dopo. Era dunque il turno del nemico più pericoloso cioè i visigoti di re Teodorico che, dopo aver ottenuto la concessione di stabilirsi nel sud della Gallia per i servigi resi all’imperatore Costanzo, si erano rivelati una costante fonte di problemi e nel 436 era giunti ad assediare Narbona. Ezio, ottenuto di nuovo l’appoggio degli Unni, lanciò una controffensiva respingendo Teodorico sino alla sua capitale Tolosa, ma non riuscendo a ottenere una vittoria decisiva così, dopo un breve, ma sanguinoso conflitto, nel 439 d.c. si trattò la pace sulla base del ritorno allo status quo. In meno di un decennio Ezio era riuscito a ricondurre la Gallia all’obbedienza e, contemporaneamente, anche in Spagna si riuscirono ad arginare gli Svevi riottenendo il controllo di molte delle province mediterranee, ma proprio quando le cose sembravano finalmente andare per il meglio dall’Africa giunse una notizia drammatica: i vandali di Genserico avevano preso Cartagine! All’epoca l’Africa era il granaio dell’impero e la sua perdita voleva dire il crollo dei rifornimenti di grano per l’Italia, era dunque ovvio che bisognasse al più presto riprenderne il controllo e per farlo Ezio usò tutto il credito ottenuto presso Costantinopoli per farsi inviare un grosso contingente militare con cui salpare vero Cartagine. Nel 440 d.c.una grande flotta di invasione era stata radunata nei porti della Sicilia quando, all’improvviso, venne dato l’ordine di rientro immediato sia alle forze d’oriente che d’occidente mentre, in tutta fretta, veniva firmato un accordo di pace al ribasso con Genserico; cos’era successo? Era successo che una minaccia più immediata e pressante dei Vandali si era affacciata ai confini delle due parti dell’impero: si trattava del nuovo re degli unni Attila.
Avevamo lasciato gli Unni sul mar Nero dopo avervi sloggiato i goti, da qui si mossero verso la pianura ungherese e ciò, probabilmente, fu all’origine della seconda grande ondata migratoria del 405-408 d.c che portò svevi, alemanni, burgundi, vandali e ciò che restava degli alani a sfondare il limes sul Reno. Per una quarantina di anni sotto re Rua gli unni mantennero un rapporto di buon vicinato con le due parti dell’impero accettando un tributo annuo e offrendosi, come abbiamo visto, nel ruolo di mercenari, ma questo equilibrio cambiò quando, in un periodo che va dal 438 al 441, salirono al potere Attila e suo fratello Bleda. Attila è uno dei quei personaggi su cui la storia si è da sempre spaccata su due opposte visioni: per alcuni era un genio militare per altri nulla di più di un capo orda; entrambi gli estremi tendono a non rendere giustizia al personaggio perché se ridurlo a una specie di bullo europeo ne svilisce il carisma e le capacità nonché il ruolo centrale ricoperto per quasi un decennio di storia, dall’altro farne una sorta di antesignano di Napoleone non tiene conto che l’unica vera battaglia campale che combatté la perse e che in tutte le sue campagne dimostrò di non padroneggiare la fondamentale arte della logistica. Personalmente sono d’accordo con chi ritiene che il suo genio fu non tanto militare quanto politico-diplomatico e che le sue campagne militari non fossero un mezzo di conquista, ma uno strumento attraverso il quale porsi in un ruolo di game maker al momento delle trattative. In questo senso Attila era abilissimo nel leggere la realtà del suo tempo essendo sempre in grado di capire quand’era il momento di esercitare una pressione e quando quello di accettare “benevolmente” i tributi che gli venivano offerti per ritirarsi. In ciò era aiutato dalla natura dell’orda unna che da sempre, più che alla conquista di territori, mirava a sottomettere ed assimilare al suo interno i popoli che travolgeva costringendoli poi a combattere per loro; così se è ancora oggi difficile tracciare con certezza i confini dell’impero unno è invece facile fare una mappa delle varie etnie che lo componevano: alani, longobardi, rugi, eruli, sciri e alcuni gruppi gotici come gli ostrogoti finirono tutti per divenire parte dell’orda in una posizione subalterna, seppur con varie gradazioni, agli unni. Devastante in sella al suo cavallo soprattutto se con in mano il tipico arco asimmetrico in legno e corno animale, la sua era la tipica tattica mordi e fuggi ripresa poi dai mongoli, il guerriero unno era invece estremamente vulnerabile una volta appiedato, ma in una caratteristica si distingueva dagli altri popoli barbari che si abbatterono sull’impero: era un maestro nella costruzione di armi d’assedio il che probabilmente gli derivava da secoli di assalti contro le fortificazioni dei cinesi. Eliminato il fratello Bleda Attila si trovò da solo a capo di questa formidabile macchina da guerra e la scatenò contro la pars orientalis dell’impero rea di esser divenuta incostante coi tributi. Già nel 442 Costantinopoli si era dovuta umiliare per ottenere il ritiro degli unni dai suoi confini, ma nel 447 le orde di Attila spazzarono via due eserciti e portarono la distruzione sin sotto le mura teodosiane così che l’impero d’oriente fu costretto a versare al capo degli unni un tributo immediato di 6000 libbre d’oro oltre che altre 2100 libbre all’anno. Tale era il timore che la corte di Costantinopoli aveva di Attila che nel 449 d.c gli inviò un’ambasceria con il segreto scopo farlo assassinare fallendo miseramente. A causa di ciò sembrò che una ripresa del conflitto fosse prossima anche perché sul terreno vi erano altre controversie più concrete come il fatto che i romani continuassero a offrire rifugio a gruppi di esuli provenienti dalla galassia di popoli sottomessi dagli Unni, ma invece di una guerra nel 450 Attila concesse all’avversario una pace sorprendentemente molto generosa. Questa improvvisa svolta non fu dovuta a buon cuore, bensì alla precisa necessità strategica di avere il fianco orientale coperto ora che lo sguardo del re si stava spostando a occidente oltre il Reno. E’ difficile scorgere quale fosse il grande piano di Attila perché, mentre la ratio delle singole campagne risulta sempre chiara, l’obiettivo finale rimane invece ancora incerto e sfuocato. Per alcuni egli era solo un ambizioso convinto ce nel suo destino vi fosse la conquista del mondo, per altri invece era la brama di un bottino sempre maggiore a spingerlo, ma Peter Heather ha avanzato un’ipotesi molto interessante e concreta: l’obiettivo di Attila era di innestare gli unni all’interno dell’impero romano prendendo il posto di Ezio come magister militum. La teoria ha un suo perché dato che all’epoca non era raro per signori barbarici particolarmente dotati scalare le gerarchie della corte di Ravenna per giungere ai vertiti, era già successo con Stilicone e sarebbe successo in seguito con Odoacre; certamente se vi fosse riuscito Attila si sarebbe trovato in una volta sola sia a capo dell’orda Unna che dell’Impero Romano d’occidente il che voleva dire un enorme concentrazione di potere nelle sue mani nonché la possibilità di trattare con Costantinopoli da una posizione ancora più forte di quanto la sua già non fosse.
Qualunque sia stato il suo scopo resta certo che, almeno fino al 450 d.c., il re degli Unni parve incerto in merito alla destinazione della sua nuova spedizione: di nuovo i Balcani e Costantinopoli oppure l’occidente oltre il Reno e le Alpi? La storia ci ha tramandato come ragione finale della sua scelta una vicenda che, se non fosse ampiamente confermata da varie fonti dell’epoca, parrebbe quasi fiabesca: l’imperatore Valentiniano III aveva per sorella una di quelle matrone allegre, Onoria, che tentò di mettere il suo amante sul trono. Neanche a dirlo la congiura fu scoperta e, mentre l’uomo finì sul patibolo, Onoria fu costretta a sposare per punizione un mediocre senatore; per nulla disposta ad accettare questo matrimonio la principessa inviò ad Attila una missiva in cui gli chiedeva di liberarla offrendogli in cambio la sua mano e metà dell’impero. Ovviamente questo fu solo il casus belli ufficiale che il re degli Unni colse al volo per dare seguito a un progetto che già da tempo aveva messo in cantiere; ma se Onoria esce così miseramente di scena allora quale fu o furono i motivi che lo spinsero a spostare improvvisamente la sua attenzione da oriente a occidente? Alcune fonti dell’epoca suggeriscono che Attila volesse passare da occidente per poi piombare sulla Persia, ma ovviamente basta guardare una cartina per accorgersi che la via più breve per l’Eufrate non passa dal Reno; qualche storico ha tentato di salvare quest’ipotesi suggerendo che, data la difficoltà della rotta caucasica, gli unni pensassero di fare una sorta di giro largo Francia-Spagna-Africa-Medio Oriente-Persia… possibile certo anche perché nessuna prova storica concreta ci permette di negarlo, ma personalmente mi sembra più logico legare la scelta di Attila con l’ipotesi di Heather da me citata poco sopra. Partendo infatti da questa potremmo allora supporre che il re degli unni temesse i risultati che Ezio stava conseguendo; se infatti il magister militum fosse riuscito a mettere la museruola ai visigoti lo scricchiolante edificio dell’impero d’occidente avrebbe potuto ritrovare una sua stabilità, cosa certamente non gradita ad Attila, e non sarebbe dunque un caso che l’obiettivo della sua campagna gallica, conclusasi ai Campi Catalaunici, sembrerebbe fosse appunto di colpire i visigoti in modo tale da aggregarli all’orda impedendo il ristabilirsi di un rapporto da foederati tra loro e Roma. Altri elementi sembrano corroborare questa tesi come la notizia di ambascerie di Genserico dei Vandali che suggeriva ad Attila di colpire congiuntamente l’impero d’occidente da nord e da sud o ancora il sostegno dato dal re degli unni a un candidato alternativo a quello di Ezio per il trono dei franchi ripuari popolo strategicamente stanziato sul Reno. Tornando ai fatti certi Attila afferrò al volo l’assist fornitogli da Onoria per inviare un’ ambasceria a Valentiniano con cui gli ingiungeva di consegnargli subito la sua promessa sposa oltre che metà dell’impero come dote. In un dialogo surreale da “il lupo e l’agnello” l’imperatore provò ad argomentare che la sorella era già sposata e che la successione al trono avveniva per via maschile, ma tanto bastò al re degli unni per dichiararsi gravemente offeso ed affermare che sarebbe venuto lui personalmente a prendersi ciò che gli spettava.
Siamo dunque alla primavera del 451 d.c. quando, dopo aver seguito il corso del Danubio verso ovest, Attila supera il Reno nei pressi di Coblenza alla testa di un esercito che le fonti dell’epoca quantificano tra i 700-500 mila uomini mentre gli storici contemporanei propendono per la più realistica cifra di 50-30 mila effettivi. Osservando la composizione di quest’immensa forza d’attacco scopriamo che gli unni erano in minoranza rispetto all’insieme dei popoli tributari, come i gepidi, i turingi e gli ostrogoti, che Attila aveva aggregato all’orda. Il re degli Unni seguì il corso della Mosella mettendo a ferro e fuoco Augusta Treviorum (Treviri) e Mediomatrix (Metz); l’avanzata continuò nel cuore della Gallia tra saccheggi e razzie (giusto per citare alcune città colpite: Cambrai, Amiens, Magonza e Strasburgo mentre Parigi pare riuscì ad essere difesa) fin sotto le mura di Aurelianum (Orleans) ultima fortezza prima dell’Aquitania visigota. Ezio comprese subito la gravità della tempesta che si stava abbattendo sul nord dell’impero, ma era anche consapevole che con le sole forze romane non era in grado di affrontare Attila. Diveniva dunque necessario l’aiuto dei foederati e in particolare dei Visigoti, ma con loro le trattative non furono facile perché il maggiore dei figli di Teodorico, Torrismondo, era dell’idea di abbandonare i romani al loro destino per trincerarsi in Aquitania e resistere lì inoltre lo stesso re odiava profondamente Ezio che lo aveva sconfitto neanche una decina di anni prima; alla fine prevalse però lo spirito di autoconservazione e la consapevolezza che, da soli, i visigoti non avrebbero mai potuto fermare Attila per cui accettarono di unire le loro forze a Ezio. Ottenuti i visigoti e altri foederati il magister militum era finalmente alla testa di un esercito pari a quello di Attila potendo risalire la Gallia in direzione dell’assediata Aurelianum a cui aveva ordinato una resistenza ad oltranza sperando di poter imbottigliare gli unni tra se e le mura della città. Il 14 Giugno i difensori di Aurelianum, quasi allo stremo, scorsero dagli spalti le aquile di Roma e gli stendardi dei visigoti; Attila fu costretto ad abbandonare l’assedio, ma, nonostante una breve scaramuccia neo sobborghi della città, riuscì a tirarsi fuori dalla trappola di Ezio prima che scattasse ritirandosi vero lo Champagne. Muovendosi lungo il corso della Senna, con i gepidi lasciati in retroguardia, il re degli Unni giunse in una bella pianura dove la cavalleria unna avrebbe potuto dispiegare tutto il suo potenziale distruttivo; il luogo si chiamava Campus Mauricicus, ma sarebbe passato alla storia come Campi Catalaunici dal nome dei galli catavellauni. Tanto la data che il luogo dello scontro sono ancora oggi argomento di dibattito anche se si tende a credere che si sia svolta introno al 20 Giugno in un punto a metà strada tra Chalons-sur-Marne e Troyes. Mentre si avvicinava al nemico l’esercito romano-visigoto si schierava con Ezio e le truppe imperiali sulla sinistra, Teodorico sulla destra mentre al centro si pose il re Sangisbaldo, il difensore di Aurelianum, al capo di un misto di vandali-alani e Giordane, uno storico goto che narrò della battaglia, affermò che la scelta fu dovuta perché considerati infidi sebbene nessuna prova è stata mai portata a supporto di questa tesi. Dal lato opposto Attila coi suoi unni si pose al centro mentre il fianco sinistro era tenuto degli Ostrogoti dei fratelli Valamiro, Teodemiro e Videmiro con invece i gepidi di re Ardarico sulla sinistra; proprio i gepidi, rimasti come detto in retroguardia, furono i primi a scontrarsi nella notte con i nemici precisamente con i franchi di Meroveo, uno dei tanti foederati chiamati a raccolta da Ezio, dando vita a una schermaglia particolarmente sanguinosa. La leggenda vuole che, prima di decidere di dare battaglia, Attila abbia consultato gli aruspici i quali gli diedero presagi sfavorevoli aggiungendo però che uno dei comandanti dello schieramento avversario sarebbe caduto; convinto che la profezia si riferisse ad Ezio il re degli Unni decise di sfidare la sorte sperando, al peggio, di sbarazzarsi del pericoloso rivale. Attila attese comunque fino alle tre di pomeriggio, così che, nel caso le cose si fossero messe al peggio, avrebbe potuto sfruttare l’oscurità per disimpegnarsi, prima di ordinare ai gepidi di conquistare una piccola altura su cui però si è già installato Ezio che riesce a respingere un primo assalto. Per evitare che ciò potesse avare conseguenze sul morale delle sue truppe Attila diede immediatamente l’ordine di attacco generale scagliando la sua cavalleria contro il muro romano-alano senza però riuscire a sfondarlo; ne scaturì uno scontro corpo a corpo nel quale quel gli unni, che facevano della mobilità la loro arma vincente, si ritrovarono ben presto a mal partito. Frattanto sulla destra si accendeva una violenta lotta fratricida tra visigoti e ostrogoti durante la quale si avverò la profezia degli aruspici di Attila perché re Teodorico morì non si è mai capito se colpito da un giavellotto o travolto dalla foga dei suoi dopo esser caduto da cavallo. In quel momento sul campo di battaglia si affrontava un caleidoscopio di
popoli barbarici ognuno con un proprio modo di combattere e ciò aiuta a capire perché i Campi Catalaunici passarono alla storica come il più violentao e sanguinoso scontro del loro tempo. I Visigoti, guidati adesso da Torrismondo, non sbandarono e riuscirono a disperdere i loro diretti avversi piombando così sul fianco degli unni che dovettero iniziare a indietreggiare vero il loro accampamento. Ormai però il sole era tramontato e l’oscurità mise fine agli ultimi scontro spingendo i due contenenti a trincerarsi con Attila che, temendo un assedio nemico al fine di prenderlo per fame, sembrava deciso a rinnovare l’attacco il giorno dopo preparandosi però contemporaneamente al peggio dando ordine di preparare una pila di selle su cui immolarsi qualora tutte le speranze di vittoria fossero andate perdute. La sua salvezza venne però dalle incredibili decisioni che vennero prese durante la notte al campo romano, decisioni che ancora oggi generano ampi dibattiti tra gli storici perché Torrismondo, i cui visigoti erano decisivi, decise di abbandonare lo scontro per rientrare a Tolosa subito dopo aver dato sepoltura al padre. Due sono le teorie avanzate per spiegare quest’improvviso cambio di situazione che mise Attila nella condizione di ritirarsi e riattraversare il Reno del tutto indisturbato: per i contemporanei, ma anche per molti storici moderni, fu Ezio a suggerire a Torrismondo di rientrare subito così da bloccare iniziative dei suoi quattro fratelli contro la sua successione; lo scopo del magister militum era quello di tenere in vita il pericolo unno in modo tale da continuare ad avere una leva di pressione sui visigoti e uno spauracchio da agitare con la corte di Ravenna che, ricordiamolo, lo accettava più che amava. Secondo altri autori però l’iniziativa venne interamente da Torrismondo che, anti-romano, considerando esaurito il pericolo unno per il suo popolo non vedeva motivo per concedere all’odiato Ezio un gigantesco trionfo personale su cui cementare ulteriormente il suo potere. Entrambe le ipotesi sono valide e non è da escludere he nella realtà le due situazioni si siano andate a completare l’un l’altra; in effetti né per Torrismondo né per Ezio un completo annientamento degli Unni era conveniente essendo meglio invece che continuasse ad esserci un grande uomo nero da sfruttare per i reciproci interessi di potere. Comunque siano andate le cose lo scontro si era risolto in una terribile carneficina per entrambe le parti e se la cifra di 300.000 morti data da alcuni cronisti dell’epoca pare davvero inverosimile possiamo aggirarci su un totale di almeno 30.000 caduti, se non anche qualcosa di più.
Che Attila non fosse finito apparve subito evidente un anno dopo quando, per vendicare la sconfitta, passò le Alpi Giulie investendo l’Italia assediando una città dopo l’altra (Aquileia, Vicenza, Verona, Brescia) fino ad espugnare, seppur con molte difficoltà, Milano. Ezio stavolta, non avendo a disposizione i visigoti, non poté arrischiarsi in uno scontro campale limitandosi a pungolare costantemente la retroguardia degli unni. Le cronache cristiane hanno ci hanno tramandato l’incontro tra il flagello di Dio e papa Leone Magno al termine del quel il re degli unni decise di ritirarsi, ma certamente non furono gli anatemi a convincerlo bensì le sempre maggiori difficoltà incontrare nel foraggiare la sua orda in assenza di un qualsivoglia sistema logistico unito con la sua tattica della terra bruciata che aveva scatenato carestie ed epidemie in tutto il Nord Italia. E’ probabile che Leone Magno si presentò da lui oltre che con la forza della fede anche con un cospicuo riscatto che Attila accettò al volto per non dare l’impressione che la spedizione fosse stata un completo fallimento. A fermarlo definitivamente fu solo la morte che lo colse pochi mesi dopo al termine dei bagordi seguiti al suo ennesimo matrimonio; Ezio gli sopravvisse di appena un anno venendo assassinato dallo stesso imperatore Valentiniano al termine di un litigio tra i due. Con un impeccabile autolesionismo questo mediocre imperatore privò l’occidente dell’unico uomo con ancora un vero progetto per tenere in vita l’impero che, infatti, appena vent’anni dopo venne spedito nel cestino della storia da un altro capo barbarico: Odoacre.
Cosa sarebbe successo se Attila avesse vinto? Probabilmente avrebbe finito per dilagare in Gallia con il risultato o di aggiungere queste terre ai suoi domini o di ritirarsi in cambio di un immenso tributo o ancora di pretender essere nominato magister militum al posto di Ezio. Si tratta di tutta una serie di ipotesi difficilmente comprovabili, ma ciò che è certo è che qualsiasi risultato il re degli Unni avesse raggiunto non sarebbe mai durato oltre la sua morte perché il suo impero, privo di una qualsivoglia struttura burocratico-amministrativa, si reggeva unicamente sul suo carisma in grado di tenere unito quell’arcobaleno di popoli; venuto meno il centro del potere il tutto si sarebbe liquefatto come neve al solo e, infatti, meno di quindici anni dopo la morte di Attila l’impero unno implose a causa delle spinte centrifughe delle varie entità al suo interno. Probabilmente l’unico vero risultato di lunga durata di una sconfitta di Ezio ai Campi Catalaunici sarebbe stata una scomparsa anticipata dell’impero Romano d’occidente probabilmente già tra gli anni ’50-’60 del V secolo d.c.
Giunti alla fine mi chiedo il titolo che ho dato a questo articolo è giunto? I Campi Catalaunici furono davvero l’ultima vittoria di Roma? Ovviamente non parlo in senso tecnico, l’esercito romano avrebbe ancora vinto alcune battaglie prima del 476 d.c., ma in senso ideologico cioè la vittoria di ciò che Roma era stata per secoli. Secondo me si perché fu la vittoria di Ezio cioè l’ultimo uomo che tentò di mantenere in vita quell’idea seguendo un progetto non di mera sopravvivenza, ma di riscatto dell’impero. Se poi questo progetto sarebbe andato a buon fine è difficile dirlo perché, al contrario della pars orientalis, l’occidente aveva in se tanti di quegli elementi disgreganti, rappresentati dai vari popoli germanici che vi si erano installati all’interno, che era difficile ricondurre all’obbedienza. Ezio tentò di usare una strategia aggiornata del “divide et impera” evitando cioè che i vari popoli germanici si coalizzassero tra di loro tenendo sempre vivo un nemico, prima i visigoti e poi gli unni, che li spaventasse a sufficienza dallo spingerli ad accettare un patronato del seppur scricchiolante sistema amministrativo romano. Tenendo in considerazione arrivare a rispondere alla nostra domanda iniziale: i Campi Catalaunici ebbero un ruolo determinante per la storia d’Europa? L’idea che mi sono fatto è no, ma perché ciò che cambiò la storia d’Europa fu la comparsa di Attila. Come abbiamo visto infatti gli attacchi prima all’oriente e poi all’occidente ad opera del re degli unni costrinsero le due parti dell’impero a ingaggiare una lotta per la sopravvivenza che bloccò il progetto di stabilizzazione interna di Ezio. Il fatto che a causa di Attila Ravenna dovette dare per avvenuta la perdita dell’Africa, uno dei principali serbatoi fiscali e annonari dell’occidente, quasi vanificò gli ottimi risultati ottenuti dal magister militum in Gallia; inoltre anche in Spagna gli svevi, approfittando della disattenzione dei romani, ne approfittarono per rifarsi sotto guadagnando terreno in direzione della cosa del Mediterraneo che fu tenuta a stento e solo dietro pesanti concessioni. Gli anni di Attila, unito con la morte di Ezio furono di fatto la pietra tombale per la romanitas occidentale perché impedirono il dispiegarsi dell’ultimo progetto di un suo riscatto; in questo senso i Campi Catalaunici furono il canto del cigno di una grande avventura storica prima del definitivo sipario.
Francesco allotta
12 Luglio 2019Istruttivo. Sapevo poco o nulla di quanto ho letto stasera. Complimenti!!
Nicholas
20 Giugno 2022Sono d’accordo su pressoché ogni cosa. Tuttavia, mi permetto di dissentire sul dire che Flavio Ezio fu l’ultimo ad avere un progetto per restaurare l’impero nei suoi ultimi anni di agonia.
Personalmente, considero Maggioriano l’ultimo a provarci davvero e con risultati, malgrado la tragica debacle in mare che lo fermo.
Anche Giulio Nepote, se vogliamo, aveva un progetto simile, sebbene mancasse delle capacità e delle risorse necessarie.
Massimo Lo Jacono
21 Giugno 2022Interessante. E acute le osservazioni (anche ipotetiche) dello storico. Varrebbe la pena ( e la voglia) di scrivere un romanzo documentato . Chissà, magari ne trarrebbero anche un bel film, come “Le crociate”.