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I quarantadue giorni che cambiarono l’Europa

Quarantadue giorni, tanto bastò a Parigi per cambiare la Francia e poi alla Francia per cambiare l’Europa. Tra il 10 Agosto al 20 Settembre 1792 la rivoluzione subì un’improvvista accelerazione, al termine della quale quell’intero sistema politico, sociale e culturale che era stato per secoli l’architrave del Vecchio Continente era stato scosso alle fondamenta. Una scossa che fu così devastante che neanche tutta la buona volontà degli stati europei, riunitisi ventiquattro anni dopo a congresso a Vienna, riuscì a porvi rimedio. Come il rifiuto di Lutero di ritrattare nel 1521 segnò la definitiva fine dell’unità cristiana, così lo spudorato ardire con cui i francesi prima deposero il re cristianissimo e poi difesero armi alla mano la loro rivoluzione distrusse oltre cinque secoli di legittimazione delle monarchie europee. Non solo, in quei quarantadue giorni l’Europa ebbe anche il primo assaggio dell’immensa potenza che un nuovo concetto, quello di Patria, poteva scatenare nel cuore degli uomini, ma anche la prima teorizzazione del nemico dello Stato come entità di distruggere per proteggere la Nazione.

La fine della monarchia in Francia non fu il frutto di un’esplosione improvvisa di rabbia popolare, ma il terminale d’arrivo del processo di screditamento della figura di re Luigi XVI a cui si unì la passione dovuta allo scoppio della guerra contro l’Austria e la Prussia. Luigi XVI non era mai stato un monarca particolarmente amato dal paese; indolente, grigio e oggettivamente incompetente fu, come secoli dopo lo sarebbe stato Nicola II Romanov, la persona meno adatta a confrontarsi con il gigantesco sommovimento storico di cui era contemporaneo. A sfavorirlo agli occhi dei francesi era poi la figura della regina Maria Antonietta, odiatissima già prima della rivoluzione, e adesso considerata una centrale d’intelligence nemica installata ai vertici dello Stato. Su Maria Antonietta si sono stesi fiumi di parole ed è giusto così data l’innegabile tragicità della sua figura, degna di un dramma shakespeariano; senza scendere nel particolare, non è questo articolo la sede giusta, il giudizio che ho sempre dato io è che fu una bambinetta viziata buttata da un crudele scherzo della storia in una situazione immensamente più grande di lei. Attenzione però bambinetta viziata non è un’aggettivazione negativa bensì la semplice attestazione di una situazione di fatto. Maria Antonietta passo tutta la sua vita pre-1789 prima nell’ambiente ovattato della corte viennese di sua madre Maria Teresa, che tutti gli storico definiscono senza riserve una chioccia, e poi nello sfarzo di Versailles; i suoi eccessi (amanti, atteggiamenti ambigui con le sue dame, il giocare alle popolane all’Hameau de la Raine a Versailles) così poco sensibili a quella che oggi chiamiamo l’opinione pubblica erano figli di una fondamentale ignoranza del mondo, comune a buona parte dell’aristocrazia europea di fine settecento. Certamente nella coppia reale la regina era l’unica dotata di un po’ di cervello, ma più che intelligenza si dovrebbe parlare di furbizia che, purtroppo, la stessa Maria Antonietta scambiava per astuzia. Dico purtroppo perchè fu proprio la regina a influenzare in maniera disastrosa la condotta del marito sia prima che dopo l’inizio della rivoluzione. Bisogna infatti tenere presente che per tutta la prima fase della rivoluzione, il periodo cioè che va dalla Bastiglia fino al 10 Agosto 1792, il primato era dei moderati, poi detti Foglianti, di cui facevano parte l’alta borghesia e la nobiltà liberale, il cui obiettivo era quello di far transitare la Francia dall’assolutismo a una forma estremamente avanzata di monarchia liberale sul modello inglese. Uomini come La Fayette e Mirabeau non misero mai in discussione l’istituto della monarchia, ma intendevano temperarlo sulla base del pensiero di Voltaire e Montesquieau. La costituzione del 1791, che doveva essere nella volontà dei Foglianti il punto d’arrivo della rivoluzione, era quella di uno stato alto borgese con una monarchia costituzionale che, sebbene non ancora impostata sulla figura di un re che regna, ma non governa come oltre Manica, comunque vedeva questo come ultimo punto d’arrivo. Luigi XVI però, invece di cercare una sponda tra questi moderati per magari trovare un punto di momentaneo compromesso accettabile, sarà sempre ambiguo, se non esplicitamente ostile, non comprendendo che dietro i Foglianti cresceva una schieramento di piccoli borghesi e popolani già convertiti alla democrazia e al superamento dell’istituzione monarchica. Come ha scritto Francois Furet i moderati francesi, come quelli inglesi dopo la guerra civile, scegliendo il rispetto della figura del Re piuttosto che la soluzione di forza del cambio della dinastia (gli Orleanes già scalpitavano) finirono per affossare l’istituzione e screditarsi agli occhi dell’intero paese. Va detto, a parziale scusante di Luigi XVI, che per un individuo educato sin dalla nascita nella convinzione di essere re per diritto divino, accettare una completa esautorazione istituzionale equivaleva a un’eresia e avrebbe forse richiesto un uomo più pronto d’ingegno. Comunque su questa situazione già avvelenata da reciproci sospetti e dal timore di un intervento straniero arrivò “a bomba” il tentativo di fuga della famiglia reale. Organizzata malissimo e condotta ancora peggio, a mio opinione fu già un miracolo che si riuscisse ad arrivare fino a Varennes, la fuga fu un gigantesco suicidio politico che ammazzò definitivamente il prestigio del re e i progetti dei moderati. Sospeso e messo sotto inchiesta Luigi XVI invece di ritirarsi nell’ombra e sperare che la Francia dimenticasse e perdonasse decise di aggiungere suicidio a suicidio sostenendo i fautori della guerra all’Austria. Con la perdita di terreno dei Foglianti stavano infatti emergendo due nuovi gruppi : i Giacobini e soprattutto i Girondini. Il termine Girondini è storicamente scorretto perchè fu adottato solo dopo la rivoluzione per indicare un gruppo che non assunse mai le fisionomie di un club autonomo, alcuni girondini erano iscritti ai giacobini; composto principalmente dalla piccola borghesia di provincia, proveniente soprattutto appunto del dipartimento della Gironda, durante la rivoluzione vennero chiamati Brissotini dal nome di Jean-Pierre Brissot che ne fu il principale leader. Con i Girondini e i Giacobini siamo già al superamento della monarchia in favore di una democrazia repubblicana; a Voltaire e Montesquieau si andava ad aggiungere, con varie gradazioni, Rousseau. I due gruppi, che in seguito si faranno ferocemente la guerra tra loro, in realtà sia da un punto di vista di composizione sociale che d’idee politiche sono molto vicini; a separarli furono principalmente tre temi: la guerra, il decentramento amministrativo e il rapporto con il popolo. Nel 1792 iniziarono infatti ad affermarsi i così detti sanculotti che in realtà non erano altro che il popolo che per la prima volta si dava un’agenda politica autonoma, e in alcuni casi in contrasto, con la borghesia; il Terzo Stato iniziava a spaccarsi al suo interno. Mentre i Giacobini furono a favore di concessioni e videro nei sanculotti un’utile forza d’urto e di difesa della rivoluzione, i Girondini ritennero inevitabile la fine dell’unità tra borghesia e popolo scegliendo la strada di uno stretto legalismo che, con l’aggravarsi dell’emergenza prodotta dalla guerra, li porterà alla rovina. La guerra fu appunto il propellente che portò alla svolta dell’Agosto-Settembre 1792. Vulgata vuole che il conflitto con l’Austria fu voluto dai Girondini, ma questa è una semplificazione già ampiamente smentita da Furet. Certamente i Girondini furono il partito della guerra, da loro voluta come guerra rivoluzionaria per esportare la Costituzione e rimuovere le centrali della controrivoluzione degli espatriati in Germania, ma in realtà fu tutta l’Assemblea legislativa ad essere, chi per un motivo chi per un altro, a favore del conflitto. Lo stesso Robespierre vi era contrario solo perchè giudicava il momento non opportuno, essendo invece primario rimuovere i nemici interni della rivoluzione e temendo una dittatura alla Cromwell di La Fayette ; anche il re era favorevole al conflitto ovviamente nella speranza di essere riportato a Versailles sulle baionette degli invasori. Guerra dunque politica, ideologica, ma non militare dato che il paese non era pronto vista l’inaffidabilità dei comandanti, molti avrebbero disertato per raggiungere gli austro-prussiani alla prima occasione, e l’inesperienza bellica della Guardia nazionale. Il 20 Aprile 1792, dopo la dichiarazione di Pillnitz in cui Francesco II d’Austria e Federico Guglielmo II dichiararono il loro interesse a una restaurazione di Luigi XVI nella pienezza dei suoi poteri, la Francia aprì le ostilità. Sin da subito le cose andarono molto male; i comandanti militari avevano più interesse a tenersi pronti a marciare su Parigi che a entrare in Germania e, come detto, ben presto iniziano le disezioni a favore del nemico. La spaccatura tra i vertici militari e il re da un lato e l’Assemblea legislativa dall’altro si acuì ogni giorno di più e raggiunse il punto di ebollizione quando a Giugno Luigi pose il veto su tre decreti tra i quali la convocazione a Parigi di ventimila volontari da tutta la Francia. Il 20 Giugno i sanculotti circondarono le Tuileries, ma senza azioni violenze, limitandosi a contestare il re che, da par suo, tentò di rabbonire la piazza indossando il berretto frigio e brindando alla nazione. Il sospetto generale di Parigi è già che il re e i moderati siano conniventi con gli invasori al fine di stroncare la svolta democratica della rivoluzione e anche se quel 20 Giugno l’intera manifestazione fu “pacifica”, bastava ormai una scintilla per dare fuoco alle polveri. Intanto però di fronte alle pressioni dei club parigini e dei sanculotti, sempre più dominatori della città, l’Assemblea legislativa decise di sfidare il veto reale invitando i volontari nella capitale per celebrare l’anniversario della presa della Bastiglia. Quando poi anche la Prussia entrò in guerra (6 Luglio) l’Assemblea decide l’11 Luglio di compiere un gesto che, a mio parere, storicamente ha la stessa portata rivoluzionaria della Costituzione e della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino: viene proclamata la Patria in pericolo.

D’improvviso il nazionalismo ha fatto il suo rumoroso ingresso sul palcoscenico della storia apprestandosi a cambiare il destino del mondo per i successivi due secoli. Fino ad allora regni ed eserciti avevano combattuto al servizio delle dinastie regnati i cui interessi si riteneva fossero direttamente interconnessi con quello dello stato. I soldati erano spinti a combattere per il re e, al massimo volendo scendere nel concreto, per difendere le loro case; adesso invece gli si chiede di combattere per difendere la Patria di cui tutti, dal re a più umile, sono dei servitori. I soldati austro-prussiani combattono perchè così gli è ordinato, quelli francesi perchè è loro dovere difendere la Nazione e la rivoluzione. Si tratta di un mutamento radicale dal punto di vista ideologico e politico; fino ad allora il re era il vertice e l’incarnazione dello Stato, adesso invece lo Stato è la Nazione cioè la comunità del popolo che esprime la sua volontà sovrana attraverso i suoi rappresentanti. Questo nuovo modo di vedere la realtà è ben esemplificato da un canto, che un capitano del genio aveva composto per l’armata del Reno, intonato dai volontari marsigliesi che giunsero a Parigi il 30 Luglio. Secondo me è utile confrontare la Marsigliese con la sua controparte inglese, God save the Queen, scritta meno di cinquant’anni prima in una situazione simile cioè quando la rivolta giacobita minacciava il frutto della Gloriosa rivoluzione britannica. Nell’inno inglese si prega Dio di ergersi a protettore della monarchia, disperdendone i nemici, così che il re possa governare sul Regno e difenderne le leggi; è evidente come si avverta un legame diretto tra il monarca e lo Stato e dunque l’idea che difendendo l’uno si difenda ovviamente anche l’altro. Vediamo invece la Marsigliese: essa intanto inizia con “Allons enfants de la Patrie” (Avanti figli della patria) e quindi siamo già in un sistema di valori completamente diverso perchè non sono più i sudditi a pregare per il loro re, ma i patrioti chiamati dalla Nazione; anche nell’indicazione del nemico la distanza è immensa perchè per gli inglesi il nemico è chiunque sia il nemico del re, invece per i francesi “Contre nous de la tyrannie, l’étendard sanglant est levé” il nemico quindi è di tutto il popolo ed in primo luogo ideologico: la tirannia che minaccia la Patria e la libertà acquisita con la rivoluzione. Il canto francese giunge poi all’appello finale “Aux armes, citoyens” con cui si chiamano alle armi non i sudditi, ma i cittadini cioè tutti coloro che, appartenendo alla comunità nazionale, hanno il dovere di difendere il paese. E qui siamo all’altra grande innovazione, in questo caso di ordine giuridico-sociale, che la rivoluzione produce: si recupera il concetto di cittadino così com’era stato inteso dalla res publica romana. A Roma, ma anche ad Atene, il cives era quell’individuo titolare di diritti derivantigli da questa condizione (poter concorrere alle cariche pubbliche ed essere soggetti allo ius), ma tenuto anche a dei doveri primo tra i quali prestare il proprio servizio militare per il senato e per il popolo di Roma. Non a caso un romano poteva accedere al cursus honorum solo dopo essere stato nell’esercito. Con la trasformazione in senso autoritario dell’Impero e il passaggio al Medioevo il concetto di cives scompare sostituito dal nuovo ordinamento feudale, dove ogni individuo è tenuto a una data serie di obblighi in forza di un giuramento al proprio signore, ricevendo in cambio da questi delle garanzie a seconda del rango; neanche i comuni recupereranno il concetto di cives nella sua pienezza in quando la comunità non era unitaria, ma divisa al suo interno in ordini sociali con differenti diritti (nobili, cittadini, popolo). La costituzione del 1791 invece riconobbe il libero citoyens come indistintamente ogni maschio maggiorenne appartenente alla comunità nazionale, con l’unico limite di un censo minimo di tre giornate lavorative per i diritti politici, e a tale riconoscimento fa seguito la garanzia di eguali diritti davanti alla legge, non a caso si parla di Dichiarazione dei diritti dell’uomo E del cittadino, ma comporterà anche, nell’ora del pericolo, il dovere di difendere la Patria. Nazione, cittadino, la Francia del 1792 si avviava a scuotere ideologicamente e culturalmente il resto dell’Europa; è una rivoluzione copernicana culturale come, lo ripeto, non se ne vedeva dai tempi della riforma, quando Lutero aveva liberato le coscienze obbligando una parte del vecchio continente ad entrare in rapporto diretto con Dio. Torneremo a breve sul ruolo del citoyens in relazione alla diversità strutturale degli eserciti che si stavano per andare a scontrare, ma per ora riprendiamo il filo degli eventi.

Dunque eravamo rimasti agli ultimi giorni del Luglio 1792 quando su Parigi iniziarono a convergere i volontari, o federati come li chiama Furet, provenienti dalla provincia. Il loro arrivo eccita gli animi di una città già nervosa per il pericoloso connubio di esplosione nazionalistica e paura di possibili “nemici interni” che facciano il gioco degli invasori. I sospettati non sono difficili da individuare: la famiglia reale, i comandanti militari e i moderati. L’Assemblea legislativa è paralizzata tra il malcelato desiderio di reimporre l’ordine e il timore di uno scatenarsi della piazza soprattutto dopo che i Girondini, tornati all’opposizione, hanno fatto fronte comune con i Giacobini per denunciare il modo in cui viene gestita la guerra. Come detto serve ormai solo una scintilla per incendiare la situazione e questa, puntualmente, arriva il 1° Agosto quando si diffonde in città il durissimo proclama del duca di Brunswick, comandante delle forze austro-prussiane. Il generale prussiano minaccia infatti la città e la sua popolazione di vendetta nel caso fosse stata recata la ben che minima offesa alla persona del re e della sua famiglia. Chi conosce Parigi sa che questa è una città orgogliosa, non disposta a farsi mettere i piedi in testa da nessuno né dal resto della Francia né da potenze straniere; nei piani del Duca di Brunswick il proclama doveva avere l’effetto di spaventare i parigini, invece venne avvertito da questi come una sfida a cui si dimostrarono pronti a rispondere. Sanculotti e borghesi democratici presero il controllo delle sezioni parigini invocando misure d’emergenza; non è qualcosa di organizzato infatti tanto i Giacobini che i Girondini sono presi in contropiede e mentre i primi scelgono di lasciarsi trascinare, i secondo tentano di frenare la valanga cercando una soluzione politica. Per le manovre d’Assemblea è però troppo tardi perchè la notte tra il 9 e il 10 Agosto le capane a martello chiamano a raccolta la popolazione e i volontari di provincia; i capi delle sezioni si riuniscono all’Hotel de Ville dove scacciano la vecchia municipalità e assumo il controllo della città proclamando la Comune insurrezionale. Contemporaneamente due colonne di sanculotti, molti provenienti dai faubourgs (i sobborghi poveri) della città, avanzano i direzione delle Tuileries supportati dai volontari di Marsiglia e Brest; in tutto quasi 25.000 uomini in armi guidati dal birraio Santerre che marciano contro la sede del potere regale. In un primo momento Luigi XVI ostenta calma, ma resosi conto delle dimensioni dell’insurrezione e constatando che la guardia nazionale non sembra intenzionata a sparare sui parigini per difendere il palazzo, decide di fuggire con la famiglia nella sala del Maneggio per mettersi sotto la protezione dell’Assemblea legislativa. A difendere le Tuileries resta così solo un manipoli di svizzeri della guardia reale e un gruppo raccogliticcio di gentiluomini di corte armati alla bene meglio; si accende ben presto una battaglia che ha conclusione quando i sanculotti di Sainte-Marguerite giungono per stroncare la resistenza degli svizzeri che in gran parte saranno massacrati. Eliminata la resistenza gli insorti si riversano nell’Assemblea legislativa che, sotto la minaccia delle picche sanculotte, è obbligata a votare la decadenza del re, che tre giorni dopo sarà arrestato, e la convocazione di un Convenzione nazionale per discutere una nuova Costituzione. In meno di ventiquattr’ore una delle più antiche monarchie d’Europa è stata spazzata via e il controllo della rivoluzione è passato nelle mani dei borghesi democratici mettendo fine così al programma dei Foglianti per una monarchia costituzionale. Come ha osservato Furet la giornata del 10 Agosto non fu l’iniziativa della feccia del popolo, gran parte dei morti di parte insorta sono volontari di provincia provenienti dalla piccola borghesia mentre tra i parigini per lo più si trattava di bottegai e artigiani. L’assalto alle Tuileries si può allora spiegare come l’esplosione di una rabbia a lungo covata contro la persona del re, ormai screditato agli occhi della popolazione, unita con la psicosi generata dal cattivo andamento della guerra. Più interessante è invece notare che ancora una volta, dopo la presa della Bastiglia e la marcia su Versailles, è il popolo di Parigi a imporre all’intero paese una svolta nell’andamento della rivoluzione, ciò a riprova dell’affermazione di Umberto Eco che, dall’inizio alla fine, fu la capitale francese il motore del processo rivoluzionario. La prima conseguenza della giornata del 10 Agosto fu la di fatto esautorazione dell’Assemblea legislativa in favore della Comune insurrezionale il cui Consiglio generale, dopo una rapida elezione dei suoi duecento membri, assunse il controllo del paese dichiarandosi legittimata ad assumere “tutte le misure straordinarie cui la necessità e la resistenza all’oppressione l’hanno costretta”. Si tratta di un Consiglio generale in maggioranza di sanculotti guidato da un’elité borghese democratica con a capo Robespierre e Huguenin. Alcuni autori come Alistair Horne, nell’atto di tracciare i confini di questa prima Comune in rapporto con quella del 1871, hanno osservato come essa fu il trionfo della capitale sulla provincia in quanto un organismo parigino di parigini, nato ufficialmente per esercitare il potere amministrativo cittadino, si assunse l’onere di guidare l’intero paese nell’ora dell’emergenza. Ad approfittare dell’improvviso vuoto di potere furono i Girondini che tornarono protagonisti del momento politico, forti di oltre 200 deputati in quel restava dell’Assemblea legislativa, e ne approfittarono per dominare i due nuovi organi esecuti creati: la commissione dei dodici e il consiglio esecutivo. Evento fondamentale nel ruolo di responsabile della giustizia per il consiglio esecutivo venne scelto Georges Jacques Danton, in breve egli diventerà la guida del paese per la resistenza ad oltranza e il superamento delle divisioni di partito in favore dell’unità contro il nemico straniero. Altra, e di più ampia portata storica, conseguenza del 10 Agosto è l’inzio del Terrore dell’Agosto-Settembre 1792 provocato dal diffondersi in tutto il paese del panico per le voci di una grande cospirazione aristocratica contro-rivoluzionaria. Nei secoli precedenti era stato evento comune che le rivolte di popolo portassero a massacri indiscriminati di gruppi sociali, o etnici nel caso degli ebrei, ma mai era avvenuto che lo Stato legalizzasse il terrorismo al fine di eliminare una nuova forma di criminale: il nemico della Nazione. Le monarchie avevano esercitato il potere repressivo d’emergenza, ma non gli avevano mai dato forma legale ritenendo di averne una legittimazione in re ipsa (ad esempio restando alla Francia la notte di san Bartolomeo); con la rivoluzione francese si andò invece a una forma giuridica della repressione terroristica prevedendo precisi meccanismi e organi demandati ad esercitarla nel nome della Nazione. Sinceramente fatico a trovare un precedente nella storia di un’entità statale che legalizza la repressione del dissenso interno fondando la sua autorità sul principio della rappresentanza del popolo; riflettendo mi viene in mente esclusivamente la Roma Repubblicana con i casi estremi del senatus consultum ultimum o delle liste di proscrizione. Secondo Furet fu il massacro indiscriminato degli svizzeri alle Tuileries ad opera della folla a convincere il Consiglio generale della necessità di organizzare una repressione legale “La vendetta popolare deve finire là dove comincia l’azione degli agenti della Nazione.” dirà un deputato giacobino. Già l’11 Agosto le municipalità sono autorizzata per decreto a effettuare indagini di polizia e a Parigi sono le sezioni cittadine stesse a creare organismi di sorveglianza. Il 14 Agosto venne imposto a tutti i funzionari e a coloro che vogliano usare i loro diritti civili un giuramento “alla libertà e all’eguaglianza”. Infine, su proposta di Danton, il 17 Agosto venne creato un tribunale straordinario i cui giudici sono eletti dalle sezioni cittadine. Il primo Terrore colpisce già nei giorni successivi alle Tuileries oltre cinquecento persone in particolare giornalisti, foglianti e dipendenti di casa reale. Soprattutto è però il clero, contro cui c’è una comunanza d’odio tra Giacobini e Girondini, ad essere messo sotto pressione dal potere statale; ai preti viene esteso in toto l’obbligo di giuramento e ai refrattari Parigi rifiutato il passaporto d’espatrio. Sono i prodromi del processo di scristianizzazione che di lì a poco entrerà nell’agenda della rivoluzione democratica; per ora ci si limita a chiudere gli ultimi conventi, sopprimere gli ordini religiosi, vietare le processioni pubbliche e togliere le campane dalle chiese, ma la creazione di una religione laica di stato è già dietro l’angolo. Questo primo accenno di Terrore comunque non è niente rispetto a ciò che si stava per scatenare a Parigi sull’onda del panico per il peggioramento della situazione militare. Il 19 Agosto infatti l’armata austro-prussiana del Duca di Brunswick, forte di 80.000 uomini, entra in Francia e già il giorno dopo assedia Longwy; la città cade dopo soli tre giorni per volontà della popolazione atterrita dai bombardamenti. A contrastare l’invasione ci sono solo ventimila uomini di Dumouriez a Sedan e altri quindicimila di Luckner in Lorena, ma c’è anche la potenze fortezza di Verdun, uno dei capolavori di Vauban, il cui comandante Beaurepaire è intenzionato a tenere la posizione. Giusto però per corroborare le fobie da complotto del paese nella sera tra il 1° e il 2 Settembre Beaurepaire viene assassinato nel suo ufficio e gli invasori possono entrare a Verdun senza colpo ferire; la strada per Parigi è spalancata. Nella capitale presa dal panico è Danton a imporre la linea dell’unità a fronte del riacutizzarsi della rivalità tra Giacobini e Girondini. Il giudizio storico sul grande tribuno della rivoluzione non è esente da critiche, ma oggettivamente nessuno può negargli il titolo di salvatore della Patria; di fronte infatti al diffondersi del panico e degli odi di partito Danton mantenne il sangue freddo e fece varare una serie di decreti d’urgenza per la difesa di Parigi. Il più importante di questi decreti fu l’ordine di coscrizione per trentamila uomini tra la città e i dintorni eseguito da una serie di commissari speciali scelti personalmente da Danton stesso. “Tutti si agitano, tutti si scuotono, tutti bruciano dal desiderio di combattere (…) I rintocchi della campana a martello non saranno un segnale d’allarme, ma la carica contro i nemici della Patria. Per vincere, signori, dobbiamo essere audaci, ancora audaci, sempre audaci, e la Francia sarà salava.” ecco il celebre discorso, pronunciato subito dopo la notizia della caduta di Verdun, con cui Danton chiama alla armi il paese intero, si sente al suo interno tutta la carica nuova della retorica nazionalista. Basta paragonare queste parole con la solennità ad esempio del già citati proclama del Duca di Brunswick ai parigini (o per restare in tema di invasioni al discorso di Elisabetta I a Tilbury in occasione dell’avvicinarsi dell’Invincibile armata) per avvertire la differenza di mentalità che ormai c’è tra la Francia e il resto dell’Europa; le frasi di Danton potrebbero essere messe in bocca a un qualsiasi leader delle due guerre mondiali senza in  alcun modo stonare nonostante i quasi centocinquant’anni di differenza. L’appello accende i cuori e scalda gli animi; meno di due ore dopo la sua pronuncia le campane a martello e i tamburi chiamano i parigini al campo di Marte per procedere all’arruolamento disposto dalla Comune di altri sessantamila uomini. Il clima però di estasi patriottica, unito con la perdurante psicosi del complotto, determinerà anche l’esplosione finale della violenza repressiva contro i sospetti nemici della Nazione; siamo ai massacri di Settembre. Vittime saranno indistintamente i prigionieri delle carceri parigine prese d’assalto dalla folla; ai Carmelitani, a La Force e a Chatelet vengono allestiti tribunali del popolo che irrogano sentenze di morte immediatamente eseguite. Gli eccidi dureranno per quasi cinque giorni e i morti oscilleranno tra i millecento e i millequattrocento (per fare un confronto la notte di San Bartolomeo farà a Parigi circa duemila morti, mentre la repressione della Comune del 1871 tra i venti e i trentamila); colpiti saranno soprattutto criminali comuni, di cui le carceri erano piene e che stampavano lì assegni falsi, e i preti refrattari perchè si era diffusa la notizia che, quando Verdun era caduta, membri emigrati del clero avevano accompagnato le truppe austro-prussiane nel loro ingresso in città. Ancora una volta Furet ci tiene a mettere in evidenza come i massacri di settembre non furono il frutto dell’azione di teppisteria da strada che colse l’occasione per dare sfogo alle sue pulsioni, ma furono condotti dagli stessi elementi sociali che condussero l’assalto alle Tuileries quindi sanculotti, piccolo borghesi e federati della provincia. Ciò che invece voglio mettere in evidenza io è ancora una volta il tentativo di dare ai massacri una parvenza di legalità; la folla non si limitò a entrare nelle carceri per trucidare i presenti, ma decise di costituire dei tribunali per emettere delle sentenze che dessero un’ufficialità giudiziaria all’intera azione. Secondo me si tratta delle estreme conseguenze della teorizzazione del concetto di Nazione: facendo derivare l’autorità dello Stato dalla volontà del popolo, senza delimitare dei limiti all’arbitrio di questa volontà, la conseguenza fu l’idea che il popolo nel momento del pericolo potesse impadronirsi del potere giudiziario per eliminare i suoi nemici in quanto i nemici del popolo sono anche i nemici della Patria (anzi i due concetti divengono sinonimi). Senza nascondersi dietro a un dito questo è il primo abbozzo teorico di quelli che saranno, con i dovuti innesti ideologici, i sistemi giudiziari dei regimi totalitari; nessun totalitarismo del novecento procedette all’eliminazione dell’opposizione senza fondare il tutto su una base legale (Tribunale speciale per la difesa dello stato, Volksgerichtshof, CEKA/NKVD). Qualcuno ha cercato di individuare gli istigatori dei massacri nei giornali, soprattutto quelli più barricaderi come L’ami du peuple di Marat o l’Orateuar du peauple di Freron, che da mesi parlavano dei “cospiratori” detenuti delle prigioni. Ancora una volta però è Furet a smentire questa tesi riconducendo invece il tutto alla psicologia delle masse parigine le quali, sicuramente eccitate da questi articoli incendiari, vivevano ormai da più di un mese nel terrore di trovarsi il nemico alle porte; lo storico francese fa poi anche notare che i massacri avvennero quando i volontari stavano per lasciare la città e ipotizza che in questi soggetti sia anche emerso il timore di lasciare le famiglie “indifese” contro i nemici interni. Neanche i leader rivoluzionari ebbero un qualche ruolo organizzativo o esecutivo nei massacri e, a fatti compiuti, alcuni come Robespierre li giustificheranno esplicitamente, con discorsi che di fatto anticipano la tesi di Mao che la rivoluzione non è un pranzo di gala, altri come Danton e i Girondini invece preferiranno passare oltre fingendo che non sia successo niente (lapidaria in questo senso la frase del girondino Roland “Ieri fu un giorno di avvenimenti su cui probabilmente bisognerà stendere un velo”). Il sentimento generale comunque nell’immediato, tanto degli uomini quanto delle istituzioni, fu generalmente di imbarazzo per il modo in cui lo Stato aveva subito l’iniziativa della piazza; Furet però parla anche di un “codardo sollievo” per il fatto che in un modo o nell’altro si eliminò alla radice una delle cause del timore della cospirazione interna. Prima però di scegliere per una condanna senza appello di ciò che avvenne invito come sempre a lasciare da parte le categorie morali di bene/male e pensare al contesto; il massacro degli svizzeri e quello dei prigionieri furono spaventosi, ma la Francia era sotto assedio e il clima a Parigi era di “o loro o noi”. Non intendo giustificare, perchè non c’è da giustificare nella storia bensì da capire e spiegare, e sicuramente fu grave l’incapacità delle istituzioni di imporsi sull’isteria collettiva, ma altrettanto grave fu il comportamento di un re che uccise ogni speranza di una soluzione moderata della rivoluzione, né bisogna dimenticare che a marciare a fianco degli invasori vi erano colonne di aristocratici emigrati bramosi di vendetta. Comunque con il passare dei giorni e il ritorno della calma iniziò progressivamente a montare la condanna ai massacri, e più in generale contro il primo Terrore, da parte di tutti gli strati della popolazione; ad approfittarne furono i Girondini che premettero per la fine degli arbitri e il ritorno alla legalità tanto giudiziaria quanto istituzionale. Significativo di questo nuovo clima fu lo scioglimento della Comune inssurezionale il 19 Settembre con il passaggio dei pieni poteri alla Convenzione nazionale che entrò in carica il giorno dopo. Quello stesso 20 Settembre un altro evento, forse il più insperato, contribuì a ricondurre il paese a un minimo d’ordine: l’arginamento dell’invasione.

Spesse si dice che Valmy fu una battaglia da operetta o una finta battaglia; in realtà sotto molti punti di vista fu un evento di rottura della storia militare europea perchè segnò la nascita di un nuovo tipo d’esercito nonchè l’affermarsi dell’artiglieria come arma decisiva per l’esito degli scontri. Andiamo però con ordine; dopo l’uscita di scena di La Fayette a seguito della giornata del 10 Agosto, al comando dell’Armata del Nord giunse il generale Dumouriez che, di fronte all’avanzata del Brunswick, dovette soprassedere al suo piano d’invasione del Belgio per porsi sulla difensiva presso la foresta delle Argonne, che grazie all’impervietà del terreno è da sempre una delle migliori posizioni difensive sul suolo francese. Il 14 Settembre un distaccamento prussiano riuscì a forzare il passo della Croix-au-Bois costringendo Dumnouritz a ripiegare su Sainte-Menehould dove venne raggiunto dai rinforzi del generale Kellerman, portando gli effettivi francersi a circa quarantamila uomini tra regolari e volontari della Guardia Nazionale. Questi ultimi erano veri e propri cittadini in armi cioè gente comune a cui veniva dato un fucile, un’uniforme e, dopo un addestramento alla bene meglio, spedita al fronte facendo affidamento più sull’entusiasmo che sulla tecnica. Questo uso dei volontari era un’autentica novità dal punto di vista militare perchè è vero che già durante la rivoluzione americana c’era stato un largo uso dei minuteman, ma queste erano delle bande di miliziani irregolari mentre la Guardia Nazionale si andò sempre più inquadrando come un corpo militare a tutti gli effetti. Tecnicamente non erano propriamente dei coscritti in quanto coscrizione obbligatoria sarebbe stata introdotta solo ad Ottobre, seguita nel 1793 dalla Levée en masse, ma con  l’invio in prima linea della Giardia Nazionale si iniziava a superare il sistema d’organizzazione militare, vigente in Europa dal Medioevo, fondato sugli eserciti mercenari nei quali il servizio era legato non a un dovere patriottico bensì al pagamento del soldo o alla facoltà di rivalersi sulle terre conquistate. A quell’epoca in Europa faceva eccezione solo la Prussia dove dal 1704 era in vigore un primitivo sistema di coscrizione su base nazionale con l’obbligo di addestrarsi per un certo periodo dell’anno e l’onere per ogni circoscrizione di fornire un reggimento; il sistema prussiano, che sarebbe stato alle basi del formidabile esercito tedesco dell’800-900, comunque si fondava sull’inserimento del suddito militarizzato all’interno dell’esercito  e quindi era comunque altro rispetto all’idea di borghese in armi all’interno prima di un corpo separato e poi dell’esercito regolare. Era, e non mi stancherò mai di ripeterlo, un’ennesima conseguenza dell’emergere delle idee di Nazione e di citoyens; la Francia recuperava il collegamento tra le virtù civili e le virtù militari già presente nelle Polis greche e nella Res Publica romana, ma ne modifica l’ordine perchè se a Roma si era cives perchè si aveva prestato servizio, in Francia si è citoyens dunque se è tenuti a prestare servizio. Il servizio militare assunse così un valore anche simbolico di un certo concetto di rapporto cittadino-stato; tenendo conto di ciò non è un caso che la Francia era ancora nel 1998 uno dei paesi europei ad avere la leva obbligatoria. Comunque le prime prove del nuovo esercito della Francia rivoluzionaria non erano state eccellenti, diserzioni di massa d’ufficiali e città cadute senza resistenza, e forse fu questa sensazione di una forza militare allo sbando a convincere gli emigrati e il re di Prussia a fare pressioni sul Brunswick a rovesciare il fronte, dando le spalle a Parigi, per dare battaglia. Probabilmente a spingere re Federico Guglielmo II a chiedere al suo generale di infliggere un colpo decisivo alla rivoluzione vi era anche la necessità di disimpegnarsi rapidamente da quel fronte per poter inviare truppe ad oriente, nel 1793 infatti Prussia e Russia avevano concluso la seconda spartizione della Polonia e c’era bisogno di truppe per prendere possesso dei nuovi territori. Il 20 Settembre quasi quarantamila soldati della coalizione si avvicinarono alle linee francesi schierate tra Sainte-Ménehould e Valmy; dal loro posto di comando presso il celebre mulino a vento Kellerman e Dumouriez ordinarono ai cannoni di aprire un fuoco di sbarramento contro il nemico. L’artiglieria francese in quel momento era forse una delle migliori d’Europa perchè già stata oggetto prima della rivoluzione di un ampio lavoro d’ammodernamento e ristrutturazione ad opera del generale Gribeauval; non deve essere considerato un caso che proprio da quest’arma, la più giovane e moderna, sarebbe di lì a poco emersa la figura di Napoleone Bonaparte. Per un paio di ore i due eserciti si scambiarono un vivace fuoco di batteria e, cosa che dovette sorprendere i comandanti alleati, i volontari della Guardia nazionale in prima linea ressero alla prova del fuoco. Verso l’una Brunswick, preso atto di non poter sfondare le difese francesi coi soli cannoni, decise di avanzare e ordinò a due colonne di attaccare. L’artiglieria francese cessò momentaneamente il fuoco, rimanendo in attesa del nemico, mentre Kellerman si portava in prima linea per arringare le truppe e poi guidarle all’assalto alla baionetta al grido “Viva la Nazione!”. Cantando Ca Ira i francesi avanzano mentre la loro artiglieria ripresd a sparare raddoppiando il fuoco contro le colonne nemiche che, soprese, sembrarono vacillare; lo stesso Brumswick parve preso in contropiede dalla determinazione nemica e decise di sospendere l’attacco. Ricominciò così il duello delle artiglierie che cesserà solo in serata quando il generale prussiano, dopo un secondo tentativo d’attacco abortito sul nascere, decise di ordinare la ritirata. In tutto meno di cinquecento uomini erano morti, circa trecento per parte francese e meno di duecento per parte alleata, e non era stata messa in campo alcuna accortezza tattica né tentata una manovra particolarmente brillante. Tutto ciò però come già detto non deve avallare la tesi della finta battaglia perchè la vittoria francese fu figlia di due elementi nuovi e di grande rilievo per l’avvenire della storia militare: in primo luogo il peso decisivo dell’artiglieria che iniziava a non essere più una semplice forza d’appoggio alla fanteria, ma un’arma in grado, se manovrata in un certo modo, di decidere il corso di una battaglia inchiodando sulle sue posizioni un nemico numericamente superiore. In secondo luogo gli austro-prussiani, va detto destabilizzati da un’epidemia di dissenteria, non si aspettavano di vedere una tale determinazione in una forza composta in parte da soldati non professionisti; la scommessa francese della Nazione in armi era risultata vincente perchè quello che non poteva essere dato dall’esperienza veniva supplito col morale, sicuramente altissimo in quei volontari ardenti d’amor di patria. Su questi due elementi, artiglieria e Nazione in armi, Napoleone avrebbe costruito la sua Grande Armata. Per intanto però l’invasione era stata fermata offrendo non solo un’iniezione di fiducia all’intero paese, ma anche creando perplessità nel resto del continente per l’inaspettata capacità di resistenza che la rivoluzione dimostrava. La celebre frase di Gothe “Da questo luogo e da questo giorno ha inizio un’era nuova nella storia del mondo”, seppur in realtà pronunciata molto dopo Valmy, rappresenta la concreta presa d’atto da parte dell’intellighenzia europea che ciò che stava avvenendo in Francia non era un fatto momentaneo i cui effetti si sarebbero esauriti in un paio di mesi.

Il giorno dopo Valmy la Convenzione nazionale decise per lo strappo definitivo, la sfida ultima a quello che ormai veniva chiamato l’Ancien Régime: venne proclamata, seppur furtivamente e quasi con timore,  la Repubblica. Si conclusero così i quarantadue giorni che cambiarono l’Europa. Dopo questi quasi due mesi il Vecchio continente non fu più lo stesso e la rivoluzione, da un semplice caos interno francese, divenne un incendio che travolse tutto e tutto. Sarebbe poi venuta la ghigliottina, il Terrore, la prima Costituzione autenticamente democratica, il Termidoro e infine un generale corso; così quando nel 1815 si alzò la testa per vedere ciò che restava ci si rese conto che un intero mondo era scomparso. Confidando nelle baionette le potenze riunitesi a Vienna tentarono di riesumare un cadavere facendo finta che non fosse successo niente, che si potesse riportare l’orologio alla notte del 13 Luglio 1789… non sarebbe durata neanche cinque anni la finzione: l’Italia divenne una polveriera e già nel 1830 la Francia cambiava re mentre il Belgio si proclamava indipendente e costituzionale. Infine venne il ’48 e si decise di smetterla di far tentare di innestare la retromarcia alla storia.  La verità è che in quei quarantadue giorni era nata una nuova Europa e nei giorni che sarebbero ancora venuti avrebbero preso forza nuove idee e nuove passioni in grado di  segnar, nel bene e nel male, un secolo e mezzo di storia fino al grande suicidio delle due guerre mondiali.

Bibliografia:

  • Francois Furet e Denis Richet, La Rivoluzione francese – Tomo primo
2 Responses
  • Enza Coletta
    17 Giugno 2017

    Semplicemente CHAPEAU! !!! Per me comunque Buona conoscitrice di storia tante notizie,considerazioni ed approfondimenti sono stati utilissimi

  • marco
    18 Giugno 2017

    Sintesi chiara e completa dei fatti e dei significati storici e metastorici che fanno di quei 42 giorni una rappresentazione credibile e determinante della direzione che avrebbero preso i principali cambiamenti e le svolte rivoluzionarie in Europa. conducendo una realtà storica politica sociale con lo sviluppo dell’ideologia a mutare in toto i concetti di nazione patria popolo, monarchia e governo.. di rivoluzione in rivoluzione, di guerra in guerra dal particolare, all’universale delle guerre mondiali e della rivoluzione complessiva del proletariato in Russia.. saremmo arrivati sino alla nascita delle costituzioni contemporanee e della democrazia nei suoi limiti.
    la Francia era indubbiamente avanti ai suoi tempi, pur nel terrore getta semi fecondi per il futuro, pur nella retorica dell’ideologia getta i presupposti più evidenti per l’imporsi delle ideologie compiute del secolo scorso… pur decapitando la tradizione universale di stato re e chiesa permette la rinascita della nuova patria costituita da cittadini, tutti senza eccezioni, sanculotti in testa. sempre utile rileggere e ripensare questi avvenimenti.

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