“Il Santo Graal professor Jones. Il calice da cui bevve Gesù Cristo durante l’ultima cena, la coppa che raccolse il sangue della crocifissione e che fu affidata a Giuseppe di Arimatea.” con queste parole Walter Donovan (Julian Glover) introduce al pubblico l’oggetto del terzo ed ULTIMO film (non ammetto discussioni in merito) che narra le avventure dell’archeologo americano. Il Graal è certamente una tra le più celebri, ma allo stesso tempo evanescenti, reliquie della cristianità; oggetto di un florido canone narrativo durante il medioevo, finisce sotto traccia per secoli fino a quando non viene recuperato prima nell’ottocento dalla poetica romantica e poi nel novecento in un ambito più mistico e, in alcuni casi, anche conspirazionista.
Qualsiasi analisi sul mito del Graal non può prescindere da un punto di partenza fondamentale, nessuno degli elementi fondamentali della leggenda connessa a questa reliquia trova origine nei Testi Sacri; infatti, anche accogliendo la versione più diffusa della natura del Graal quale il calice dell’ultima cena, nei Vangeli canonici l’unico accenno ad esso è nei versetti di Marco, Matteo e Luca dedicati alla prima eucarestia, nei quali si narra come Gesù, dopo aver spezzato il pane, prese un calice, rese grazie e lo diede ai discepoli dicendo “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza versato per tutti in remissione dei peccati”. Tolto questo fugace accenno né del calice in sé, né di suoi peculiari poteri legati alla sua natura si fa alcun ulteriore cenno né nei testi canonici, né in quelli apocrifi. Infatti la leggenda del Graal è a tutti gli effetti una creazione di epoca medievale; la stessa parola Graal, al di là di fantasiose congetture, deriva dal latino medievale gradalis che vuol dire genericamente tazza, catino, calice o vaso. Tra l’altro il suo primo riferimento letterario non è a carattere sacro, bensì profano e legato al ciclo arturiano; è infatti Chrétien de Troyes, il poeta francese che introdusse nel ciclo bretone le figure di Lancillotto e Parsifal, che intorno al 1180 iniziò la sua opera rimasta incompiuta Perceval o il racconto del Graal. In esso si racconta di Parsifal, o Perceval, cavaliere di re Artù che, durante uno dei suoi viaggi, incontra il Re Pescatore, un re zoppo la cui ferita alla gamba porta desolazione alle sue terre. Invitato a cena dal sovrano Parsifal, prima dell’inizio del banchetto, assisterà a una peculiare processione nel salone del castello del suo ospite: prima un ragazzo che porta con sé una lancia insanguinata, poi due giovani che reggono un candelabro ed infine una fanciulla che trasporta il Graal, descritta genericamente come una coppa d’oro incastonata di pietre preziose che sprigiona una fortissima luce. Parsifal, abbagliato dalla bellezza degli oggetti e ricordando il monito del suo signore Gornemant di non porre domande perché scortese, non porrà il fondamentale interrogativo “Chi serve il Graal?” con il quale avrebbe potuto immediatamente guarire il Re Pescatore e ridare fertilità alla sua terra. Il resto del racconto riguarda il viaggio che Parsifal dovrà compiere per dimostrarsi degno del Graal e rimediare al suo errore, durante il quale scoprirà di appartenere lui stesso alla famiglia del Graal e che il Re Pescatore è suo cugino.
Come si può vedere in questa prima versione della leggenda, sebbene il Graal possiede già molti degli elementi che lo andranno a caratterizzare, manca completamente l’identificazione dello stesso con il calice dell’ultima cena o qualsivoglia rinvio che colleghi il Graal alle vicende di Gesù Cristo. La prima identificazione del Graal come una santa reliquia, connessa ai fatti della passione e morte di Cristo, la si ha con l’opera di Robert de Boron Joseph d’Arimathie. Le roman de l’estoire dou Graal, databile intorno al primo decennio del XIII secolo. Qui per la prima volta il Graal è esplicitamente identificato come il calice usato durante la prima eucarestia, ma a ciò si aggiunge una vicenda ulteriore legata a Giuseppe di Arimatea. Questi è un personaggio presente in tutti e quattro i vangeli canonici ed indicato da Matteo e Giovanni come un discepolo di Gesù, da Marco e Luca come un membro del sinedrio che era stato contrario alla condanna del nazareno. Tutti gli evangelisti però concordano che fu lui, dopo la morte sulla croce di Cristo, a recarsi da Pilato per richiederne il corpo così da poterlo seppellire; ottenuto l’assenso dal governatore romano fu sempre Giuseppe a presiedere alla deposizione dalla croce e alla preparazione della salma lavandola con unguenti profumati e avvolgendola in un lenzuolo pulito prima di depositarla dentro la tomba scavata nella roccia. A tale canone dei Testi Sacri il de Boron aggiunge un elemento ulteriore: durante la pulizia del corpo di Gesù improvvisamente un fiotto di sangue iniziò a sgorgare dalla ferita al costato, Giuseppe avrebbe raccolto quel sangue all’interno del Graal. In seguito Giuseppe, a causa della persecuzione contro in cristiani in Palestina, sarebbe stato incarcerato e qui avrebbe avuto la visione di Gesù che lo rendeva edotto dei misteri del Graal; rilasciato sarebbe fuggito in Britannia, portando con la sacra coppa, e qui si sarebbe stabilito nella valle di Avalon fondando la prima chiesa nelle isole d’oltre Manica ed avrebbe in seguito fatto dono della reliquia a un certo Bron che divenne il primo Re Pescatore. La cosa interessante è che il Graal viene espressamente citato con questo nome solo una volta, venendo descritto da de Boron come un oggetto che aveva già una sua storia antecedente ai fatti della passione e che proprio per questo venne scelto da Gesù come calice per l’eucarestia e da Giuseppe come contenitore del sangue della crocifissione.
Questa interpretazione in chiave sacra del Graal non ebbe immediatamente seguito nell’opera di quei cantori medievali che ripresero le vicende narrate da Chrétien de Troyes ampliandone la storia e cercando di dargli una conclusione. infatti quella che è considerata la più importante opera nella quale compare la leggenda del Graal, il Parsifal di Wolfram von Eschenbach anch’esso risalente al primo decennio del 1200, ancora una volta non qualifica il Graal come il calice dell’ultima cena. La narrazione di Eschenbach segue il filo di quella di de Troyes: Parsifal è ancora una volta un cavaliere di re Artù che durante le sue peregrinazioni raggiunge il castello del Re Pescatore, chiamato castello del Graal o di Munsalvaesche (tradotto ora come monte selvaggio, ora come monte della salvezza). Anche in questa versione il Re Pescatore è un sovrano affetto da una terribile ferita che potrebbe essere curata solo se Parsifal ne chiedesse l’origine (domanda in questo caso diversa da quella indicata da de Troyes), e anche stavolta l’eroe arturiano assiste a una processione prima della cena durante la quale viene presentato il Graal. Stavolta però la natura del Graal è profondamente cambiata perché se de Troyes, pur non collegandolo a Gesù, l’aveva comunque qualificato come un contenitore, Eschenbach lo descrive come una pietra magica (lapis exillis) in grado di produrre qualsiasi cibo o bevanda si desideri sulla tavola. Nel prosieguo del Parsifal, e nel successivo ed incompiuto Titurel, il poeta tedesco fornisce al Graal una storia che, in relazione alla teologia medievale, è quasi al limite dell’eresia: la pietra infatti sarebbe stata parte della corona di Lucifero e se ne sarebbe staccata durante la ribellione di questi contro Dio; precipitando dal paradiso verso la terra sarebbe stata tratta in salvo da quegli angeli che erano rimasti neutrali durante il conflitto (e che Dante ad esempio colloca nell’ante-inferno tra gli ignavi) per essere affidata a Titurel il quale avrebbe fondato la dinasti del Graal della quale lo stesso Prasifal, alla fine dell’opera a lui dedicata, scoprirà ancora una volta di far parte dopo esseri dimostrato degno. Ancora è sempre Eschenbach a parlare di un ordine cavalleresco, i templeisen, dediti alla protezione della sacra reliquia, riferimento questo che è all’origine del collegamento che sovente viene fatto tra i Templari e il Graal, nonché a creare un altro personaggio che entrerà presto nel canone della mitologia del Graal e cioé Lohengrin, figlio di Parsifal che si metterà alla ricerca della reliquia guidato da un cigno in quanto erede legittimo della stessa. La lettura del trovatore tedesco, sebbene non rinunci completamente a dare un qualche fondamento divino al Graal, sposta l’interpretazione della natura dell’oggetto meno dal lato della reliquia della cristianità e più in una chiave mistico-esoterica come un qualcosa che può essere conseguita dall’uomo solo se degno e al termine di un processo di maturazione interiore; non è un caso che autori successivi abbiano avvicinato tale lettura del Graal alla pietra filosofale e che l’opera di Eschenbach sia quella di riferimento per tutti coloro che oggi prediligono una interpretazione alternativa e più “misterica” della natura del Graal.
Fu solo con la Queste del Sant Graal, risalente anch’essa allo stesso periodo delle opere precedenti e di autore ignoto (anche se da alcuni studiosi attribuita al poeta Walter Map), che si ebbe la fusione tra la tradizione del Graal elaborata da de Boron con le storie del ciclo arturiano, raggiungendo poi la sua forma definitiva e più celebre con il sesto libro de La morte di Artù di Thomas Malory che settò definitivamente il canone arturiano innestato alle vicende della santa reliquia. Il Graal, tornato ad essere la coppa del cenacolo, diventa l’oggetto di una ricerca sacra alla quale si dedicano i cavalieri della tavola rotonda in particolare Gawain, che è il primo a dedicarvisi, Lancillotto, che pur avvicinandovisi non potrà conquistarlo per via della stato di peccato in cui si trova per l’amore adulterino verso Ginevra, e soprattutto la triade Parsifal, Bors il giovane e Galahad (figlio di Lancillotto ed Elaine di Corbenic figlia del Re Pescatore) i quali raggiungeranno il castello del Graal. Saranno Parsifal e Galahad a ricevere la sacra coppa dal Re Pescatore e a portarla alla città Sarras così come gli viene da lui richiesto; Galahad però è travolto dall’estasi per la visione della reliquia e domanda di poter morire così da ascendere immediatamente al paradiso, la sia richiesta viene accolta da Giuseppe di Arimatea che lo conduce dei cieli accompagnato da una schiera angelica. Nel canone arturiano la ricerca del Graal diventa così tanto il momento di rottura e divisione della tavola rotonda, con la visione da parte di Artù della futura rovina di Camelot, quanto l’esaltazione delle virtù cavalleresche dei tre migliori, dei cavalieri vergini, che saranno gli unici considerati degni a giungere al cospetto della sacra reliquia.
Come si vede la narrazione cortese fu il terreno di elezione per la fioritura della leggenda del Graal, ma dopo la fine del medioevo per oltre tre secoli la produzione letteraria intorno a questo argomento andò praticamente ad arenarsi; prima però di concentrarci sul revival che il Graal ebbe tra la fine dell’ottocento e soprattutto il novecento, è opportuno ed interessante interrogarci su quali siano state le radici di questa tradizione che, a prima vista, sembra quasi emergere dal nulla tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Infatti sebbene possa essere affascinante ricondurre il tutto alla fantasia e all’ispirazione artistica dei trovatori medievali, in realtà gli studiosi moderni hanno rilevato l’esistenza di un retroterra nel folklore popolare, soprattutto pagano, utile anche a spiegare la plurima natura attribuita al Graal dai vari autori. In particolare è nella mitologia celtico-germanica che troviamo molti elementi comuni a quelli che sarebbero poi stati i topoi narrativi della leggenda del Graal. Qui infatti è spesso presente la figura del calderone incantato che produceva vino o idromele oggetto della ricerca da parti di dei ed eroi, ad esempio nelle leggende norrene è Hymir a possederne uno prima di essere trafugato da Thor e Tyr. Soprattutto però quelle che sembrano essere state le principali fonti d’ispirazione perle opere dei trovatori medievali sono i racconti popolari di tradizione celtica del Galles e dell’Irlanda. Il Mabinogion, opera del XIII secolo che andò a raccogliere storie e tradizioni gallesi risalenti sino all’età del ferro, contiene nel suo secondo ramo il racconto di Branwen all’interno del quale compare il personaggio di Bran il Benedetto che, secondo alcuni studiosi, è alla base della leggenda del Re Pescatore. Bran infatti possiede un calderone magico in grado di riportare in vita i morti di cui fa dono al re d’Irlanda, inoltre muore a causa di una ferita avvelenata al piede (mentre il Re Pescatore è ferito alla coscia e sopravvive solo perché rimane nei pressi del castello del Graal); viene fatta notare anche l’assonanza tra il nome Bran e il nome Bron citato da de Boron come primo Re Pescatore. Ancora alla fine del racconto Bran chiede, prima di morire, che la sua testa sia tagliata per essere riportata in Britannia e questa, magicamente, continua a parlare e ad intrattenere la gente per ottant’anni all’interno di un castello incantato; orbene in un altro racconto popolare gallese, in seguito tratto in prosa nell’opera Peredur figlio di Efrawg e che viene considerato una variante della storia di Parsifal, si narra appunto di Peredur a sua volta cavaliere di re Artù che giunge nel castello di quello che in seguito si scoprirà essere un suo cugino ed è invitato a un banchetto durante il quale ad essere esibito stavolta non è il Graal, bensì una testa umana su un piatto.
Riferendoci invece al Graal come lapis exillis in Eschenbach alcuni studiosi hanno l’hanno accostata alla Lia Fail o pietra del destino, un megalito sulla collina dell’inaugurazione a Tera in Irlanda che aveva un ruolo centrale nell’investitura dei re e che se da egli calpestata lo avrebbe ringiovanito; interessante notare come nella mitologia irlandese questa pietra sarebbe stata portata sull’isola dai Tuatha De Danann cioé il quinto dei popoli che colonizzò l’Irlanda prima dei gaeli che giunsero da misteriose isole boreali, descritte d’aspetto paradisiaco, avvolti in nubi nere che oscurarono il cielo per tre giorni e tre notti. Studiosi della mitologia irlandese ritengono che le leggende riguardanti questo popolo siano state un tentativo da parte dei cronisti cristiani medievali di umanizzare e storicizzare le divinità gaeliche, e ciò ha portati alcuni autori a ritenere che il Graal come pietra magica portata sulla terra dagli angeli e affidata ai Re del Graal sia solo il punto di arriva di una continua rielaborazione di questo materiale mitologico.
Queste fondamenta della leggenda del Graal in tradizioni popolari anche molto arcaiche sono altresì rivelatrici dei motivi per cui determinati luoghi sono stati indicati sin dal medioevo come quelli nei quali la reliquia sarebbe stata nascosta. Il più famoso di questi luoghi del Graal è Glastonbury, un piccolo paese del Somerset in Britannia, già importante per la mitologia celtica, il dio gallese Gwyn ap Nudd risiederebbe sotto la Glastonbury Tor una collina terrazzata dall’uomo, e per le leggende arturiane, nel 1191 i monaci della locale abbazia dichiararono di aver trovato nelle fondamenta della stessa la tomba dello stesso re Artù. Con riferimento al Graal la tradizione vuole che Glastonbury sia il luogo dove si stabilì Giuseppe di Arimatea una volta giunto in Britannia, la già citata abbazia locale è indicata dalla tradizione come il primo edificio cristiano oltre Manica, e il biancospino di Wearyall Hill, di cui si ha notizia sin dal 1520 per le sue miracolose fioriture due volte l’anno e che andò distrutto durante la guerra civile inglese, si narrava fosse germogliato nel luogo dove il santo aveva conficcato il suo bastone al termine del suo viaggio. Sempre la tradizione popolare vuole che Giuseppe di Arimatea abbia scavato un pozzo all’ombra di un grosso albero per nascondervi il Graal, ciò portò all’identificazione una locale collina come the chalice hill (la collina del calice) per la presenza di un pozzo dalle acque della curiosa colorazione rossastra, dovuta secondo la leggenda al sangue di Cristo all’intero della sacra coppa. Tale leggenda venne alimentata dal fatto che nel pozzo venne effettivamente ritrovata una coppa in legno d’ulivo, che però si accertò essere di origine celtica, nonché dalla circostanza che nel 1582 il famoso occultista elisabettiano John Dee setacciò a lungo il pozzo perché convinto al suo interno fosse nascosto un contenitore con l’elisir dell’eterna giovinezza.
Altri luoghi divenuti nel corso dei secoli famosi in quanto possibili ultime residenze del Graal sono ovviamente Gerusalemme, dove secondo la Materia di Britannia il Graal sarebbe stato riportato intorno al 540 d.c. e qui visto dal pellegrino anglo-sassone Arculfo nel VII secolo in una cappella vicino al Golgota, ma anche Valencia, il Sacro Caliz donato da re Martino I di Aragona ai monaci di San Juan de la Pena nel 1399 sarebbe il Graal originariamente portato dall’apostolo Pietro a Roma dalla Terra Santa, Genova, dove il Sacro Catino custodito nella cattedrale di San Lorenzo venne identificato come il Graal da Jacopo da Varagine nel XIII secolo sostenendo fosse stato recuperato a Cesarea durante la prima crociata dai genovesi al comando di Guglielmo Embriaco, Costantinopoli, dove ve ne sarebbe stata una copia trafugata durante la quarta crociata secondo il romanzo del XIII secolo Tituriel il giovane del tedesco Albrecht von Scharfenberg, ed infine Aquileia, dove la leggenda vuole Giuseppe di Arimatea sia sbarcato tra il 34 e il 41 d.c. in fuga dalla Terra Santa ed abbia nascosto il Graal nel puteum aureo (pozzo aureo) dove in seguito sarebbero stati nascosti anche tutti i preziosi cittadini per evitare il saccheggio da parte di Attila nel 452 dc.
Comunque è innegabile che, nonostante queste ampie e risalenti tradizioni popolari in merito alla collocazione della reliquia, oggi quando si parla di luoghi del Graal due nomi vengono immediatamente alla mente: la cappella di Rosslyn in Scozia e il paesino di Rennes-le-Chateau in Francia. E’ giunto quindi il momento di spiegare come è nata la più moderna, strampalata, ma innegabilmente anche celebre teoria sulla natura del Graal.
Abbiamo detto che con la fine del medioevo la produzione letteraria in merito al Graal andò progressivamente ad arenarsi. Solo nell’ottocento, con la poetica romantica e la riscoperta delle opere dei trovatori, vi fu un recupero della mitologia sulla sacra coppa; simbolo di ciò sono ad esempio due opere di Wagner cioé il Lohengrin, dove l’aria del terzo atto vede il protagonista rivelare la sua identità narrando le vicende della ricerca della reliquia, e il Parsifal, in cui la ricerca del Graal è il centro della narrazione, che fu l’opera che segnò la rottura tra il compositore tedesco e Nietzsche il quale accusò il primo di essersi “accasciato ai piedi della croce”. In ambito mistico occultista un primo recupero del Graal lo si ebbe ad opera delle società segrete neo-druidiche di fine ottocento francesi ed inglesi, divenne poi molto importante nella liturgia della Società della Luce interiore, la loggia occultista fondata nel 1924 dalla maga inglese Dion Fortune, ed in tutte quelle società segrete che in qualche modo si rifanno alle leggende arturiane. Anche in ambiente più prettamente cristiano nel novecento vi fu una riscoperta del Graal in chiave mistica e fu in tale contesto che si iniziò ad usare, partendo dalla traduzione francese di Santo Graal cioè sangreal, la terminologia sang real (sangue reale) per riferirsi al ruolo simbolico del Graal come contenitore del vino divenuto sangue Cristo per transustanziazione durante l’ultima cena. Difficilmente questi mistici avrebbero potuto immagine che in seguito questo gioco di parole sarebbe stato alla base di una ben diversa interpretazione del Graal.
Giungiamo dunque all’elefante nella stanza e cioè la natura del Graal così com’è stata resa celebre dal romanzo Il codice Da Vinci di Dan Brown; ora non mi voglio nascondere dietro una maschera per cui ammetto immediatamente che io odio quel romanzo soprattutto perché magari qualcuno può pensare che, sebbene la qualità in sé dell’opera possa essere discutibile, gli vada riconosciuta quanto meno l’originalità nella invenzione dell’intreccio di trama, ma così non è perché tutto l’impianto mitologico alla base del libro non è altro che la rielaborazione di una teoria nata negli anni ottanta, e rimasta fino all’uscita del romanzo confinata per lo più nel mondo della sottocultura del cospirazionismo, a cui Dan Brown aggiunse poche postille come il ruolo dell’Opus Dei e la piramide del Louvre. Prova empirica di quanto affermo è che la stessa identica lore de Il codice Da Vinci (solo con una trama infinitamente migliore) è contenuta nel videogioco Gabriel Knight 3: Il mistero di Rennes-le-Chateau pubblicato nel 1999 cioè quattro anni prima la pubblicazione del libro di Dan Brown (gioco che consiglio a tutti gli appassionati di avventure grafiche di recuperare perché capolavoro indiscusso del genere). Assodato ciò resta da spiegare come è nata tale “teoria”, ebbene preparatevi per il più incredibile miscuglio di marketing, truffa e pseudo storia che avrete mai occasione di ascoltare.
Tutto ha inizio negli anni cinquanta con l’imprenditore Noel Corbu, il quale decise di aprire un ristorante a Rennes-le-Chateau, piccolo villaggio nella bassa Occitania, e più precisamente nella torre Magdala. Cercando un buon modo per fare pubblicità alla sua attività si imbatté nelle storie locali riguardanti l’uomo che aveva costruito la torre e cioè il defunto parroco cittadino Bérenger Saunière. Questi era giunto nel paese nel 1885 per restarvi sino alla morte nel 1917, ed era sempre stato molto chiacchierato per la sua abitudine di spendere molto di più di quanto ci si potesse aspettare fosse nella disponibilità di un piccolo curato di campagna; Corbu decise di fondere questi pettegolezzi di paesi con le leggende locali sui tesori che sarebbero stati nascosti nei dintorni di Rennes-le-Chateau dagli albigesi al tempo della crociata che aveva portato al loro annientamento nella prima metà del XIII secolo. L’astuto imprenditore sostenne dunque in alcuni articoli sulla rivista La Depeche du Midi che le ricchezza di Saunière avrebbero avuto origine dal ritrovamento da parte del parroco di alcuni di questi tesori durante i lavori di restauro della locale chiesa di Santa Maria Maddalena. La verità è molto meno romantica e misteriosa; Saunière era infatti solito farsi pagare per celebrare messa, pratica vietata dal diritto canonico e che gli costò prima una reprimenda e poi una sospensione da parte del vescovo nel 1911, come confermano accurati libri mastri ancora oggi conservati nei quali il parroco segnava diligentemente le somme che gli venivano consegnate. La storia si sarebbe potuta concludere qui come nulla più che una manovra di marketing, se non fosse che tra i conoscenti di Corbu vi era un uomo non meno astuto e truffaldino del defunto parroco: Pierre Plantard. Esponente dell’esoterismo cattolico-reazionario francese di inizio novecento, Plantard negli anni cinquanta aveva già un curriculum di tutto rispetto: vicino prima della guerra all’organizzazione paramilitare filo-fascista dei Cagoule, durante la seconda guerra mondiale si schierò con il governo di Vichy organizzando nel 1940 la società segreta Alpha Galates su posizioni collaborazioniste e che pubblicava una rivista dal titolo Vaincre (Vincere). Ciò non gli evitò l’arresto per aver creato questo gruppo senza l’approvazione del governo, ma rendendosi conto che la società segreta esisteva più nelle fantasie di Plantard che nella realtà le autorità di Vichy lo lasciarono andare e lui passò il resto del conflitto a Parigi dividendosi tra un impiego da sagrestano e gli studi per corrispondenza di un gruppo rosacrociano californiano. Nel 1956 Plantard decise di riprovarci e fondò ad Annemasse il Priorato di Sion come “associazione cattolica votata al ripristino dell’antica cavalleria”, ma ancora una volta tutto degenerò presto in farsa quando Plantard venne arrestato e condannato a sei mesi di detenzione per truffa: aveva venduto in giro gradi di iniziazione del Priorato spacciandola per un grande ordine esoterico. Per nulla persosi d’animo Plantard decise di rilanciare e, venuto a sapere della storiella messa in giro da Corbu, se ne impadronì modificandola per dare un’origine mitica al suo Priorato: Saunière non aveva trovato nelle fondamenta della chiesa un tesoro bensì due antiche pergamene con messaggi in codice che avrebbe dimostrato che il Priorato risaliva ai re Merovingi di cui lo stesso Plantard era l’ultimo discendente. Aggiunse poi al minestrone gli albigesi e i templari come custodi di questa linea regale originaria, e per questa ragione ignominiosamente sterminati, scopiazzò una lista di Imperatori rosacrociani messa in giro anni prima dall’Antico Ordine Mistico Rosae Crucis (lo stesso ordine rosacrociano da cui aveva studiato per corrispondenza) per affermare che in precedenza personaggi come Leonardo da Vinci o Isaac Newton era stati Gran Maestri del Priorato, aggiunse al suo nome il suffisso de St. Clair per millantare una relazione con il clan scozzese dei Sinclair (molto importanti nelle tradizioni massoniche) e non si fece scrupolo di aggirarsi negli archivi storici di tutta la Francia per inserirvi dei documenti a supporto della sua favola. Nel 1965 si accordò con lo scrittore Gérard de Sède per fargli revisionare il libro nel quale raccoglieva tutta la storia, ma ancora una volta la cosa finì in tribunale perché, dopo la pubblicazione dell’opera, i due entrarono in conflitto per la divisione delle royalties. Il libro comunque passò in gran parte inosservato se non ché una copia finì nelle mani dell’attore inglese Henry Soskin, il quale lo portò a conoscenza di due autori britannici, Michael Baigent e Richard Leight, che si appropriarono a loro volta della storia di Plantard per fonderla con le loro teorie sulle origini del cristianesimo. In tre documentari televisivi e poi nel libro Il Santo Graal del 1982 nacque la moderna leggenda del Graal come rappresentazione simbolica di una linea di sangue che avrebbe avuto origine da una relazione tra Gesù e Maria Maddalena per poi dare inizio alla dinastia dei Merovingi e giungere fino ai giorni nostri; le due pergamene trovate da Saunière stavolta avrebbe contenuto le prove di questa discendenza e il parroco le usò per un ricatto nei confronti della chiesa cattolica (ricatto all’origine delle ricchezze del prelato). Ovviamente si rimisero in mezzo ancora una volta i templari, gli albigesi, aggiungendo stavolta per non farsi mancare nulla anche i falsi Protocolli dei savi di Sion affermando che in realtà essi contenevano il piano del Priorato per la creazione di uno stato teocratico in Europa governato dai discendenti di Gesù e Maddalena. Paradosso chi per primo si risentì di questa nuova versione fu proprio Plantard, in quanto indicato come ultimo discendente di questa linea di sangue risalente a Cristo, e lui cattolico osservate e ultra-tradizionalista fu indignato da cotanta eresia dissociandosene pubblicamente. Il Codice da Vinci è solo l’ultimo anello di questo continuo rimescolamento di quella che all’origine era stata l’idea pubblicitaria di Corbu per il suo ristornate.
Quali sono però le “prove” che sarebbero state portare a sostegno della tesi? Fondamentalmente un insieme abbastanza indigesto di pseudo-storia e cattiva conoscenza dell’arte. Intanto si parte dal presupposto che Santo Graal, essendo in realtà non il calice dell’ultima cena bensì Maria Maddalena stessa quale “contenitore” del sangue di Gesù origine della dinastia, sia un termine simbolico nato per nascondere la parola sang real (sangue reale) il tutto in barba alle origini latine della parola di cui abbiamo detto ad inizio articolo. Ancora al fine di sostenere l’argomento dei templari quali custodi di questo segreto si inventa di sana pianta la storia che il loro arresto nel 1307 sarebbe stata una mega operazione di polizia in tutta Europa coordinata dal Vaticano per metterli a tacere; scrissi già qualche anno fa un articolo in merito alle leggende intorno alla fine dei templari per cui non mi dilungherò e andrò per sommi capi: non è vero che si trattò di un’azione coordinata che coinvolse tutta l’Europa ed ordinata dal Vaticano perché fu un’iniziativa autonoma del re di Francia Filippo il bello, a cui papa Clemente V andò dietro di controvoglia per timore di scontentare quello che di fatto era il suo carceriere essendo il primo pontefice della cattività avignonese, e che nel resto del continente non produsse risultati eclatanti tanto che molti templari vennero lasciati liberi di tornare allo stato civile o di unirsi ad altri ordini. Falso poi anche che la soppressione dell’ordine sia stata originata dal fatto che i templari custodivano un grande segreto da tenere a tutti i costi celato, molto più prosaicamente Filippo il bello era a un passo dalla bancarotta e valutò conveniente accusare i templari di eresia per incamerare le loro fortune (approfittando anche del fatto che intanto con la caduta di San Giovanni d’Acri l’epoca delle crociate in Terra Santa volgeva al termine e con esso la ragion d’essere stessa dell’ordine del tempio), inoltre se davvero i templari andavano messi a tacere al più presto è strano che dopo essere stati arrestati nel 1307 la chiesa ci impiegò cinque anni per sopprimere ufficialmente l’ordine. Con riferimento infine ai presunti indizi che sarebbero stati lasciati da vari artisti come Leonardo da Vinci nelle loro opere, questo è quello che accade quando si interpreta l’arte senza prendersi la briga di studiare prima la simbolistica correlata ad una data epoca. Infatti dire che il personaggi vicino a Cristo in molte rappresentazioni dell’ultima cena non può essere l’apostolo Giovanni, perché di aspetto chiaramente femmineo, bensì Maria Maddalena dimostra solo una profonda ignoranza dei canoni dell’arte rinascimentale; era infatti la norma tra XV e XVI rappresentare Giovanni, nella sua versione di apostolo, con lineamenti dolci ed aggraziati proprio al fine di rendere riconoscibile al pubblico il più giovane dei discepoli di Gesù, quello che nei vangeli era indicato come il prediletto e sempre per questo si mostra spesso un Cristo affettuoso nei suoi confronti, quello che Jacopo da Varazze nella Legenda Aurea definisce “giovane vergine”. Inoltre la stessa scena rappresentata specificamente nel cenacolo, che secondo i sostenitori della tesi Maria Maddalena è significativa per l’atteggiamento di Pietro verso la figura Giovanni/Maddalena, è la pura e semplice trasposizione artistica di un preciso momento del vangelo di Giovanni stesso nel quale, subito dopo che Gesù ha rivelato ai discepoli la presenza di un traditore tra loro, Pietro si sporge verso Giovanni per chiedere “Dì, chi è colui a cui si riferisce?”; così come anche il fatto che Pietro tenga in mano un coltello è ancora una volta un preciso canone artistico diretto a rimandare alla ferita inferta dall’apostolo al servitore del Gran Sacerdote al momento dell’arresto di Cristo. Il problema, lo ripeto, è che l’arte non si può interpretare in modo “letterale” perché è piena di simbolismi che posso essere compresi solo entrando in quelli che erano i canoni estetici, culturali e religiosi di una data epoca; dimenticando ciò e guardando un quadro di tre o quattro secoli fa con la forma mentis dell’uomo della contemporaneità si finisce per vedere i dischi volanti nelle raffigurazioni dell’annunciazione.
Si potrebbe andare ancora avanti, ma il rischio è quello di scendere in una noiosa elencazione di ogni singola cosa che non va della teoria del Graal come simbologia della discendenza di sangue di Cristo; il fatto incontrovertibile è che nulla prima degli anni ottanta collega la leggenda del Graal né a Rennes-le-Chateau, né alla cappella di Rosslyn ed al clan Sinclair (ad anzi in questo secondo caso l’attenzione rivolta al Graal ha messo in ombra studi più interessanti su possibili viaggi dall’Europa verso l’America prima di Cristoforo Colombo). Si tratta di una tesi che, come abbiamo visto, nasce da un rimestio continuo di un racconto privo di fondamento (il famoso ed antichissimo Priorato di Sion in realtà abbiamo visto venne creato da un intrallazzatore negli anni cinquanta del novcento) e deve la sua fortuna al fatto che il romanzo di Den Brown ha avuto un successo incredibile, il Vaticano ha avuto una reazione spropositata creando l’effetto involontario di attirare ancora di più l’attenzione sulla vicenda ed una serie di trasmissioni pseudo-scientifiche hanno fatto documentari dal discutibile valore divulgativo che giocano sempre sul detto-non detto. Ovviamente ciò ha portato solo ad aprire i cancelli dell’inferno con il fiorie di variazioni sul tema che hanno portato il Graal ad essere ora una chissà quale misteriosa tecnologia aliena o la reliquia di una qualche civiltà perduta e tecnologicamente avanzata come quella di Atalntide e così via. La cosa triste è che la cultura generalista è stata ormai talmente invasa da queste interpretazioni pseudo-storiche che la mitologia originaria del Graal è sempre più spinta in secondo piano, con il risultato che tutti gli studi sulla narrativa dei trovatori meidevali e i loro richiami ad antiche tradizioni popolari sono ormai finite completamente in secondo piano ed il Graal, come ad esempio anche i templari, si va sempre più riducendo ad una macchietta fonte più di ironia spicciola che di seri studi storico-culturali.
Bibliografia:
- John Michael Greer, Dizionario enciclopedico dei misteri e dei segreti
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