
Nel precedente articolo dedicato alla rivolta di Kronstadt ho, nella parte finale, fatto spesso riferimento al colpo di stato del 18 Brumaio attraverso il quale Napoleone divenne Primo Console di Francia e si pose sulla strada che lo avrebbe portato, in pochi anni, a diventare l’Imperatore dei francesi. Nelle premesse quello del 18 Brumaio non avrebbe dovuto essere niente di traumatico, ma un semplice passaggio politico che seppellisse un regime già cadavere per sostituirlo con uno vitale guidato da una personalità di grande prestigio; invece il tutto si trasformò in uno scontro all’ultimo colpo nel quale Napoleone rischiò di perdere tutto ciò che aveva ottenuto fino a quel momento, financo la vita. Indicato, giustamente, come l’evento che chiuse la rivoluzione francese, è stato però secondo me anche meno giustamente, e se avete letto l’articolo precedente ormai lo saprete, visto come il tradimento per eccellenza di una rivoluzione, quindi ancora più della repressione di Kronstadt, ad opera di un ambizioso generale desideroso di farsi nuovo Cesare. Nato ovviamente sull’onda logica delle conclusioni del mio precedente lavoro, con questo racconto mi propongo di dare ulteriori elementi a riprova della mia tesi sia riguardo le fasi di sviluppo dei processi rivoluzionari sia riguardo la falsità del concetto di tradimento delle rivoluzioni. L’idea che proverò a dimostrare è che il 18 Brumaio segnò sì la fine della rivoluzione francese, entrata comunque già in agonia con il Termidoro, ma non il suo tradimento anzi Napoleone, con il suo colpo di stato, ne garantì la sopravvivenza degli ideali traghettandoli nel XIX secolo dove avrebbero creato le basi culturali per le grandi rivoluzioni nazionaliste e borghesi.
Nel 1799 la Francia era governata ormai da quattro anni dal Direttorio ed era un miracolo che questo fosse arrivato così lontano. Nato a seguito della caduta del Comitato di salute pubblica, con il colpo di stato del 9 Termidoro (27 Luglio 1794), e con l’obiettivo di tornare alla rivoluzione borghese e liberale del 1789, il Direttorio però era un meccanismo farraginoso che già nelle premesse mostrava tutti i suoi limiti. I Costituenti del 1795 era infatti talmente ossessionati dal timore delle concentrazioni del potere, tanto nelle mani dell’esecutivo che del legislativo, da spezzettarlo tra i vari organi di governo. Così si aveva un parlamento bicamerale, con il primato della camera bassa dei cinquecento, rinnovato per un terzo ogni anno che poteva eleggere, ma non sfiduciare, l’esecutivo rappresentato dal Direttorio vero e proprio. Il Direttorio era un consiglio di cinque membri parigrado che presiedevano a un governo composto da sei ministri da loro nominati, ovviamente i cinque dovevano possibilmente andare d’accordo pena il rischio di paralizzare l’esecutivo. Tanto per non farsi mancare niente ogni anno un quinto del Direttorio andava rinnovato e tale organo non aveva né il controllo delle forze armate né la possibilità di proporre leggi. Non ci vuole molto a capire come un sistema così cervellotico, con un esecutivo di fatto messo nelle condizioni di non governare, non fosse assolutamente in grado di rispondere alle esigenze di un paese che era ancora in guerra con mezza Europa e che chiedeva, dopo quasi dieci anni di fase sperimentativa, una stabilizzazione dell’ordinamento rivoluzionario. La stabilità politica fu infatti sempre una sorta di animale mitologico di cui tutti sentivano parlare, ma nessuno riusciva a vedere. Non solo i continui fremiti dei giacobini da un lato, congiura degli eguali, e dei realisti dall’altro, insurrezione del 21 vendemmiaio, ma anche gli scontri interni allo stesso Direttorio che avrebbero prodotto ben tre colpi di stato: quello del 18 Fruttidoro Anno V (4 Settembre 1797), quello del 22 Fiorile dell’anno VI (11 Maggio 1798) e infine quello del 30 Pratile dell’Anno VII (18 Giugno 1799) che fu poi la premessa del 18 Brumaio. Come se ciò non fosse sufficiente il Direttorio divenne ben presto l’emblema della corruzione più sfacciata con il suo più importante esponente, nonché l’unico a restarne in carica sino alla fine, Paul Barras assurto ad esempio vivente della decadenza dei costumi e dell’etica della società termidoriana. Ovviamente un tale caos istituzionale si rifletteva in un caos interno del paese: le continue epurazioni nella pubblica amministrazione avevano contribuito al suo collasso con conseguente anarchia assoluta in alcune zone e diffusione del brigantaggio. Anche l’economia era prossima allo stato comatoso con i vecchi assegni dei primi giorni della rivoluzione ormai senza valore, si tentò allora di sostituirli con dei nuovi mandati con l’unico esito di avere due monete svalutate in circolazione. Per finanziare le guerre poi, quando i saccheggi esteri non furono più sufficienti, si dovette fare affidamento a una sempre più gravosa tassa progressiva sulla proprietà e ai prestiti forzosi due misure che inimicarono al Direttorio anche la borghesia che, teoricamente, doveva invece essere il suo puntello. Il colpo però fatale al prestigio dell’esecutivo fu la disastrosa conduzione delle guerra della seconda coalizione, il cui scoppio fu dovuto quasi interamente ad errori del Direttorio stesso. Nel 1797 infatti, dopo la prima campagna napoleonica in Italia, il Regno Unito era rimasto pressoché solo a fronteggiare la Francia rivoluzionaria e così Londra, gravata anche da problemi interni, propose una pace molto favorevole ai francesi. Il Direttorio però, che aveva bisogno di un nemico esterno per mascherare i suoi errori, respinse queste offerte costringendo così il governo inglese a lavorare per costruire una nuova coalizione anti-francese; compito reso più facile da una serie di gaffe diplomatiche di Parigi per altro incapace ormai di controllare l’ego dei suoi generali. Rivalità e diffidenze interne al resto dell’Europa ritardarono fino al 1799 la creazione di una nuova coalizione che però, quando infine prese vita, iniziò subito a mordere. Una campagna congiunta russo-austriaca cacciò i francesi dal nord Italia, mettendo momentaneamente fine all’esperienza della Repubblica cisalpina, mentre gli inglesi occupavano Napoli uccidendo la Repubblica partenopea. Anche in Germania le cose iniziarono sin da subito ad andare male, con la perdita per mano austrica dei fondamentali passi svizzeri, e l’arrivo di un esercito anglo-russo in Olanda aggiunse ulteriore pressione sulle armate francesi. Molti di questi insuccessi furono dovuti al modo con cui veniva gestita la guerra da Parigi: corruzione nelle forniture militari, ordini e contrordini insensati nonché l’uso delle riserve per dare la caccia ai renitenti alla leva. Fortunatamente nuove divisioni interne agli alleati anti-francesi e una serie di offensive fortunate, condotte dagli eccellenti generali Massena e Brune, riequilibrarono momentaneamente la situazione allontanando lo spettro di un’invasione. Nonostante ciò però a Parigi era ormai evidente a tutti che il Direttorio era un cadavere che ogni giorno puzzava sempre più; c’era solo da vedere chi sarebbe stato il becchino che lo avrebbe seppellito.
A contendersi il dopo Direttorio c’erano in campo tre forze. Intanto i giacobini che, dopo il colpi subiti durante il Termidoro e poi con la repressione della congiura degli eguali, erano riusciti a riorganizzarsi come forza politica. Il colpo di stato del 22 Fiorile dell’anno VI era stato messo in atto proprio per evitare l’ingresso nel Consiglio dei cinquecento di un centinaio di deputati giacobini neo eletti; ma nel 1799 nuove elezioni avevano infine permesso finalmente a una folta rappresentanza giacobina di sedere in parlamento. I giacobini avevano così tanto una base politica quanto sufficienti appoggi nelle forze armate per poter rovesciare il Direttorio, ma poi? Già perché il problema era che in Francia la stragrande maggioranza della popolazione, che come detto anelava alla stabilità, non avrebbe mai accettato di buon grado una nuova svolta radicale della rivoluzione; i ricordi del comitato di salute pubblica e del terrore erano ancora troppo vivi in negativo perché se ne potesse accettare una riedizione inoltre un governo giacobino ben difficilmente avrebbe potuto negoziare una pace con le potenze della coalizione. Il rischio, in caso di vittoria giacobina, era nel migliore dei casi una nuova reazione termidoriana, nel peggiore la guerra civile situazioni entrambe che avrebbero solo facilitato una restaurazione della monarchia per sfinimento. Appunto i monarchici erano i secondi attori, ma restavano per lo più dietro le quinte in quanto l’unica cosa in Francia avvertita come peggiore di un nuovo governo giacobino era solo una restaurazione dei Borboni. La maggioranza dei francesi infatti non rinnegava la rivoluzione, chiedeva soltanto di stabilizzarne le conquiste in una forma moderata-liberale. Non potendo offrire questa garanzia, per ovvi motivi, i monarchici avevano solo tre strade da percorrere: o lo sfinimento di cui ho detto o sperare in una vittoria degli eserciti della coalizione, che avrebbero riportato il re sul trono sulla punta delle baionette, oppure lavorare perché fosse il Direttorio stesso a riconsegnare la Francia ai Borboni. Fantasia? Non tanto se è vero che Barras già da un paio di anni era in contatto con emissario del futuro Luigi XVIII allo scopo di favorire una restaurazione dietro un congruo conquibus. Terzo e ultimo gruppo erano i moderati cioè coloro che volevano seppellire il Direttorio mantenendo però la Repubblica borghese. La cospirazione moderata aveva origine all’interno dello stesso direttorio, infatti i suoi due leader era Charles Maurice de Talleyrand, ministro degli esteri, e l’ex-abate Sieyès direttore lui stesso dal 1799. Seyes era entrato nel direttorio a seguito dell’estromissione di Jean-François Reubell, alleato di Barras ed accusato di essere responsabile della cattiva conduzione della guerra, e aveva messo in atto il colpo di stato del 30 Pratile dell’Anno VII, di fatto una preparazione del terreno per il 18 Brumaio, costringendo i tre quinti del Direttorio a dimettersi. La mossa di Sieyes era diretta a un duplice obiettivo: da un lato illudere la maggioranza giacobina al concilio dei cinquecento di avere nel Direttorio due suoi uomini, dall’altro indebolire il Direttorio stesso isolando Barras e inserendovi delle personalità di minor peso specifico. Dei tre nuovi direttori infatti solo due parevano pronti a battersi per la legalità e cioè il Generale Moulin e Louis Gohier, una sorta di Catone Uticense in piccolo, mentre il terzo, Roger Ducos, pur essendo stato membro del Comitato di salute pubblica, da tempo orbitava attorno a Barras ed era pronto a mettersi a vento. Proprio Barras, fino a quel momento l’uomo forte del governo, intuendo di stare perdendo il suo ascendente tentò di riguadagnare spazio orchestrando una campagna stampa per costringere Talleyrand a dare le dimissioni da ministro. Il “diavolo zoppo” però, nonostante la perdita dell’ufficio, continuò a intrigare e i congiurati riuscirono anche ad aggiungere un ulteriore tassello alla loro trama: la nomina di Joseph Fouché al fondamentale incarico di ministro della polizia. Fouché è, come dopotutto anche Talleyrand, un autentico personaggio da romanzo viste le numerose svolte della sua vita. Insegnate presso alcuni ordini religiosi durante l’ ancien regime venne eletto tra le file dei moderati nella convenzione nazionale; in occasione del processo a Luigi XVI però votò la morte del re passando tra le fine dei giacobini e distinguendosi per la durezza dei metodi adoperati per reprimere l’insurrezione realista di Lione. Chiamato da Robespierre a rispondere di questi eccessi per salvarsi prese parte al complotto termidoriano, divenendo amico di Barras, finendo però poi proscritto dal Direttorio per una sua presunta complicità con la congiura degli eguali; riabilitato compì una serie di incarichi diplomatici prima di giungere, come detto, nel 1799 al ruolo di ministro della polizia. Può sorprendere che i congiurati abbiamo deciso di dare a una persona così propensa a cambiar partito il ruolo cardine di ministro della polizia, la cui complicità per il colpo di stato sarebbe stata vitale, ma Talleyrand sapeva che Fouché aveva ben chiari i suoi interessi e questi non stavano né in un ritorno dei giacobini, che sicuramente gli avrebbero fatto pagare i troppi tradimenti, né in un ritorno della monarchia, che gli avrebbe chiesto conto dei morti di Lione e del suo voto a favore della morte del re. Ultimo, ma non per questo meno importante, elemento di cui necessitavano i congiurati per i loro piani era l’appoggio dell’esercito. Il venir meno delle grandi figure politiche dei primi anni della rivoluzione (Danton, Marat, Robespierre ecc.) aveva fatto in modo che, complice anche il continuo stato di guerra, i generali assumessero un ampio prestigio presso le masse e, di conseguenza, anche un ruolo sempre più preminente nella politica nazionale. Il Direttorio, necessitando dell’esercito per puntellare il suo instabile potere, aveva progressivamente iniziato ad inserire dei militari all’interno del governo; una pratica che gli si sarebbe ritorta contro. Vari erano i generali in quel momento che potevano svolgere un ruolo di primo piano nell’organizzazione ed esecuzione di un colpo di stato: in primis Augerau e Jourdan, membri del Consiglio dei cinquecento e di tendenza giacobina, poi Bernadotte, anche lui giacobino, ma anche ambizioso e in rotta col Direttorio per essere stato licenziato da ministro della guerra, e infine Moreau e Lefebvre, quest’ultimo nel vitale posto di governatore militare di Parigi. Secondo i piani di Talleyrand e Sieyès un generale di prestigio avrebbe dovuto svolgere il ruolo di loro uomo di paglia ponendosi ufficialmente alla guida del colpo di stato. Il primo ad essere consultato fu il giovane generale Joubert, che aveva ben servito sotto Napoleone in Italia per poi essere promosso a comandante degli eserciti in Germania e poi di nuovo in Italia, ma la sua morte durante la battaglia di Novi Ligure costrinse i congiurati a cercare altrove. Vennero consultati Moreau e MacDonald, ma entrambi rifiutarono e fu in quel momento che, inaspettatamente, Napoleone rientrò in Francia dall’Egitto.
Sicuramente in quel momento Napoleone era il generale più popolare di Francia. La sua campagna d’Italia, conclusasi con la pace di Campoformio che aveva fatto uscire l’Austria della prima coalizione anti-francese, era stata il più fulgido e completo trionfo colto dalla Repubblica dai tempi di Valmy mentre la sua recente campagna d’Egitto non appariva ancora per quel completo fiasco che in realtà ormai già era. Sebbene infatti tutte le battaglie terresti fossero state vinte, la distruzione della flotta francese nella baia di Abukir, ad opera di Nelson, rendeva impossibile rifornire le truppe mettendo così una lapide sull’ambizioso piano di Napoleone di creare una base per un successivo assalto all’India britannica. Temendo di restare travolto da quel disastro, e consapevole che in patria il Direttorio aveva le ore contate, Napoleone decise di abbandonare i suoi uomini per rientrare segretamente in Francia prima che la notizia dell’insuccesso giungesse a Parigi. Ufficialmente il corso disse di essere tornato perché preoccupato dalle notizie delle continue sconfitte subite dagli eserciti francesi in Europa, ma in realtà aveva il timore di essere subissato dal biasimo generale per non essersi preoccupato della sorte di quasi quarantamila soldati francesi rimasti in Egitto. Invece fu subito confortato nel constatare che il suo ascendente sia presso il popolo che verso le truppe era rimasto inalterato, per fare un esempio recandosi il giorno stesso del suo arrivo a Parigi a visitare il Direttorio le sentinelle all’ingresso presentarono le armi al grido “Viva Bonaparte!”. Questa manifestazioni di consenso convinsero tutte le fazioni che il supporto del generale corso fosse imprescindibile per il successo di una qualsiasi congiura contro il Direttorio. Stando tanto a David Chandler, uno dei massimi storici su Napoleone, quanto a Curzio Malaparte, Napoleone già ai tempi della conclusione della campagna d’Italia aveva pensato di rovesciare il Direttorio per mettere al loro posto se stesso. A prova di ciò viene citato un famoso proclama del 14 Luglio 1797, diretto ai soldati dell’Armata d’Italia, ammoniva il club di Clichy, realisti-moderati che proprio quell’anno avevano vinto le elezioni, che l’esercito era pronto a passare le Alpi e marciare su Parigi per difendere la Costituzione, la libertà e la Repubblica. Nel 1797 la crisi del Direttorio non era ancora così grave e per ciò Napoleone valutò che fosse meglio restare in attesa fingendosi amico del governo, ma non compromettendosi con esso al punto da venirne associato agli occhi della gente. Resoconti successivi dello stesso Bonaparte riferiscono che i primi ad avvicinarsi a lui furono i giacobini che gli offrirono la guida della loro congiura. La cosa non deve sorprendere dopotutto durante gli anni del Terrore Napoleone era stato vicino a Robespierre e l’evento che in seguito l’aveva riportato alla ribalta era stata la repressione a colpi di cannone dell’insurrezione realista del 21 Vendemmiaio. Non sappiamo quanto Napoleone considerò seriamente tale proposta, ma è certo che a dissuaderlo, e a convincerlo invece ad accettare gli abboccamenti fattigli dai moderati, fu suo fratello Luciano. Questo ci permette di focalizzare due punti fondamentali nella comprensione del ruolo di Napoleone nel colpo di stato del 18 Brumaio: primo egli entrò in una cospirazione che era già in atto, dunque non ne fu l’ispiratore come a volte erroneamente viene detto, secondo il Bonaparte che avrebbe svolto un ruolo decisivo nel suo successo non fu Napoleone bensì Luciano. Questi era il terzo dei fratelli Bonaparte che riuscì a superare l’infanzia e, al contrario del secondogenito Napoleone, il suo campo d’elezione non fu la guerra, ma la cultura e la politica. Sostenitore di Robespierre, venne in seguito elette al consiglio dei cinquecento nel 1798, nonostante non avesse l’età minima prevista, divenendone il 23 Ottobre dell’anno dopo Presidente dunque un ruolo importantissimo per la riuscita del colpo di stato. Per Chandler né i Bonaparte né Sieyes, sebbene i loro obiettivi a lungo termine divergessero, pensavano che il risultato finale dell’operazione sarebbe stato un militare proveniente dalla Corsica alla guida dell’intera Francia; più difficile intuire le intenzioni di Talleyrand il quale aveva già intrattenuto contatti con Napoleone ai tempi della campagna d’Italia evidentemente intuendone il potenziale. Comunque l’accostarsi di così tante personalità tra loro divergenti spinse anche chi non voleva vedere a capire che un sommovimento di qualche tipo era prossimo, ma tanto i monarchici quanto i giacobini non furono in grado di organizzare un’azione preventiva in quanto bloccati dalle rispettive incertezze. Sempre Chandler fa notare però come i cospiratori godettero della fortunata circostanza che i due generali più ardentemente repubblicani, Kleber e Brune, si trovassero fuori dal paese. Sieyes e Napoleone si divisero i compiti: il primo avrebbe preparato il terreno politico mentre il secondo avrebbe ottenuto l’appoggio dell’esercito. Cosa importante era evitare che nel Direttorio si formasse una maggioranza di tre membri che potesse dare ordini esecutivi nel momento decisivo; se era certa l’opposizione di Gohier e Moulin, Sieyes riuscì a trarre a se Roger Ducos, garantendogli un ruolo di primo piano nel nuovo regime, e comprò Barras che, vistosi ormai fuori dai giochi, si era ovviamente messo in vendita al miglior offerente. Dal canto suo Napoleone conseguì il non scontato, ma fondamentale appoggio del generale Moreau che l’8 Novembre si presentò al corso dichiarando che “Stanco del giogo dei mestatori che stanno rovinando la Repubblica, vengo a offrirvi il mio appoggio per salvarla.”. Tramite un’ulteriore serie di incontri, visite e discussioni private il parco dei sostenitori si andò allargando fino al punto che le uniche personalità di rilievo che restavano in dubbio erano: Bernadotte, Lefebvre e il Consiglio dei Cinquecento. Create comunque delle basi sufficientemente solide si decise di far entrare la congiura nella sua fase esecutiva tra il 9 e il 10 Novembre o, stando al calendario rivoluzionario, il 18 e il 19 Brumaio.
Curzio Malaparte afferma che fu Bonaparte a insistere perché il colpo di stato fosse esclusivamente parlamentare, escludendo quindi condotte esplicitamente illegali; Sieyes invece aveva originariamente progettato di applicare anche una certa dosa di pugno di ferro per cautelarsi dagli imprevisti. “Tecnica del colpo di stato” di Malaparte è un’interessantissima opera, ma non è propriamente un testo di storia e quindi alcune ricostruzioni dell’autore vanno prese con le dovute cautele. In questo caso però, stante anche la constatazione degli errori sicuramente imputabili al corso nella giornata del 19 Brumaio, pare effettivamente credibile che Napoleone abbia sopravvalutato il suo ascendente sul paese convincendosi che si potesse operare nei confini della legalità senza che ciò comportasse un rischio. Per tale ragione egli respinse il suggerimento di Fouché, che di congiure la sapeva lunga, di arrestare preventivamente i deputati più battaglieri così da azzerare l’opposizione nel Consiglio dei cinquecento. Il piano era molto semplice: provocare una crisi interna al Direttorio con le dimissioni della maggioranza dei suoi membri e dunque portare i due rami del parlamento, sotto la falsa minaccia di una congiura “anarchica”, lontano da Parigi, precisamente a St. Cloud, dove avrebbe votato l’abolizione del Direttorio e una nuova costituzione. Tutto procedette come progettato e il Consiglio degli anziani, la camera alta della Repubblica già ampiamente schierata a favore della congiura, votò il trasferimento a St. Cloud assegnando allo stesso tempo a Napoleone il comando delle truppe regolari e della Guardia Nazionale di stanza a Parigi e dintorni. I generali fedeli a Napoleone misero in atto le misure precauzionali concordate per garantire ai congiurati il controllo dei punti strategici della capitale: Lannes e Marmont presero il controllo delle vie d’accesso alle Tuileries, dove si riuniva il Consiglio dei cinquecento, mentre Moreau circondò il Palazzo del Lussemburgo. MacDonald assunse il controllo di Versailles e Murat quello della stessa St. Cloud; il fatto però più importante fu l’adesione alla congiura da parte del generale Lefebvre, che come detto era il governatore militare di Parigi, il quale si rifiutò di eseguire gli ordini di Gohier e Moulin, che tentavano una resistenza, riconoscendo come unica autorità a lui superiore quella di Napoleone. La stessa Guardia del Direttorio passò armi e bagagli dalla parte dei congiurati senza patemi o melodrammi. Frattanto Sieyes e Ducos agivano per paralizzare l’azione del Direttorio pagando il promesso a Barras e dando insieme a lui le dimissioni; ormai lasciati soli i due direttori rimasti vennero messi agli arresti. Poco prima lo stesso Bonaparte si era presentato al Consiglio degli anziani dove tiene un breve discorso che Malaparte giudicò non idonei per chi vorrebbe apparire come un semplice difensore della legalità chiamato a questo incarico dall’assemblea stessa “La Repubblica è in pericolo; voi lo avete saputo, e il vostro decreto viene a salvarla; sventura su coloro che vogliono causare problemi e disordini! Io li fermerò. Che nessuno cerchi di ritardare il nostro cammino. La vostra saggezza ci ha dato questo decreto; le nostre braccia ne saranno esecutrici; noi vogliamo una Repubblica fondata sulla vera libertà, sulla libertà civile, sulla rappresentanza nazionale. Noi l’avremo, lo giuro, lo giuro a nome mio e a nome dei miei compagni d’armi.”. Comunque gli anziani, già addomesticati, si limitano a una selva di applausi anche perché Sieyes, previdente, ha fatto in modo che durante la notte gli addetti alla sala facessero sparire gli avvisi di convocazione per i deputati più battaglieri. Così, con una maggioranza schiacciante, gli anziani approvano i decreti che nominano Napoleone “esecutore” di una nuova costituzione la quale indica come “consoli provvisori” Sieyes, Ducos e, appunto, il generale corso. Nel primo pomeriggio i congiurati sono sicuri che il colpo di stato sia ormai andato a segno: l’esercito è tutto dalla loro, il Direttorio è stato esautorato e il Consiglio degli anziani ha già espresso la sua approvazione per il nuovo ordine costituzionale. A questo punto serve solo che il Consiglio dei cinquecento faccia lo stesso, ma c’è la convinzione che questo, riunendosi il giorno dopo nella più controllabile St. Cloud e sotto la direzione di Luciano Bonaparte, non darà problemi nonostante la forte componente giacobina al suo interno. Invano Fouché propose ancora una volta una serie di arresti preventivi di deputati. Molte e giuste critiche sono state rivolte all’operato dei cospiratori per non aver spinto i cinquecento a votare lo stesso 18 Brumaio concedendo così ai giacobini ventiquattr’ore per superare l’iniziale smarrimento e preparare una vera opposizione. Obbiettivamente fu una leggerezza, e anche grave, perché i colpi di stato consistono principalmente nel saper cogliere l’attimo fuggente in cui tutto gioca a favore dei congiurati; concedere agli avversari il tempo di riorganizzarsi, come in occasione del fallito complotto del 20 Luglio 1944, può essere fatale tanto più se non si ha ancora il completo controllo degli apparati dello stato. Ad errore poi si sommò errore perché il 19 Brumaio non si poté convocare subito le due camere, in quanto le aule apposite non erano ancora pronte, e si dovette attendere sino al pomeriggio dando tempo ai deputati per discutere e scambiarsi opinione su ciò che stava accadendo. Soprattutto ci si iniziò a fare domande sulla presunta congiura “anarchica”, cioè giacobina, che aveva giustificato il trasferimento a Se. Cloud; stando a Malaparte Sieyes non fabbricò alcuna prova in merito e così i deputati iniziarono a rumoreggiare ironicamente sull’argomento. Le discussioni iniziarono alle due e sin da subito il centro dello scontro fu l’Orangerie, dov’era riunito il Consiglio dei cinquecento. Luciano tentò di dirigere l’assemblea sui binari prefissati, ma i giacobini guidarono la protesta e i tempi iniziarono a dilatarsi generando timori in Sieyes ed impazienza in Bonaparte. Per Malaprate il secondo si è infatti affidato interamente al suo piano e l’unica via d’uscita che ha predisposto in caso di pericolo è la fuga, ma Napoleone invece si convince che un suo intervento personale sia necessario per sbloccare la situazione e così, accompagnato da alcuni seguaci, si recò al consiglio degli
anziani. Qui tenne un verboso discorso in cui respinse l’accusa di essere un novello Cesare o Cromwell che voleva instaurare un governo militare e, a chi gli rinfacciava il suo giuramento alla costituzione, rispondeva che la Costituzione era stata violata da entrambe le Assemblee e dal Direttorio già altre volte, facendo riferimento ai vari colpi di stato precedenti. Nonostante la debolezza delle parole e qualche protesta isolata, la maggioranza degli anziani accettò ancora una volta l’allocuzione del corso, ma di ben altro tenore sarebbe stata l’accoglienza a lui riservata dal Consiglio dei cinquecento. Qui era appena iniziata la discussione sulla sostituzione di Barras a direttore quando, scortato da quattro granatieri, Napoleone entrò nell’Orangerie. A questo punto non si sa con esatte cose successe e se cioè Bonaparte, in un clima infuocato, riuscì a tentare di tenere un discorso o se fu subito aggredito, anche fisicamente, dai deputati. L’aula si trasformò in una bolgia dove si urlavano slogan contro il tiranno e “horse la loi” (cioè fuori legge) mentre Napoleone veniva circondato da un nutrito gruppo di deputati intenzionati a buttarlo fuori dalla stanza. Nacque in questa occasione la leggenda del pugnale e cioè che qualcuno di questi abbia tentato anche di pugnalare Bonaparte; sebbene spesso ripresa in quadri e sceneggiati televisivi non esiste alcuna prova che ciò sia mai veramente successo ed è invece più probabile che sia stato inventato di sana pianta nei concitati momenti successivi per spingere i soldati a difendere il loro generale. Ciò che invece successe per certo fu che Napoleone dovette abbandonare l’Orangerie spettinato e stretto tra i suoi granatieri mentre nell’Assemblea si chiedeva a gran voce la sua messa fuori legge. A questo punto però fu il Consiglio dei cinquecento a commettere l’errore di lasciarsi sfuggire l’attimo fuggente per stroncare il colpo di stato. Luciano Bonaparte infatti per non far votare la messa fuori legge del fratello aveva abbandonato la presidenza e, come poi raccontò un testimone della giornata, i cinquecento, invece di forzare a loro volta la legalità votando comunque, persero tempo in vuote minacce per costringere Luciano a riprendere il suo posto. Se Napoleone fosse infatti stato messo allora “horse la loi” c’erano almeno tre generali, Augerau, Jourdan e Bernadotte, pronti a guidare un contro colpo di stato convocando la Guardia consolare, che non era stata ancora infeudata dai sostenitori del generale corso. Napoleone invece non perse tempo e decise di abbandonare l’apparenza della legalità per risolvere la situazione con un putsch militare. Saltato a cavallo si presentò infatti alle sue truppe urlando “Alle armi!” e chiedendo di seguirlo, ma queste, pur acclamandolo, parvero esitare e con esse esitarono alcuni degli ufficiali. In quel momento però giunse anche Luciano che arringò le truppe dichiarando che l’assemblea era preda di alcuni sedizioni che avevano anche tentato di pugnalare il fratello, la leggenda del pugnale di cui prima. Fu dunque grazie all’eloquenza di Luciano che l’entusiasmo dei soldati per il loro generale si riaccese e gli ufficiali, primo tra tutti Murat, vedendo che il meccanismo aveva ripreso a funzionare, si affrettarono a guadagnarsi la benemerenza del nuovo padrone facendo a gare nel guidare l’azione. Il rullo di tamburi e le urla “Viva Bonaparte!” annunciarono al Consiglio dei cinquecento, ancora preso nelle sue discussioni, la fine dei giochi. I granatieri, baionette innestate, fecero irruzione nell’Orangerie guidati dal generale Leclerc, che tentò di mantenere un’etichetta affermando “Cittadini rappresentanti, non possiamo più garantire la sicurezza del Consiglio, vi invito a ritirarvi”, e da Murat, che invece urlò un molto più sbrigativo “Sbattete fuori questa gente.”. Con le buone e con le cattive, si racconta che alcuni deputati uscirono addirittura dalle finestre, l’Orangerie venne sgombrata. Il consiglio degli anziani, ricevuta la notizia di quanto successo, decise di non sfidare a sua volta Bonaparte e così, supinamente, votò la nomina di una commissione di tre membri (Sieyes, Ducos e Napoleone) che assumessero i poteri dell’ex-Direttorio; i congiurati però valutarono questo decreto troppo vago e così Luciano, dopo aver racimolato una cinquantina di deputati del consiglio dei cinquecento, riunì una camera unica con gli anziani per fargli votare la revisione della costituzione e la nomina di tre consoli provvisori (e non c’è bisogno di dire chi furono i designati, no?). All’atto di giurare fedeltà alla nuova costituzione davanti a una rappresentanza delle due camere, Napoleone disse “Cittadini, la Rivoluzione ha fissato i principi che le hanno dato origine, essa è finita.”.
Tutto si era concentrato in una manciata di minuti in cui, come scrisse giustamente Malaparte, sarebbe basta la fermezza di un deputato per rovinare, forse per sempre, le ambizioni di Napoleone. Sempre Malaparte, dopo aver rievocato il lapidario giudizio di un anonimo storico che mai vi era stato colpo di stato peggio progettato ed eseguito, rilevò gli errori commessi dal Consiglio dei Cinquecento nel momento culminate del finale travolgente: l’aver scelto la via della più stretta legalità formale nel momento del passaggio al offensiva. Lanciando la parola d’ordine “horse la loi” si metteva infatti Napoleone con le spalle al muro e quindi, in quel momento, l’unica cosa da fare era bruciare le tappe, in barba alle norme, per emettere il fatal decreto. Invece ci si adeguò alla lentezza dei tempi parlamentari, ma questi, sempre secondo Malaparte, sarebbero stati adatti a una strategia del prendere tempo; giungendo infatti a un aggiornamento della seduta si sarebbe lasciato il colpo di stato a mollo per altre ventiquattr’ore durante le quali tutto sarebbe ancora potuto succedere. Da qui la massima suprema elaborata da Malaparte: su tutti i colpi di stato la regola tattica dei congiurati è tagliar corto, quella dei difensori dello stato è guadagnar tempo.
Prima di concludere voglio analizzare brevemente questo colpo di stato alla luce della mia riflessione nell’articolo precedente in merito alle rivoluzioni e al loro tradimento. Una volgata diffusa è infatti che il 18 Brumaio sia stato il tradimento di una rivoluzione per eccellenza, durante il quale un giovane e ambizioso generale seppellì la rivoluzione francese instaurando un’autocrazia personale. Ora se è indubbio che il 18 Brumaio segni la fine della rivoluzione francese, non concordo affatto con l’idea che ne sia stato il tradimento; anzi sostengo invece che in realtà il colpo di stato salvò l’eredità culturale della rivoluzione. Mi spiego la Francia era in rivoluzione da ben dieci anni e il popolo, sebbene legati ai suoi ideali, chiedeva però anche una stabilizzazione definitiva. Tra il 1791 e il 1799 v’erano state tre costituzioni, due dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino e una dichiarazioni dei doveri; si era passati dalla monarchia assoluta, alla monarchia costituzionale, alla Repubblica parlamentare, al Comitato di salute pubblica e infine al Direttorio combattendo con mezza Europa praticamente ininterrottamente dal 1792! Dire che i francesi fossero stanchi di tanta incertezza è dire poco; essi volevano un governo che al tempo stesso garantisse i principi della rivoluzione del 1789, cioè di quella liberale e borghese, e che però fosse in grado di dare un assetto istituzionale definitivo al paese. Come abbiamo visto nel 1799 il Direttorio era di fatto già morto prima del 18 Brumaio e, se non ci fosse stata la congiura di Sieyes, le soluzioni sul tavolo sarebbero state solo due: o il colpo di stato militare di un altro generale o un ritorno dei giacobini che però ben difficilmente sarebbero riusciti a imporre un nuovo governo radicale all’intera Francia. Il pericolo in entrambe le ipotesi, anche in quella di un putsch militare dato che nessun altro generale aveva il prestigio e sì anche il genio di Napoleone, era di facilitare la strada a una restaurazione della monarchia o per sfinimento del paese o per invasione esterna. Una restaurazione nel 1799 avrebbe certamente livellato verso il basso le conquiste della rivoluzione. Invece Napoleone, pur con le sue pulsioni autoritarie, era comunque un figlio della rivoluzione che non poteva rinnegarla senza rinnegare se stesso. In tal senso il consolato e l’impero, se pur allontanandosi di molto dalla rivoluzione in materia di assetto istituzionale, furono il momento di radicamento degli ideali del 1789 e della loro massima diffusione in Europa. E’ innegabile che principi come l’eguaglianza dei cittadini d’innanzi alla legge, la mobilità sociale per merito civile o militare, la certezza del diritto nei rapporti tra privati (Code civil), il primato della Nazione sulla dinastia, una separazione, seppur con varie gradazioni, l’abolizione dei privilegi nobiliari e il primato della legge scritta sulla consuetudine o sul dictum del sovrano marciarono al seguito della grande armata su tutto il continente. Tale fu affermarsi di questi principi nelle coscienze individuali che, dopo il definitivo esilio di Napoleone, i Borboni in Francia durano a malapena quindici anni e la restaurazione in Europa, dopo le prime scosse sismiche del ’20-’21 e del ’30-’31, venne definitivamente archiviata nel 1848 consegnando il secolo al trionfo della borghesia. Guardando poi al piccolo del nostro paese, il risorgimento così come lo conosciamo non sarebbe stato possibile senza l’eredità spirituale della Repubblica Cisalpina e del Regno d’Italia napoleonico. Scandendo i tempi della rivoluzione francese secondo lo schema da me proposto nel precedente articolo, dopo la distruzione del 1789, gli anni che vanno dal 1790 al 1799 furono la fase di sperimentazione nelle quali le varie correnti della rivoluzione proposero le loro formule. Semplificando molto lo scontro tra l’elemento radicale giacobino e quello moderato portò al Termidoro in cui, nonostante il pericolo, si riuscì comunque a tenere la barra del processo rivoluzionario; il Direttorio però, per le sue debolezze intrinseche, non era in grado di portare il paese nella fase costruttiva e un secondo Termidoro rischiava seriamente di uccidere molte conquiste rivoluzionarie. In tal senso il 18 Brumaio fu il passaggio dalla fase sperimentativa a quella costruttiva nella quale si fece il conto di ciò che la rivoluzione aveva prodotto, decidendo cosa tenere e cosa scartare, per consegnarne l’eredità alle future generazioni.
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