Le elezioni presidenziali del 1860, che avrebbero determinato la secessione del sud e la guerra, furono l’atto conclusivo di un processo di disgregamento dell’Unione che si era andato via via acutizzando per tutto il decennio successivo al 1850. Bisogna subito mettere in chiaro che nel 1860 la controversia che rendeva il confronto politico esplosive non era la schiavitù in sé perché questa altro non era che l’elemento di maggior spicco e di maggior richiamo propagandistico all’interno di un conflitto sempre più acuto tra gli Stati del meridione e quelli Nord – Nord Ovest. Per tutti i primi cinquant’anni di vita degli Stati Uniti l’aristocrazia terriera del sud, alleandosi con la ricca borghesia degli stati del cento-ovest, aveva avuto il ruolo di guida politica dell’Unione e, non a caso, aveva espresso la stragrande maggioranza dei suoi presidenti, come Jefferson, Jackson, Polk e Taylor. Economia agricola e libero scambio erano le linee guida propugnate da questo gruppo sociale che però iniziò a sentire minacciato il suo primato a seguito della portentosa corsa alle praterie dell’Ovest da parte di coloni in gran parte settentrionali. Questa massa di coloni, detti frontiersmen, avrebbe ben presto portato alla nascita di nuovi stati a Ovest che avrebbero fatto perdere al Sud la maggioranza al senato oltre a precludere agli stati meridionali l’accesso a nuove terre coltivabili di cui la loro economia aveva un disperato bisogno. E’ a questo punto che la schiavitù iniziò a ad affacciarsi come un problema perché per i frontiersmen, in particolare per il gruppo dei piccoli contadini che chiedevano l’assegnazione gratuita della terra demaniale dei territori (i così detti freehomesteads), che il meridione fosse schiavista non era un problema purché la “peculiare istituzione” non fosse estesa ai nuovi territori in quanto una minaccia al lavoro libero e alle piccole proprietà.
Questa situazione si andò legando con l’esplodere della rivoluzione industriale che determinò la nascita negli stati settentrionali di una nuova élite industriale che, seppur disinteressata alla schiavitù finché si potevano fare buoni affari con il cotone prodotto nel meridione, non accettava più che il Sud mantenesse questo suo primato sulla politica del paese che ostacolava l’espansione industriale e impediva il passaggio a un protezionismo invocato con forza nelle acciaierie di New York e della Pennsylvania.
Incapaci di trovare una soluzione al problema le classi dirigenti non poterono far altro che andare avanti per compromessi nella speranza che uno di questi riuscisse a stabilizzare la situazione per il tempo sufficiente che serviva al Sud per superare da solo la schiavitù. Questo va ben inteso perché nessuno nel sud, tranne gli elementi più ottusi, si illudeva che la schiavitù potesse proseguire sine die; ciò che si chiedeva erano un suo superamento non traumatica, e quindi scaglionata nel tempo, che salvaguardasse l’economia e la società degli stati meridionali. Questi compromessi (di cui seguire la storia sarebbe troppo lungo in questa sede) però invece di placare gli animi finirono solo per radicalizzarli, fino a portare nel territorio del Kansas a una vera e propria guerra civile tra abolizionisti e schiavisti, spingendo il meridione a sentirsi sempre più sotto assedio e a interpretare ogni nuova questione che finiva sul tavolo come un ultima trincea da difendere con le unghie e con i denti. Su questa catasta di dinamite furono lanciati nel biennio 1857-1858 due fiammiferi accesi: la sentenza della corte suprema sul caso Dred Scott che annullava tutti i compromessi fino ad allora raggiunti, facendo schiumare di rabbia di frontiersmen, e il raid di James Brown un abolizionista radicale che, sebbene senza risultati concreti, acuì i contrasti creando un martire nel Nord e il panico nel Sud. Questi due fiammiferi, sebbene non fecero esplodere la situazione, aumentarono viepiù la tensione che si accumulava attorno alle prossime elezioni presidenziali con la parola “secessione” che nel meridione non era più l’esternazione di qualche esagitato, ma un serio argomento seppur discusso ancora a denti stretti.
A peggiorare ancora di più le cose era il fatto che il paese stesse andando all’appuntamento del 1860 senza un partito che fosse in grado di rappresentare l’Unione al di sopra dei singoli interessi locali. Alla metà degli anni ‘50 infatti il partito dei whig, che fino a quel momento era stato l’avversario dei democratici, si era andato disfacendo e parte del suo elettorato, soprattutto nel Nord, aveva finito per incontrarsi con i freesoilers del Nord-Ovest nel nuovo Partito repubblicano. Per anni si era temuto il nascere di un partito del sud e invece era alla fine successo l’esatto contrario perché i repubblicani furono sin da subito un partito unicamente presente nel settentrione e che, nonostante si proclamassero gli autentici seguaci degli ideali jeffersoniani, racchiudendo al loro interno dagli abolizionisti radicali a conservatori ex-whigs a progressisti frontersmen avevano come loro principale comun denominatore l’antimeridionalismo.
Unico partito che dunque poteva ancora ambire a rappresentare tutti gli Stati dell’Unione era quello democratico, ma anche questo stava vivendo delle drammatiche convulsioni interne dovute allo scontro in atto tra il suo principale leader Stephen Douglas, espressione di quel Medio Ovest (era dell’Illinois) che voleva tenere il Sud dentro l’Unione, ma trattando con questo da pari a pari, e la componente del meridione che non era disposta ad accettare alcuna nuova concessione. In questa atmosfera nell’Aprile del 1860 la convenzione democratica si riunì a Charleston per trovare un candidato alla presidenza; il piccolo gigante (così era chiamato Douglas a causa della sua bassa statura) si presentò subito come l’unico candidato in grado di raccogliere i voti sia del meridione che del medio Ovest, ma ciò voleva dire che il Sud doveva accettare un programma che andasse incontro ad alcune delle richieste dei frontiersmen in particolare sulla così detta “sovranità dei pionieri” che garantiva ai coloni la libertà di decidere in merito alla schiavitù prima ancora che il territorio fosse elevato a Stato. La componente sudista, se pur disposta a transigere su un candidato non amato, era però pronta alle barricate sul programma chiedendo una clausola esplicita in cui si demandava l’argomento della schiavitù nei territori solo una volta che questi fossero divenuti Stati e che fino a quel momento le assemblee locali non potessero assumere nessuna decisione che impedisse ai proprietari di schiavi di installare la “peculiare istituzione” nei territori con il compito per il Congresso di annullare qualsiasi misura anti-schiavista delle suddette assemblee. Era un programma che consegnava l’intero Nord e Nord-Ovest ai repubblicani e Douglas lo sapeva bene, ma i sudisti si illudevano di poter in questo modo mettere su ancora uno o due stati schiavisti così da conservare quel minimo di vantaggio al Senato che gli avrebbe permesso di restare forza dominante. Per giorni si lavorò cercando un compromesso che evitasse la rottura definitiva, ma quando il 30 Aprile si andò al voto il programma sudista fu respinto con 165 voti contro 138; subito la delegazione dell’Alabama annunciò il suo ritiro dalla convenzione seguita da quella di tutti gli stati del profondo sud: Sud Carolina, Florida, Texas, Georgia, Mississippi, Louisiana e Arkansas. La convenzione fu aggiornata a Giugno a Baltimora dove i delegati degli stati settentrionali rimasti tentarono di ricucire la frattura, ma i seguaci di Douglas, convinti che irrigidendosi avrebbero costretto gli stati usciti a nominare nuove delegazioni più accondiscendenti, rifiutarono qualsiasi trattativa portando così all’abbandono della convenzione anche da parte di Virginiana, Nord Carolina, Maryland, Missouri, Kentucky e Tennessee. La convenzione di Baltimora, o quello che ne restava, designò dunque Sthepen Douglas alla presidenza con Herschel Johnson come vice con un programma tragicamente al ribasso tra le richieste dei frontersmen e dei meridionali ( libertà dei territori in materia di schiavitù, ma nessuna garanzia per la concessione gratuita delle terre demaniali e una scialba difesa della Fugitive Slave Law odiatissima nel Nord). Contemporaneamente i delegati democratici degli Stati che avevano abbandonato la convenzione si riunirono a Richmond sotto il nome di democratici-costituzionali e designarono un loro candidato alla presidenza nella persona di John Breckinridge, l’attuale vice-presidente, con come vice Joseph Lane con un programma incentrato sulla “clausola schiavista” per i nuovi Stati. Raimondo Luraghi, massimo storico italiano della guerra di secessione, dice a proposito di questo programma che il fatto di affermare che i nuovi Stati fossero liberi, dopo la loro elevazione, di pronunciarsi pro o contro la schiavitù fa bene intendere che “la lotta fosse essenzialmente sul piano dei principi: perché nessun sudista capace di riflettere poteva illudersi su ciò che sarebbe avvenuto nella schiacciante maggioranza dei Territori dell’Ovest.”
Mentre andava in scena lo sfaldamento del partito democratico i repubblicani si riunivano a Chicago per designare il loro candidato con non meno incertezze degli avversari, ma senza i loro smottamenti interni. Come detto il Partito Repubblicano era uno strano coacervo di forze dove si incontravano avvocati newyorkesi con rudi frontersmen dell’ovest uniti nell’idea che bisognasse imporre all’Unione un cambiamento di rotta spezzando il primato degli stati meridionali. I candidati più probabili parevano essere Wiliam Seward, ex whig con una lunga carriera politica alle spalle che rappresentava sicuramente il volto più istituzionale del partito (sebbene avesse una volta affermato essere insuperabile il conflitto tra Nord e Sud), Salomon P. Chase , ex democratico intelligente, ma frenato da un assoluta mancanza di duttilità e di empatia, Simon Cameron, sostenuto dal fronte protezionista, ma senza perseguitato dalla reputazione di essere un politico di bassa lega, e infine quello che sembrava l’unico vero avversario di Seward: Edward Bates che pareva essere l’unico repubblicano in grado di andare a caccia di voti anche nel sud. Quando la convenzione si aprì i vari avversari si Seward caddero tutti rapidamente a causa dell’impossibilità di creare attorno a loro un fronte ampio tra le varie anime del partito; anche Bates finì impallinato dalla sua precedente affiliazione ai know-nothing, un movimento che guardava ai bei giorni dell’epoca delle “buone intenzioni” ed era contro le masse di immigrati che stava giungendo dall’Europa. Fu in questo momento che emerse la candidatura di Abraham Lincoln un modesto avvocato dell’Illinois che pareva avere tutte le carte in regola per piacere a tutti: abolizionista moderato, ex whig, frontersmen da giovane, eccellente oratore e quindi uomo del popolo era espressione di quel Medio-Ovest che ambiva a contendere la direzione del partito con l’élite industriale atlantica. Al terzo scrutinio Lincoln batté nettamente Seward probabilmente non con troppa recriminazione da parte di questi e dei gruppi atlantici che, ingenuamente, si illudevano di avere a che fare con un uomo semplice e qui di facilmente manovrabile una volta vinte le elezioni.
Venendo al programma repubblicano questo non vedeva assolutamente nessuna dichiarazione a favore dell’abolizione della schiavitù anzi affermava che era prerogativa dei singoli Stati decidere in materia in piena autonomia e senza alcun intervento da parte del governo centrale. Dove però i repubblicani erano radicalmente in contrasto con le pulsioni del meridione era in materia di schiavitù nei territori: si affermava infatti che la schiavitù non poteva essere installata lì dove non esisteva né attraverso un atto delle assemblee locali né del Congresso il che volve dire che qualsiasi nuovo Stato sarebbe stato automaticamente abolizionista senza neanche la possibilità di un confronto al suo interno. Il punto però più importante, come fa ancora una volta notare Luraghi, stava nel terzo comma in cui si affermava l’indivisibilità dell’Unione bollando come tradimento qualsiasi proposta secessionista: era praticamente la garanzia della guerra al Sud qualora questo si fosse staccato. Per il resto si accoglievano sia le richieste protezioniste degli industriali dell’est che l’assegnazione gratuita delle terre demaniali dell’ovest chieste dai freesoilers, era insomma un programma pericolosamente creato per fare il pieno di voti al Nord, ma il deserto a Sud.
Se in questa situazioni due candidati democratici sembravano sufficienti a spianare la strada ai repubblicani un multiforme gruppo composto da ex whig ed ex know-nothing principalmente degli stati di confine, che temevano di diventare un campo di battaglia in caso di secessione del sud, proposero un loro candidato nella persona del senatore John Bell, con come vice Edward Everett, sotto la sigla di Unionisti costituzionali. Bell fu il primo ad aprire la campagna proponendosi come il candidato dell’unità del paese, ma il suo programma altro non era che un richiamo ai bei tempi andati con la chiusa “vogliamo davvero perdere tutto?”; insomma un appello all’unità al di sopra degli interessi di parte che però era chiedere troppo offrendo troppo poco visto come si era messa la situazione.
Da par suo Breckinridge non si illudeva di poter vincere, dopotutto era espressione di un gruppo che, seppur con riserve, aveva già un piede fuori dall’Unione e ciò è paradossale perché proprio il loro candidato era convinto che la secessione sarebbe stata una catastrofe per il Sud. E’ probabile che Breckinridge avesse accettato di candidarsi sia per un senso di responsabilità nei confronti del meridione sia perché sperava che una sua forte affermazione negli stati del Sud in caso di secessione avrebbe evitato la guerra in favore di una separazione consensuale. Ma che il vice-presidente non disperasse di poter ancora evitare la catastrofe fu evidente quando accolse la proposta avanzata dal senatore Jefferson Davis per un triplice ritiro della candidatura sua, di Bell e di Douglas per ricostruire un fronte anti repubblicano; Bell si dichiarò a sua volta a favore mentre Douglas fu contrario e non per egoismo, ma perché, lucidamente, intuiva che uscito lui di scena l’intero Medio Ovest sarebbe stato perso a favore dei repubblicani. Di fatto Douglas fu dei tre avversari di Lincoln l’unico che tentò di contendergli davvero il campo e l’unico tra i candidati a condurre una campagna realmente nazionale; sfidando l’ostilità dell’uditorio si rivolse con costanza all’elettorato del sud cercando di fare appello alle anime moderate perché comprendessero che il suo programma, al contrario di quello repubblicano, non aveva nulla di ostile verso di loro e quindi era accettabile per evitare il dramma della secessione. A Douglas, come anche a Bell, va dato merito di essere stato su questo punto categorico e invece di cercare facili consensi strizzando l’occhio a chi nel Sud già si vedeva fuori dall’Unione mise sempre in guardia dai pericoli che questo passo avrebbe comportato e, negli ultimi mesi quando la vittoria di Lincoln sembrava inevitabile, non ebbe timore di dire che la semplice vittoria del candidato repubblicano non poteva essere un motivo sufficiente per mandare a pezzi il paese. Il piccolo gigante aveva comunque una sua strategia per tentare il miracolo: consapevole di avere una grossa base nel medio ovest e ancora un seguito nel Nord Est, in particolare tra le classi povere, sperava di intercettare un sufficiente numero di voti nel sud che gli permettessero di vincere un paio di stati e per questo motivo incentrò la sua retorica elettorale sullo spirito jacksoniano ancora vivo in molti strati della popolazione del meridione. Chi invece a sorpresa taceva era proprio Lincoln che da che aveva accettato la nomina si era rinchiuso nel suo Illinois evitando di fare qualsivoglia dichiarazione. Luraghi crede di poter spiegare questo suo comportamento in ragione delle varie anime che componevano il Partito Repubblicano, Lincoln non si riconosceva in nessuna delle varie forze interne al suo partito e consapevole degli interessi a volte opposti che le animavano ritenne che qualsiasi cosa avrebbe detto avrebbe finito per scontentare una parte del suo potenziale elettorato; meglio allora approfittare della divisione degli avversari tacendo e lasciando che il tempo lavorasse per lui mentre nei singoli stati gli esponenti repubblicani locali facevano propaganda in sintonia con i desideri dei cittadini del posto. Ciò ovviamente non aiutò Lincoln a farsi conoscere al di là della propaganda negativa in quel Sud che vedeva in lui solo il repubblicano pronto a spezzare loro la schiena.
La campagna elettorale fu molto dura nei toni scivolando spesso nel volgare, ciò però non deve sorprendere perché era un epoca in cui il politicamente corretto era sconosciuto per cui era naturale vedere vignette in cui Lincoln lo spilungone andava a letto coi neri o prometteva di browenizzare il sud, oppure altre in cui il nanetto Douglas non riusciva a saltare la staccionata Lincoln o ancora gli oratori abolizionisti radicali che presentavano i meridionali come incivili contro cui bandire una crociata per purificare il paese dalla lordura della schiavitù. E inevitabilmente, sebbene come abbiamo visto nessun programma ne facesse cenno, fu la schiavitù in quanto tale a prendere il centro della scena della campagna in quanto argomento facile ad accendere gli entusiasmi popolari.
Il 6 Novembre infine si andò al voto e quando i risultati furono chiari rispettarono le attese e i timori di tutti. Aiutato dalla divisione degli avversari Lincoln aveva conquistato tutto il Nord, eccezion fatta per una parte del New Jersey andata a Douglas, portando a casa 180 grandi elettori ben al di sopra dei 152 allora necessari per vincere. Breckinridge aveva conquistato l’intero Sud con 72 grandi elettori, Bell la zona di confine del Kentucky, Tennessee e Virginia con 39 grandi elettori mentre Douglas ne aveva portati a casa solo 12 cioè il già detto New Jersey e il Missouri. Ma il semplice dato dei grandi elettori falsa di molto la realtà del risultato. Su un affluenza dell’81,2 % Lincoln aveva ottenuto la semplice maggioranza relativa restando poco al di sotto del 40% (1.866.452 voti) mentre Douglas aveva raccolto un comunque dignitoso 29% (1.376.957) mentre il localismo degli altri due candidati è reso ben evidente dalla sproporzione tra il loro risultato elettorale e il numero di grandi elettori ottenuti: Breckinridge 18,1 (849.781), Bell 12,6 (588.879). E’ evidente che la dispersione del voto di Douglas sia stato decisivo per la vittoria di Lincoln; va però detto che l’ipotesi che l’eventuale confluenza dei tre candidati non repubblicani in un unico cartello elettorale con la convergenza dei loro 2.815.617 voti su un unico candidato (cosa tutt’altro che certa Luraghi il quale ritiene che in quest’ipotesi i suffragi di Lincoln nel Medio Ovest sarebbero solo aumentati) non avrebbe cambiato il risultato perché, in ragione del particolare sistema elettorale americano, la dispersione dei loro voti nel Nord avrebbe comunque premiato Lincoln. La cosa però più preoccupante fu che il neo presidente se aveva fatto man bassa di voti nel Nord ne aveva ottenuti solo 20.000 nel Sud e solo negli stati di confine mentre nel profondo Sud praticamente in dieci stati non aveva ottenuto neanche un voto! Perfino Breckinridge, pur col suo programma contenete la “clausola schiavista”, aveva raccolto 278.000 voti nel Nord.
Non ci fu neanche il tempo per provare una mediazione che salvasse l’Unione, non appena si seppero i risultati folle in tumulto nel Nord Carolina obbligarono l’Assemblea legislativa locale a convocare una Convenzione che discutesse in merito alla secessione. Il 20 Dicembre a Charleston questa convenzione votò all’unanimità la secessione dall’Unione, la porta era stata aperta! Lincoln non aveva neanche ancora giurato come nuovo presidente che già, come titolava a lettere cubitali un giornale di Charleston, “The Union is dissolved”.
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