Sign up with your email address to be the first to know about new products, VIP offers, blog features & more.

Champollion e i geroglifici

Quando il 2 Luglio 1798 Napoleone mise per la prima volta piede in Egitto al suo seguito non c’era solo un esercito di 38.000 uomini per conquistare alla Francia rivoluzionaria la terra dei faraoni, ma anche un altro esercito di 165 tra astronomi, geometri, chimici, orientalisti, poeti ed artisti che avrebbero dovuto a loro volta “conquistare” i segreti che quel paese sembrava custodire dietro il muto volto dei suoi monumenti. Senza neanche bisogno di una pala e un piccone dalle sabbie dell’Egitto emergevano testimonianze di un passato glorioso; alcune di queste testimonianze sono immense, come le Piramidi o i templi, altre più modeste in dimensioni, ma non in significato come i frammenti di statue e dei sarcofaghi. Certo poi c’erano le piante, gli animali, i minerali e i primi studi su un canale che colleghi il Mediterraneo al Mar Rosso, ma tra tutto ciò che iniziò ad ammassarsi presso l’Istituto egizio del Cairo nulla accese di più la fantasia come questi reperti o i disegni che gli artisti come Dominique Vivant Denon realizzarono percorrendo il Nilo fino alla prima cataratta. Queste riproduzione dei monumenti che puntellano le rive del sacro fiume contribuiranno moltissimo alla nascita in Europa dell’interesse per l’Antico Egitto e i suoi segreti. Tutti questi tesori sottratti all’oblio della storia però risultarono essere afoni in quanto ricoperti di quei misteriosi disegni che gli antichi usavano come forma di linguaggi. Affascinanti ed enigmatici allo stesso tempo i geroglifici sfidavano da secoli gli studiosi a penetrare il loro patrimonio di conoscenze, ma il caso stava per farsi complice dell’aprire la strada che porterà alla loro decifrazione. E’ il 29 fruttidoro dell’anno VII della Repubblica (15 Settembre 1799) quando sul Courrier de l’Egypte viene data la notizia che due mesi prima presso Rosetta, piccolo centro sul delta del Nilo, durante i lavoro di rifortificazione del locale Fort de Rachid, ribattezzato Fort Julien, dalle rovine era emersa una tavola dura di basalto nero. La storia ha tentato disperatamente di dare un nome al soldato che per primo mise mano sul reperto e a volte l’ha battezzato Dhautpoul, che però era solo il capo geniere, o Bouchard, che invece era l’ufficiale addetto ai lavori, quando in realtà questo resterà sempre un ignoto che non sapremo mai se fu consapevole dell’evento storico a cui aveva appena preso parte in prima persona. Storico perché uno dei lati della pietra era interamente ricoperto d’iscrizioni anzi più precisamente tre colonne la prima, di 14 righe, in geroglifico, la seconda, in 22 righe, in demotico e la terza, di 54 righe, in greco. Appena gli studiosi a seguito del generale corso la videro andarono in estasi: greco! il che voleva dire che, essendo subito chiaro che si trattava del medesimo testo ripetuto tre volte, con un semplice procedimento a confronto si sarebbe potuto ricondurre le parole greche al loro corrispettivo in geroglifico “spiegando l’Egitto attraverso gli Egizi!” come scrisse il Courrier. Ci si mise dunque subito a decifrare il testo greco per capirne il contenuto e un generale appassionato di ellenistica fu il primo ad affermare che si trattava di una dedica del collegio sacerdotale di Menfi al re Tolomeo V per gli aiuti ricevuti dal sovrano all’incirca attorno al 196 a.c.. Fatto ciò sembrava non dovesse restare da far altro che iniziare l’opera di confronto, ma la storia imponeva i suoi ritmi e dopo che l’ammiraglio Nelson ebbe affondato la flotta francese nella baia di Abukir, tagliando i collegamenti con l’Europa, l’impresa orientale di Napoleone aveva i giorni contati. Nel 1801 le truppe francesi, rimaste senza il loro generale tornato segretamente in Francia per rovesciare il direttorio, capitolarono di fronte agli inglesi ad Alessandria venendo costrette a consegnare, come bottino di guerra, tutte le antichità scoperte, compresa la stele, al Regno Unito. Il generale inglese Hutchinson inviò tutti in patria come omaggio a re Giorgio III che a sua volta regalò l’intera collezione al British Museum dove tutt’oggi può essere ammirata. Intanto però la notizia della meravigliosa scoperta della stele si era già diffusa a macchia d’olio in Europa e le migliori menti del vecchio continente si stavano preparando a studiarla, chi in copie chi in originale, per provare ad essere i primi a poter dare annuncio al mondo che l’enigma dei geroglifici era stato risolto. Solo qualche anno prima del ritrovamento della stele il grande orientalista francese De Sacy aveva dichiarato che “Il problema (dei geroglifici) è troppo confuso e scientificamente irrisolvibile.” e lo diceva con sconforto perché c’era la generale consapevolezza che penetrando quella scrittura si sarebbe aperta una finestra su un mondo ancora in gran parte sconosciuto. Adesso però c’era la stele che, unita all’enorme molte di materiale che già si aveva a disposizione in forma di papiri o iscrizioni su statuette o sugli obelischi sparsi per mezza Europa, forniva un’occasione unica risvegliando l’entusiasmo della sfida e infiammando le rivalità per essere i primi a raggiungere il traguardo. Dopotutto se un semplice maestro di Gottinga, Georg Friedrich Grotefend, proprio in quegli stessi anni pubblicava un piccolo scritto in cui gettava le basi dell’interpretazione della scrittura cuneiforme, da lui decifrata partendo da molto meno materiale, era davvero possibile che un tale trust di menti tutte dirette al medesimo scopo potesse fallire? Certo i precedenti non sono proprio incoraggianti. Tra il 1650 e il 1654 il padre gesuita Athanasius Kircher, tra i primi a comprendere l’importanza della lingua copta come forma tarda dell’egiziano antico, pubblicò quattro volumi sulla sua traduzione dei geroglifici che, in seguito, si sarebbe scoperto non esserne giusto neanche uno; solo per fare un esempio C.W. Ceram ricorda che i segni che stanno per “autocrate” vennero interpretati da Kircher come “Osiride è il creatore della fecondità e di tutta la vegetazione, la cui forza generante il sacro Mophta conduce nel suo regno del cielo.” L’assenza di punti di partenza certi aveva incoraggiato la speculazione pura e, ad esempio, l’orientalista Joseph De Guignes dichiarò che, a seguito di un confronto tra i geroglifici e il cinese, aveva concluso che i cinesi non fossero altro che coloni egizi. Adesso però c’era la stele di Rosetta che, quanto meno, forniva una base, ma in che direzione procedere? Perché ci si era rapidamente accorti che la prima speranza di poter comprendere i geroglifici semplicemente accoppiandoli con la loro controparte greca, tesi che messa nelle mani dei meno esperti aveva prodotto esiti alquanto strampalati, era utile nel piccolo della stele, ma non forniva un sistema per poter interpretare l’intera lingua geroglifica. In cerca di risposte ci si rivolse alla sapienza degli antichi dopotutto, millenni prima, già Erodoto e poi Strabone avevano visitato l’Egitto lasciando testimonianze della storia e dei costumi di quella terra, seppur visti con lo specchio deformante della cultura greca, e altri autori come Platone, Diodoro Siculo o Tacito avevano dato la loro interpretazione sulla nascita e il senso, ritenuto quasi sempre figurativo,  di quei simboliche gli egizi usavano per scrittura. Erano stati loro i primi a differenziare il geroglifico dallo ieratico e dal demotico considerate come versioni popolari o semplificate della lingua pura. Il punto di riferimento fondamentale sembrava però dovesse essere Orapollo uno studioso ellenistico del V secolo autore dell’unico trattato antico sui geroglifici, Hieroglyphica, a noi giunto in forma completa (le opere di altri autori come Clemente Alessandrino o Porfirio sono troppo frammentarie per fornire una base di studio certa). Orapollo definiva i geroglifici come un linguaggio figurato e dunque a ogni simbolo non sarebbe corrisposta una lettera o una sillaba, ma bensì un concetto per cui individuato il concetto tradotto il geroglifico. Partendo da ciò c’era l’idea che trovando uno schema o una mentalità dietro il rapporto concetto-simbolo si sarebbe infine giunti, a cascata, a decifrare l’intera lingua. Nell’assenza completa di qualsiasi altro riferimento cui appoggiarsi per iniziare lo studio della stele di Rosetta la tesi di Orapollo, o come vedremo quella che si pensava fosse la tesi di Orapollo, finì per diventare un ipse dixit che pareva dare, con la forza dei millenni, sostegno alla tesi maggioritaria. Nel terrore di prendere il volo senza ali tutti gli studiosi partirono da Orapollo apparentemente senza nutrire dubbi in merito, solo una persona ebbe il coraggio dell’eresia ed è dunque il momento di introdurre il protagonista della nostra storia cioè il figlio di un libraio dell’Occitania che aveva appena nove anni quando la stele venne alla luce: Jean-Francois Champollion.

Le biografie ottocentesche dei grandi personaggi della storia hanno la caratteristica comunque di tendere a cercar di dimostrare che questi uomini fossero “destinati” sin dalla giovinezza al loro ruolo. Così, come un giovane Bonaparte guida i suoi compagni alla vittoria in una battaglia a palle di neve, il giovane Champollion venendo analizzato a Parigi dal frenolgo Dottor. Gall venne giudicato da questi un genio linguistico. Nella storia della vita dell’uomo che decifrò i geroglifici c’è tanto di magico che non sempre è facile distinguere, soprattutto per i primi anni, la leggenda dalla realtà. Già la nascita sembra più da ciclo arturiano che da studioso di lingue: il modesto libraio di Figeac Jacques Champollion aveva la moglie paralizzata da una malattia e data l’incapacità dei medici di curarla si affidò al mago Jacqou che, dopo cure a base di erbe e vino caldo, predisse la pronta guarigione della signora oltre alla nascita di un bambino. Detto fatto il 23 Dicembre 1790 nasceva Champollion che, ad aumentare la sensazionalità dell’evento, aveva le cornee gialle e il colorito scuro tipico degli orientali sempre ad intendere come tutto in lui era orientato all’Egitto. Il giovane Champollion cresce negli anni della Rivoluzione e sulla sua crescita ha, questa volta dato certo, grande ruolo il fratello maggiore, filologo e archeologo dilettante, che nel 1801 lo porta a Grenoble dove, intorno agli undici anni, il ragazzo dà le prime prove della sua competenza linguistica imparando rapidamente greco e latino per poi passare all’ebraico. Stando sempre alle biografie magiche il primo incontro di Jean-Francois con l’Egitto l0 ebbe quando attirò l’attenzione del prefetto dipartimentale Fourier, che era anche un ex-membro scientifico della spedizione d’Egitto, il quale gli mostrò a casa sua alcuni papiri; Champollion dopo aver saputo che nessuno aveva ancora tradotto quei simboli raffermò “Fra qualche anno le leggerò! Quando sarò grande!” esattamente come il piccolo Schliemann, dopo aver visto su un libro l’immagine di Troia in fiamme, affermò che avrebbe un giorno trovato la città di Priamo. Arrivato a tredici anni Champollion estese ulteriormente il suo parco linguistico aggiungendovi l’arabo, il siriaco, il caldeo e, fondamentale per i suoi successivi studi, il copto per poi aggiungervi altre lingue orientali; inizia contemporaneamente ad interessarsi attivamente dell’Antico Egitto producendo opere come la prima carta storia della terra dei faraoni e l’abbozzo di una “L’Egitto sotto i faraoni.”. Teniamo presente che in quel momento oltre ai già citati testi classici l’unica altra fonte dell’epoca in materia d’Egitto antico era la Bibbia con le vicende di Giuseppe e Mosé. Il 1° settembre 1807 il diciasettenne Champollion viene acclamato all’unanimità membro dell’Accademia di Grenoble e nello stesso anno si trasferisce a Parigi dove si trovano tutti quei disegni e reperti che gli inglesi non riuscirono a sottrarre ai francesi dopo l’avventura egiziana. Nella capitale Champollion finisce sotto l’ala protettiva del già citato De Sacy, rimasto folgorato dalla qualità dei lavori del quel giovanotto emaciato, e estende ulteriormente le sue competenze linguistiche raggiungendo una tale padronanza del copto e del demotico che, anni dopo, uno studioso ritrovando un testo da lui scritto in demotico lo confonderà come un autentico testo egizio di epoca antonina. Nonostante questi successi personali economicamente Champollion è, in perfetta consonanza con le altre giovani grandi mente dell’epoca, perennemente in bolletta e sopravvive solo grazie all’aiuto del fratello maggiore che si attiva anche per esentarlo dalla chiamata alle armi nel 1808. A questo punto Champollion ha già preso contatto con la stele di Rosetta, ma non ne inizia ancora un vero studio perché, preso da una sorta di timore reverenziale per il manufatto, non si ritiene ancora pronto al grande passo. Solo nell’estate del 1808, lavorando sulla comparazione tra i geroglifici di un papiro e quelli della stele, coglie per la prima volta quelli che chiamerà “i giusti nessi indipendenti per un intero rigo di lettere, ma proprio nel momento di massima esaltazione ecco un fulmine che pare incenerire in un colpo tutti i suoi sogni: i geroglifici sono stati decifrati! Un suo amico gli porta infatti la notizia che Alexandre Lenoir ha appena pubblicato una completa spiegazione dei geroglifici chiamata Nouvelle Explication. Champollion si sente svenire, ma non perde le speranze perché conosce Lenoir è ha qualche dubbio che questi possa essere giunto davvero a un’interpretazione così si affretta a comprare il libro per poterlo studiare. In breve Jean-Francois conclude che il lavoro del collega non ha fondamento e che quindi la gara è ancora aperta; lo shock però fa cadere i suoi ultimi dubbi spingendolo a dedicare tutto se stesso alla ricerca a cui ormai mezza Europa si sta dedicando.

Come detto l’entusiasmo per le possibilità aperte dalla stele offrirono spazio ai dilettanti allo sbaraglio che si lanciarono all’avventura mischiando la linguistica con la teologia e un po’ di misticismo. C. W. Ceram nel suo “Civiltà sepolte” raccoglie alcuni dei casi più bizzarri come il parigino che riconobbe in un’iscrizione del tempio di Dendera, riprodotta da Vivant Denon, il salmo centosei oppure la traduzione delle iscrizioni del così detto “obelisco pamflico” apparsa a Ginevra che parlava di “una relazione della vittoria dei buoni sui cattivi scritta quattromila anni avanti Cristo”. Il caso estremo fu quello del Conte Palin, definito significativamente da Ceram arrogante e stupido, che mischiando Orapollo, Pitagora e la Cabala arrivò ad affermare di aver risolto l’enigma dei geroglifici in una sola notte tenendo così il suo lavoro al riparo “da errori sistematici che possono derivare unicamente da una riflessione troppo prolungata.”! Il conte Palin batte comunque di poco l’abate Tandeau de St-Nicolas, anche lui meritevole di un posto nella galleria degli “orrori” di Ceram, per aver affermato che i geroglifici non erano altro che decorazioni! Fortunatamente dopo questa valanga iniziale di speculazioni la scena rimase solo per i ricercatori seri che comunque si muovevano tutti attorno alla stessa orbita: i geroglifici erano una scrittura figurata. Va detto che molti non erano giunti a questa conclusione semplicemente accettando Orapollo come Vangelo bensì trovando nell’ellenista del V secolo semplicemente una conferma rincuorante agli studi che avevano condotto. Questa certezza quasi granitica che il geroglifico rappresentante due onde dovesse indicare l’acqua finì per essere un blocco mentale che fermò ricercatori avviatisi in un modo o nell’altro sulla giusta strada. Infatti alcuni come i nordici Zoega e Akerblad o lo stesso De Sacy, studiando la parte demotica della stele, conclusero che questa era una scrittura a base di lettere, ma non andarono oltre o ritrattarono questa loro conclusione perché li portava ad allontanarsi troppo dal loro preconcetto di scrittura figurativa. Colui che più si avvicinò alla soluzione prima di Champollion fu comunque l’inglese Thomas Young che, seguendo la strada già percorsa dai ricercatori da me citati poco prima, si concentrò sulla parte demotica della stele. Il demotico, o scrittura epistolografica, è la penultima fase della scrittura egizia, precedente al copto che ne è invece il terminale, generalmente definita una forma di corsivo popolare derivata dallo ieratico ( a sua volta un corsivo dei geroglifici puri usato ancora dai sacerdoti in epoca tolemaica) con ampio uso di legature che ne rendono complessa la lettura. De Sacy e Akerblad erano riusciti a tradurre alcune parole, ma fu Young che nel 1814 riuscì a tradurre l’intero testo demotico della stele di Rosetta leggendola foneticamente. Seguendo lo schema fonetico Young provò a passare alla parte geroglifica della stele ottenendo inizialmente buoni risultati, ma impattando contro un muro quando, come ricorda sempre Ceram, provando a decifrare il nome di Tolomeo V, scompose di nuovo arbitrariamente i segni in lettere e valori monosillabi o bisillabici. Questo inciampo lo portò nel 1818 a ritrattare i suoi precedenti lavori non comprendendo invece che la direzione da lui intrapresa era quella giusta e ciò fu confermato dal fatto che, quando Champollion infine risolse l’enigma, si poté constatare che dei 221 gruppi di simboli della lista di Young 76 erano giusti. Young commise due errori il primo non rendersi conto che le parti in demotico e geroglifico della stele non erano mere traduzioni del greco, ma parafrasi del testo in questa lingua; inoltre lui non fu mai in grado di studiare i geroglifici come sistema concentrandosi bensì  sulla comprensione della singola parola o lettera attraverso confronti e intuizioni brillanti. Tale critica però non vuole essere una nota di demerito nei confronti di Young che fu un eccellente studioso in particolare nelle materie naturali, basti ricordate l’equazione Young-Laplace sulla tensione superficiale o il modulo Young di elasticità longitudinale, ma proprio questo suo retroterra scientifico finì per sfavorirlo rispetto a Champollion che invece aveva il vantaggio della preparazione filologica e dell’ampia conoscenza delle lingue antiche in particolare del copto. Il francese era a sua volta giunto ad abbandonare l’ipotesi figurativa dei geroglifici anche se lui stesso ammise che, quando per la prima volta andò a identificare il simbolo del serpente come la lettera “f”, respinse l’idea come inammissibile. Proprio però nel momento in cui Champollion entrò nella fase decisiva dei suoi studi una serie di difficoltà legate al suo credo politico ne resero difficile la continuazione finendo anche per mettere in pericolo la sua libertà personale.

A volta si afferma, erroneamente, che Champollion fosse un bonapartista , in realtà era il fratello maggiore di questi ad essere un seguace dell’imperatore mentre sembra che Jean-Francois rimase sempre un repubblicano. Dal quel ci è dato ricostruire rimase criticamente indifferente al Primo Impero e distante dai trionfi bellici del corso; probabilmente prova verso Napoleone lo stesso sentimento di delusione di Beethoven o di Foscolo vedendolo come il traditore degli ideali della rivoluzione. Certo l’Imperatore è meglio dei Borboni, ma non abbastanza da non meritarsi alcuni composizioni satiriche. Volendo Ceram tracciare un pensiero politico di Champollion, partendo  dai suoi scritti, pare che il francese agognasse il trionfo di un regime della Verità assoluta frutto della ricerca scientifica che doveva essere completamente libera e non vincolata da permessi o proibizioni di sorta. Dopo la sconfitta di Napoleone nel 1814 Champollion si chiede con scetticismo se l’era della verità sta finalmente per giungere rimanendo ovviamente deluso dal clima ovattato della restaurazione. Queste delusioni politiche però non influiscono sulla qualità e quantità del suo lavoro ora arricchito, dal 1809, dalla nomina a professore di storia presso l’università di Grenoble. In questi anni si addentra sempre di più nella conoscenza dell’antico Egitto oltre al dedicarsi a un dizionario del copto rovinandosi però nervi e salute che già di per sé non era mai stata particolarmente stabile. Giunge però il 1815 e l’ultima avventura napoleonica dei cento giorni che riserveranno a Champollion quel piccolo ruolo per il quale poi passerà dei guai. Fuggito dall’Elba Napoleone infatti giunge il 7 Marzo a Grenoble accolto con entusiasmo dalle autorità cittadine che, alla domanda dell’imperatore di un segretario personale, gli presentano proprio il giovane professore storpiandone però il nome in Champoleon. Napoleone, che ritiene di buon auspico il nome del giovane che contiene la metà del suo, si intrattiene con questi in merito ai suoi studi sul copto e sui geroglifici rimanendone molto interessato e forse anche colpito da una nostalgia per i giorni andati della campagna d’Egitto. Champollion resterà freddo di fronte all’imperatore, ma non potrà evitare di restare affascinato di fronte ai ricordi di questi di una terra che lui studia da anni non avendo però mai avuto occasione di vederla. Dopo Waterloo questo fugace incontro però sarà sufficiente a mettere Champollion nei guai con le autorità borboniche che, tornate al potere, verranno debitamente informate dell’evento da colleghi gelosi come sempre ce ne sono in ambiente accademico. Jean-Francois sconta inoltre a certe condotte tenute negli ultimi giorni precedenti alla restaurazione come l’aver partecipato alla Lega del delfinato, che si era dichiarata per la libertà contro la tirannia, o l’aver incoraggiato alla difesa di Grenoble quando le truppe realiste si avvicinarono alla città. Certo poi quando il bombardamento della città ebbe inizio Champollion abbandonò i bastioni per andare a mettere in  salvo i suoi preziosi papiri custoditi al secondo piano della biblioteca cittadina, ma questi fatti, uniti con la confusione di identificazione tra lui e il fratello maggiore, furono sufficienti a procuragli un posto nelle liste di proscrizione del nuovo regime. Cacciato dall’università Chmpollion dedica tutto se stesso all’ultimo scampolo di percorso che gli manca per giungere alla decifrazione dei geroglifici lavorando sempre con la spada di Damocle di un processo per alto tradimento sulla testa. Nel Luglio 1821 è persino costretto a scappare da Grenoble perché il suo arresto sembra imminente, ma infine nel 1822 può finalmente dare lettura della sua Lettre a M.Dacier relative à l’alphabet des hiéroglyphes phonétiques all’assemblea dell’Academie des inscriptiones et belles-lettres, presente anche Thomas Young, in cui illustra le basi del sistema di decifrazione dei geroglifici. Il dissidente politico ha per primo tagliato il traguardo della gara aprendo le porte all’egittologia moderna.

Prima di narrare le reazioni che si ebbero all’annuncio di Champollion e delle ultime vicende di questi è necessario discutere di come questi giunse a risolvere l’enigma contro cui tanti avevano impattato e che De Sacy aveva detto essere rimasto a lui “intatto come l’arca sacra”. Eravamo rimasti a quando Champollion per la prima volta aveva avuto per la prima volta l’intuizione che i geroglifici potessero essere lettere o meglio, come li definirà lui stesso, segni fonetici senza essere strettamente alfabetici. In questo modo Champollion prendeva il suo percorso autonomo da Orapollo che lo portava a inquadrare le line fondamentali del sistema di scrittura egizio base teorica fondamentale per poter procedere alla decifrazione secondo un metodo semplice, ma geniale: iniziare dai cartigli dei re come aveva suggerito già Young. Il motivo di questa scelta è semplice: una delle cose certe della stele era che essa si riferiva ai ringraziamenti rivolti dai sacerdoti al re Tolomeo V per cui era lapalissiano che, anche nel testo geroglifico, dovesse esserci da qualche parte citato il nome di questo re. Bisognava dunque cercare il nome e Champollion fu concorde con Young che la teoria generale, risalente già alla metà del settecento, che essi fossero richiusi in quelli che venivano chiamati cartigli (cartouche in francese) fosse esatta; da qui la trovata di ingegno che segnò il differente destino del francese rispetto all’inglese cioè ordinare le lettere del nome Tolomeo sotto il corrispondente cartiglio in modo da identificare ogni segni con otto lettere. Nel 1815 il nostro connazionale Belzoni aveva rivendicato al Regno Unito l’obelisco di Philae, anche esse contenente iscrizioni in greco e in geroglifico, che nel 1821 venne fatto portato in Inghilterra da Wiliam Bankes il quale aveva già notato come vi fossero anche qui citati il nome di Tolomeo al fianco di quello di Cleopatra. Champollion non appena ebbe delle copie del testo dell’obelisco si avvide subito che di nuovo i segni che egli aveva supposto fossero per le otto lettere del nome Tolomeo si trovavano all’interno di un cartiglio, ma notò anche un secondo cartiglio e, basandosi sulla parte greca dell’obelisco, suppose si trattasse del nome Cleopatra. A questo punto si era al momento decisivo, dopo aver riportato in lettere i segni anche sul cartiglio di Cleopatra, Champollion mise a confronto i due cartigli reali constatando che nel nome Cleopatra i segni 2, 4 e 5 corrispondevano rispettivamente con i segni 4, 3 e 1 del nome Tolomeo (Ptolemais dal greco). La soluzione, incredibilmente semplice se ci si pensa, era stata trovata. Resta però a questo punto da chiedersi, ma allora Orapollo si era sbagliato? Anche su ciò Champollion fu in grado di dare una risposta spiegando che no non si era sbagliato, ma avevano sbagliato a capirlo quelli che lo avevano letto nei secoli successivi. Così spiegò la questione lo stesso Champollion in una lettera del 1815 citata anche da Ceram “Quest’opera viene chiamata Hiéroglyphica, ma essa non fornisce per nulla l’interpretazione di quelli che noi chiamiamo geroglifici, bensì delle sculture simboliche sacre, cioè dei simboli egizi che sono qualcosa di diverso dai geroglifici. Nelle scene emblematiche si vedono le sculture sacre di cui parla Orapollo, come il serpente che si morde la coda, l’avvoltoio nella posizione da lui descritta, la pioggia celeste, l’uomo senza testa, la colomba con le foglie d’alloro ecc; immagini tutte che non si ritrovano nei veri geroglifici!”.

Champollion ricevette ovviamente il meritato plauso per il successo ottenuto, ma come sempre insieme agli onori giunsero le bordate di veleno. La prima controversia sorse proprio con Thomas Young che, pur se in un primo momento applaudì all’opera di Champollion, in seguito si sentì offeso perché il francese non aveva mai fatto cenno al fatto che il metodo da lui utilizzato si basasse su un’intuizione iniziale di Young stesso. L’inglese ammise che solo una persona con la preparazione linguistica e la conoscenza del copto come Champollion poteva andare oltre ciò che lui aveva solo intuito, ma avrebbe gradito lo stesso che fosse quantomeno riconosciuto il contributo da lui dato alla soluzione definitiva. Champollion non fu d’accordo e tra i due studiosi si accese una disputa, fatta di scritti anonimi in cui i due si svalutavano vicendevolmente i lavori, che ben prestò divenne, come già era successo ai tempi della querelle Newton-Leibnitz, uno scontro tra inglesi e continentali fatto non solo di elementi scientifici, ma anche politici e culturali. Comunque Champollion non serbò rancore per l’ex-rivale e quando venne nominato curatore del museo del Louvre diede libero accesso a Young alle collezioni di testi in demotico ivi contenute. Altre critiche Champollion le dovette subire anche in casa sia da coloro che, per piaggeria verso il nuovo regime, non potevano accettare che un proscritto avesse conseguito un risultato così importante sia da chi venne umiliato dall’esito dei lavori dello studioso. Jean-Francois infatti una volta trovata la chiave la iniziò ad applicare a tutte le iscrizioni di cui si era a conoscenza e facendo ciò con il così detto zodiaco del tempio di Dendera si mise contro sia Edmé-Francois Jomard che la chiesa cattolica dimostrando che la precedente datazione era sbagliata essendo il testo antico di ben 15.000 anni ben al di là dei 6.000 che la chiesa indicava come l’età massima della terra. Nonostante però questi tentativi di sgambetto Champollion aveva ormai preso il volo; nel 1824, anche per dimostrare la differenza tra il metodo di Young e il suo, pubblicò Précis du système hiéroglyphique des anciens Égyptiens che fu la prima vera trattazione approfondita della decifrazione e della grammatica dei geroglifici. Mise poi mano a una Grammaire égypyienne che sarebbe uscita postuma mentre in tutta Europa, sull’onda della notizia del suo lavoro, si iniziò a provare a leggere la mole di papiri che si aveva a disposizione provando anche a compilare il primo vero dizionario di lingua geroglifica. Nel 1828 per Champollion giunse poi il momento della seconda più grande soddisfazione della sua vita: vedere di persona l’Egitto. Al comando insieme ad Ippolito Rossellini di una spedizione congiunta franco-italiana (o meglio toscana) che su due battelli, Hator e Isis, discese il Nilo fino al Dicembre 1829. La popolazione locale è entusiasta di vedere l’uomo “che sa leggere la scrittura della pietra antica” mentre Champollion è esaltato dal poter finalmente posare gli occhi su quella terra che aveva studiato per tutta la sua vita. La spedizione fu un trionfo e seppur il francese non poté aggiungere al suo palmares anche il successo di uno scavo le scoperte fioccarono: due templi e una necropoli sono trovate a Mit-Rahine, un edificio che sempre Jomard aveva classificato come granaio si scopre essere anch’esso un templio presso Tell-el-Amarna  e infine si giunge proprio dinnanzi al tempio di Dendera. Qui si svolge uno dei momenti più emozionanti della spedizione quando, la notte stessa in cui le due navi giungono presso il tempio, i compagni di Champollion lo supplicano di sbarcare subito ottenendo infine l’assenso. Così, al chiaro di luna, gli scienziati iniziando ad avanzare in una terra sconosciuta spinti innanzi dalla curiosità, ma con la paura dell’ignoto nel buio; infine si giunge davanti al portico del tempio illuminato solo dalla luce delle stelle. Immaginate le ombre delle colonne che si stagliano silenziose nella notte egiziana… uno dei compagni di Champollion parlerà di estasi che si impossessò di tutti loro. Venne acceso un fuoco di erba secca per poter illuminare meglio, ma mentre gli altri membri della spedizione possono solo ammirare attoniti le pietre Champollion le vive; come scriverà Ceram su di lui gli abiti orientali indossati non sono un travestimento  perché egli si muove come un indigeno. Anche qui tante scoperte e non solo decifrazione, ma anche intuizioni brillanti come che il tempio non era dedicato a Iside, come si credeva, bensì a Hathor o che non era “atichissimo” avendo ricevuto il suo assetto definitivo sotto i Tolomei. Il giudizio di Champollion è tagliente “l’architettura è bellissima”, ma è “ricoperto di pessime sculture” e “non potrebbe essere diversamente poiché appartengono ad un’epoca di decadenza.”. Appena tre anni più tardi da questa spedizione un ictus portò via ad appena quarantuno anni il primo uomo che fu in grado di leggere dopo secoli i geroglifici. Dopo la sua morte molti si dedicarono all’opera di demolizione del suo lavoro, ma nel 1866 un altro grande egittologo, Richard Lepsius, trovò il così detto “Decreto di Canopo”, un testo bilingue che confermò definitivamente la validità della tesi di Champollion.

Champollion fu l’alfa dell’egittologia moderna; prima di lui si navigava a vista, dopo si ebbero finalmente le carte nautiche. Tutti da Rossellini a Belzoni, da Lepsius a Carter devono in parte le loro scoperte a Champollion perché senza la possibilità di capire cosa si stava cercando e cosa si era trovato molta della nostra conoscenza attuale dell’antico Egitto non esisterebbe. Pensiamo solo ai rituali religiosi, all’imbalsamazione, al sistema di governo dei faraoni; come potremmo sapere tutte queste cose se non fossimo stati in grado di leggere i papiri, le iscrizioni sugli obelischi e quelle sui templi? Oggi noi abbiamo una visione molto più chiara della natura e della complessità della lingua geroglifica; sappiamo che quella in cui si imbatterono gli studiosi nella stele di Rosetta era una forma molto tarda prodotto di secoli di evoluzione. Per capire pensiamo solo alla distanza che passa tra il nostro italiano moderno e quello primitivo del placito cassinese e poi pensiamo che la storia dell’antico Egitto e della sua lingua si distende per trenta secoli! Champollion non era in grado di intuire una tale evoluzione o quali fossero i passaggi tra il geroglifico, lo ieratico e il demotico né poteva facilmente distinguere, come facciamo noi oggi, tra segni fonetici, segni di parole e segni determinativi. Nonostante ciò però riuscì lo stesso a individuare le basi della grammatica di una lingua scomparsa da più di mille anni e a fornirne una chiave di decifrazione universale; se pensiamo che molte altre lingue antiche, come la lineare A minoica o il Rongorongo dell’isola di Pasqua, rimangono ancora indecifrabili, con pesanti esiti sulla comprensione delle relative civiltà, possiamo comprendere il merito del lavoro di questo proscritto politico e il perché meriti un posto a capotavola nell’Olimpo dell’archeologia.

1 Response
  • Enza Coletta
    27 Settembre 2017

    La prima cosa che penso è che,pur studiando x la magistratura, dovresti iscriverti x una seconda laurea in storia .Complimenti