Di Carlo Bonaccorso
L’Ottocento fu un secolo pieno di rivendicazioni. Le conseguenze di quella che venne definita come “seconda Rivoluzione Industriale”, cambiarono le visioni della società che fino a quel momento sembravano impossibili anche solo da discutere. In particolare ci riferiamo alla Questione Sociale, ovvero l’emancipazione di quelle classi sociali vittime di un processo di industrializzazione sfrenato, che subirono il desiderio di profitto dei padroni, subendo ogni tipo di ingiustizia. Paghe misere, condizioni lavorative terribili, creazione di veri e propri ghetti operai, tutto ciò riduceva la classe operaia ad una vita misera e servile. Fu l’interesse mostrato dalle classi dirigenti, spinte a risolvere il problema della delinquenza che popolava i quartieri poveri ma soprattutto, la creazione di associazioni operaie a difesa della classe proletaria sostenute da quei teorici e letterati che sotto l’ideale socialista, sostenevano la rivendicazione di maggiori diritti per i lavoratori e l’abbattimento delle classi sociali, a far nascere la Questione Sociale. La seconda metà dell’Ottocento si contraddistinse per un progressivo sviluppo. Il vecchio continente fu protagonista di uno sviluppo industriale massiccio; nuove scoperte tecnologiche, miglioramenti nel campo dei trasporti, innovazioni mediche, ma soprattutto furono gettate le basi del capitalismo. I paesi europei gareggiavano per il possesso delle colonie, l’industria creò quel profitto che arricchiva i proprietari, profitto però che veniva dal duro lavoro della classe operaia, formatasi di conseguenza. Questa classe, composta principalmente da gente proveniente dalle campagne, vittime di un progressivo cambiamento del settore agricolo, anch’esso maggiormente meccanizzato e di stampo sempre più capitalistico. Ovviamente, non in tutti i paesi europei lo sviluppo fu uguale, tuttavia sempre più stati puntavano ad entrare in quel sistema economico. Il desiderio di migliorare le proprie condizioni spingeva masse di persone dalle campagne alla città, ingrandendo il numero degli abitanti e incentivando la costruzione di case, spesso poco sicure (si costruiva dove c’era spazio, in maniera del tutto incontrollata). La Londra di quegli anni è un chiaro esempio di tutto ciò. Una città grigia, sovrappopolata, priva di romanticismo. La formazione di un proletariato fortemente penalizzato dal sistema capitalistico, lo portò ad autorganizzarsi, creando così associazioni mutualistiche e cooperative. Se in alcuni paesi, il settore agricolo protese la mano al capitalismo, in altri come l’Italia, l’agricoltura rimase ancorata a modelli pre ottocenteschi, come ad esempio nell’Italia Meridionale o nei paesi dell’Europa Orientale. Bisogna qui fare una considerazione: prendendo come esempio il giovane Regno d’Italia, qui la scelta di valorizzare il settore industriale, principalmente nel Nord del paese, provocò un dislivello tra Settentrione e Meridione. Essendo quest’ultimo, profondamente agricolo, fu in qualche modo sacrificato. Non devono stupire dunque, le numerose iniziative di protesta da parte dei contadini, (soprattutto con i Fasci dei Lavoratori) che, guidati da quegli ideali formatisi in difesa della classe lavoratrice (socialismo e successivamente comunismo), cercarono di ottenere migliori condizioni di lavoro e sviluppo. I grossi flussi migratori verso gli Stati Uniti e il Sudamerica da parte delle popolazioni meridionali, furono conseguenza di una richiesta mai ascoltata. Il miglioramento dei trasporti transoceanici, incentivò lo spostamento di persone verso luoghi più fecondi.
La condizione delle classe disagiate spinse diversi pensatori a elaborare dottrine che furono alla base del pensiero socialista. Già nei secoli precedenti, uomini come Tommaso Campanella (1568 – 1639), scrivevano di società ideali prive di ricchi e poveri in quanto ispirate alla comunanza dei beni. Tuttavia il socialismo si formò, in quanto dottrina, con la rivoluzione industriale e con il conseguente peggioramento delle condizioni delle classi disagiate. Un Socialismo, quello iniziale, definito “utopistico” da Karl Marx in quanto privo di reali proposte, fautore di idee che poco si confacevano alla realtà del tempo; i suoi esponenti erano soprattutto sostenitori di una riduzione dei poteri dello Stato, decentralizzando i poteri, non sostenevano l’abbattimento della proprietà privata ma piuttosto ne rivendicavano l’accesso a tutte le classi. Robert Owen in Inghilterra e Saint Simon in Francia furono tra gli esponenti maggiori di quel socialismo che tra gli anni ’48 e ’70 dell’Ottocento, si sviluppò intensamente in Europa Centrale. Contemporaneamente, anche l’anarchismo sviluppava le proprie basi grazie al pensiero di Proudhon e Bakunin. Ma sarà lo sviluppo della teoria marxista a scindere definitivamente il socialismo dal comunismo, o meglio ancora il socialismo utopistico da quello scientifico. Accomunati unicamente dall’anticapitalismo in quanto causa delle disgrazie della classe proletaria, il comunismo potrebbe essere identificato in quel socialismo rivoluzionario che da sempre escludeva l’aspetto riformista, in favore di una rivoluzione proletaria in grado di abbattere il sistema borghese nello stesso modo in cui quest’ultimo fece con l’ancien régime. Il riformismo, invece, mirava ad intervenire lì dove il danno non era irreparabile, riformando appunto ciò che per loro era sbagliato, ma accettando di fatto, il sistema politico – economico capitalista. In seguito tale corrente verrà chiamata socialdemocrazia. Fondando il proprio pensiero sul materialismo storico, Karl Marx mise in discussione tutto un sistema, applicando una analisi quanto più possibile reale degli avvenimenti (materialistica appunto), in funzione di una sua completa distruzione tramite la rivoluzione. Modificare i rapporti materiali (struttura) per cambiare le idee civili e morali (sovrastruttura) e dare alla classe proletaria gli strumenti per potersi emancipare, così da guidare lo stato tramite la dittatura del proletariato. Il socialismo scientifico di Marx e di Engels avrebbe dovuto aprire le porte al comunismo. Nel 1883, anno della morte di Marx, il comunismo non era ancora una idea fortemente presente in Europa, ma lo diverrà negli anni a venire. In Italia la nascita del Partito Comunista avvenne nel 1921, dalla fuoriuscita di elementi dal Partito Socialista Italiano (fondato a Genova nel 1892) e da ordinovisti. Guidati da Amadeo Bordiga prima e da Antonio Gramsci poi, i comunisti italiani operarono quel distacco già avvenuto in altri paesi del vecchio continente, soprattutto dopo la Rivoluzione Bolscevica russa del 1917 e il rifiuto da parte de Partiti Socialisti di rinunciare al riformismo per abbracciare in toto l’ideale comunista.
LA QUESTIONE SOCIALE E LA CHIESA CATTOLICA
Di tutto questo sviluppo ideologico di fine Ottocento, la Chiesa dovette prenderne atto e confrontarsi. A tal proposito è importante qui sottolineare un’incapacità iniziale da parte della Chiesa nei confronti di un proletariato europeo (urbano e agricolo) che per forza di cose, trovava sostegno in quelle idee lontane dal Cattolicesimo, rappresentato soprattutto da preti e vescovi poco inclini ad ascoltare le richieste di aiuto di una classe. Ovviamente, diverse furono le situazioni da paese a paese, ma è fondamentale sottolineare come proprio in quei paesi ancora non pienamente capitalisti, i movimenti sindacali che ivi si formarono, mossero un attacco profondo alla Chiesa, senza mai rinunciare però alla loro fede cattolica. Esempio su tutti, la protesta dei Fasci Siciliani dei Lavoratori, organizzazione di chiaro stampo socialista che coinvolse più di 300000 contadini. La particolarità di tale movimento risiede proprio nei suoi iscritti, aperti alle nuove idee a difesa delle masse ma nel contempo fortemente catechizzate, vedendo nel frate ingordo e strafottente un nemico ma pregando Iddio di aiutarli nelle loro rivendicazioni socialiste. Un socialismo che si rifaceva ad un “cristianesimo primitivo”, dove alla bandiera rossa si affiancava l’effige della Madonna. In una delle zone meno industrializzate d’Italia, lo scoppio di una rivendicazione di classe di tale entità, aprì di fatto la questione sociale (e meridionale) nello stivale. Come si porse, dunque, la Chiesa, di fronte a tutto ciò? Sviluppo di opere caritative ma soprattutto attività teoretiche e organizzative, da applicare poi sul territorio, necessarie per prendere posizioni nette riguardo alla situazione. Come dicevamo prima, diversi ovviamente furono i casi da paese a paese, ma ciò che qui vogliamo riportare, fu la teoria che la Chiesa elaborò.
LA RERUM NOVARUM DI PAPA LEONE XIII
“L’ardente brama di novità che da gran tempo ha cominciato ad agitare i popoli, doveva naturalmente dall’ordine politico passare nell’ordine simile dell’economia sociale. E difatti i portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria; le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà; il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, e l’unione tra loro più intima; questo insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto. Il quale è di tale e tanta gravità che tiene sospesi gli animi in trepida aspettazione e affatica l’ingegno dei dotti, i congressi dei sapienti, le assemblee popolari, le deliberazioni dei legislatori, i consigli dei principi, tanto che oggi non vi è questione che maggiormente interessi il mondo. Pertanto, venerabili fratelli, ciò che altre volte facemmo a bene della Chiesa e a comune salvezza con le nostre lettere encicliche sui Poteri pubblici, la Libertà umana, la Costituzione cristiana degli Stati, ed altri simili argomenti che ci parvero opportuni ad abbattere errori funesti, la medesima cosa crediamo di dover fare adesso per gli stessi motivi sulla questione operaia.” Inizia così la lettere enciclica di Papa Leone XIII, promulgata il 15 Maggio 1891. Per molti, essa fu determinante nella creazione della moderna dottrina sociale della Chiesa Cattolica. Una enciclica che pone la Chiesa in una via di mezzo tra Socialismo e Capitalismo, una terza via. Un appunto è doveroso: medesima scelta fu fatta dalla ideologia islamista negli anni del suo sviluppo (Novecento), cosa questa che mostra chiaramente la difficile posizione cui la religione dovette affrontare di fronte ad una situazione sociale grave. Essendo entrambe profondamente radicate tra le classe umili, non potevano non prendere posizioni. Tornando alla Rerum Novarum, andiamo ad esaminare alcuni dei suoi aspetti più importanti così da comprenderne appieno il suo indirizzo: “A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale.” Comincia così la prima parte dedicata alla critica al socialismo. Netta condanna soprattutto al concetto di abolizione della proprietà privata, pericolosa secondo Leone XIII, in quanto va a manomettere i diritti dei legittimi proprietari. Per il Papa, la proprietà privata è frutto del duro lavoro di una persone che decide di investire come meglio crede i propri risparmi, acquisendo di fatto un diritto alla proprietà. “Ciò riesce più evidente se si penetra maggiormente nell’umana natura. Per la sterminata ampiezza del suo conoscimento, che abbraccia, oltre il presente, anche l’avvenire, e per la sua libertà, l’uomo sotto la legge eterna e la provvidenza universale di Dio, è provvidenza a sé stesso. Egli deve dunque poter scegliere i mezzi che giudica più propri al mantenimento della sua vita, non solo per il momento che passa, ma per il tempo futuro. Ciò vale quanto dire che, oltre il dominio dei frutti che dà la terra, spetta all’uomo la proprietà della terra stessa, dal cui seno fecondo deve essergli somministrato il necessario ai suoi bisogni futuri. Giacché i bisogni dell’uomo hanno, per così dire, una vicenda di perpetui ritorni e, soddisfatti oggi, rinascono domani. Pertanto la natura deve aver dato all’uomo il diritto a beni stabili e perenni, proporzionati alla perennità del soccorso di cui egli abbisogna, beni che può somministrargli solamente la terra, con la sua inesauribile fecondità. Non v’è ragione di ricorrere alla provvidenza dello Stato perché l’uomo è anteriore allo Stato: quindi prima che si formasse il civile consorzio egli dovette aver da natura il diritto di provvedere a sé stesso.”. La proprietà privata come diritto naturale, emanato direttamente da Dio. Questa posizione riflette il pensiero di un grande studioso della questione operaia, il vescovo di Magonza Wilhem Emmanuel Von Ketteler, autore de “La questione operaia e il Cristianesimo”, pubblicata nel 1864 (che andremo a vedere successivamente). Una posizione chiara, dunque, che condanna sia il concetto di abolizione della proprietà privata, sia quello di smisurata appropriazione di beni a scapito di altri. La proprietà è un diritto naturale e in quanto tale tutti lo devono avere. Papa Leone XIII si concentra poi sulla figura della famiglia e della sua indipendenza. I figli appartengono anzitutto al padre che deve avere accesso agli strumenti utili per poterli sostenere. Lo Stato interviene laddove c’è una difficoltà, ma deve limitarsi all’aiuto. La visione chiaramente patriarcale dell’enciclica non deve sorprenderci considerando sia il tempo, sia la visione tradizionale cattolica della famiglia. La condanna, dunque, al socialismo come via pericolosa da perseguire in quanto, secondo Papa Leone XIII, offensiva nei confronti di quei diritti naturali concessi da Dio. La seconda parte, abbastanza corposa, spiega il rimedio da adottare per migliorare la condizione delle classi umili: l’unione delle associazioni. “Entriamo fiduciosi in questo argomento, e di nostro pieno diritto; giacché si tratta di questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa. E poiché la cura della religione e la dispensazione dei mezzi che sono in potere della Chiesa è affidata principalmente a noi, ci parrebbe di mancare al nostro ufficio, tacendo. Certamente la soluzione di si arduo problema richiede il concorso e l’efficace cooperazione anche degli altri: vogliamo dire dei governanti, dei padroni e dei ricchi, come pure degli stessi proletari che vi sono direttamente interessati: ma senza esitazione alcuna affermiamo che, se si prescinde dall’azione della Chiesa, tutti gli sforzi riusciranno vani. Difatti la Chiesa è quella che trae dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto: essa procura con gli insegnamenti suoi, non solo d’illuminare la mente, ma d’informare la vita e i costumi di ognuno: con un gran numero di benefiche istituzioni migliora le condizioni medesime del proletario; vuole e brama che i consigli e le forze di tutte le classi sociali si colleghino e vengano convogliate insieme al fine di provvedere meglio che sia possibile agli interessi degli operai; e crede che, entro i debiti termini, debbano volgersi a questo scopo le stesse leggi e l’autorità dello Stato.”. L’enciclica si mostra del tutto contraria all’odio tra classi, non condannando la diseguaglianza ricchi e poveri in sé, ma la soverchieria che spesso caratterizza i più ricchi e che porta rancore nelle classi più povere. Ciò deve essere eliminato. “Nella presente questione, lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. In vece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.”. E continua: “Innanzi tutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l’opera propria. Quello che veramente è indegno dell’uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell’anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e con il sesso.” Dovere della Chiesa è quello di riavvicinare le due classi eliminando l’odio e rafforzando l’armonia tra esse. Perché, secondo Papa Leone XIII, non importa quanti beni tu possiedi, ma l’uso che ne fai, l’importanza che dai alla collettività. La carità cristiana, per chi possiede, deve spingere all’aiuto e alla donazione verso i meno ricchi. I poveri non devono vergognarsi della loro posizione in quanto prediletti da Dio. Al primo posto la fraternità cristiana che è diretta conseguenza di una buona educazione cristiana: “Se non che la Chiesa, non contenta di additare il rimedio, l’applica ella stessa con la materna sua mano. Poiché ella è tutta intenta a educare e formare gli uomini a queste massime, procurando che le acque salutari della sua dottrina scorrano largamente e vadano per mezzo dei Vescovi e del Clero ad irrigare tutta quanta la terra. Nel tempo stesso si studia di penetrare negli animi e di piegare le volontà, perché si lascino governare dai divini precetti. E in quest’arte, che é di capitale importanza, poiché ne dipende ogni vantaggio, la Chiesa sola ha vera efficacia. Infatti, gli strumenti che adopera a muovere gli animi le furono dati a questo fine da Gesù Cristo, ed hanno in sé virtù divina; si che essi soli possono penetrare nelle intime fibre dei cuori, e far si che gli uomini obbediscano alla voce del dovere, tengano a freno le passioni, amino con supremo e singolare amore Iddio e il prossimo, e abbattano coraggiosamente tutti gli ostacoli che attraversano il cammino della virtù.” La Chiesa incentiva lo Stato ad intervenire, ne riconosce il giusto diritto ma ne ricorda anche i limiti. Difesa della proprietà privata e del lavoro, spesso da quegli scioperi pericolosi, secondo Papa Leone XIII, per gli imprenditori ma per gli operai soprattutto. L’enciclica riconosce il rapporto di lavoro Imprenditore/operaio, ma ricordando ad entrambi di rispettarsi. Così il primo non deve mai minacciare, né sfruttare il secondo, riconoscendogli un giusto compenso mai inferiore alle necessità dell’operaio. L’imprenditore deve garantire sicurezza al lavoratore e non deve mai offendere la sua dignità. L’opera cristiana che si attua con le associazioni cristiane, in unione (rispettando però la propria autonomia) comune, deve lavorare per una diffusione maggiore dell’educazione cristiana, senza fare distinzioni di categoria, ma impegnandosi nel trovare e difendere un equilibro tra gli uomini. La carità cristiana come signora di tutte le virtù e antidoto agli egoismi tipici del secolo.
WILHEM EMMANUEL VON KETTELER E LA QUESTIONE OPERAIA
Nato a Munster nel 1811 e morto Burghausen nel 1877, Wilhem Emmanuel Von Ketteler, vescovo di Magonza, si occupò a fondo della questione operaia; sostenitore del cristianesimo sociale, in quanto risposta alle ideologie socialiste che in Germania stavano prendendo sempre più campo. Ciò che a noi interessa qui è andare ad esaminare la sua opera più importante, “La questione operaia e il cristianesimo”, edita nel 1864. Un’ analisi profonda della situazione della classe operaia, muovendo critiche ai liberali e ai socialisti e portando avanti una terza via cristiana. Senza ombra di dubbio, tale opera influenzò notevolmente la Rerum Novarum di Leone XIII, promulgata 27 anni dopo. Tale opera creò non poco scompiglio all’interno degli ambienti politici e sociali, in quanto la Chiesa veniva vista come parte dei problemi della classe operaia, in combutta con i poteri liberali difensori dei capitalisti. In un periodo in cui il comunismo stava gettando le basi della sua futura diffusione, con la presenza di un socialismo principalmente utopico, l’opera del Vescovo di Magonza ebbe il merito di conquistarsi un posto importante all’interno del complesso dibattitto sulla questione operaia. Difensore della proprietà privata in quanto diritto naturale concesso da Dio, egli trasse molto del suo pensiero da Tommaso d’Aquino, tuttavia riuscì ad andare oltre. Difendere la proprietà privata non voleva dire difendere le ingiustizie dei ricchi, né tanto meno accumulare beni su beni per un soddisfacimento materiale. Per Von Ketteler difendere la proprietà privata significava difendere un diritto naturale secondario, conseguenza della ragione naturale. Chi accumula ricchezze deve essere in grado di saperle redistribuire. Resosi conto del destino dei lavoratori, succubi del capitale, considerava la partecipazione degli operai agli utili d’impresa come unica condizione necessaria ma non sostenendo l’opzione degli aiuti da parte dello Stato. In Parlamento, la classe operaia non aveva la giusta rappresentazione, doveva essere la Chiesa a farsi carico di questo grave problema morale. Tra le sue proposte per venire incontro alla questione operaia, Ketteler elaborò 5 proposte: 1) Istituti di assistenza ai poveri, 2) famiglia cristiana, 3) formazione umana e professionale degli operai, 3) creazione associazioni di categoria, 4) associazioni produttive. Sostenne la creazione dei sindacati, cosa che fece anche Leone XIII nella Rerum Novarum. D’altronde, il vescovo di Magonza conosceva bene la condizione delle masse povere, avendo vissuto spesso in mezzo a loro. Egli sosteneva che: “la questione operaia è parte importante della grande questione sociale. Quest’ultima è, per la massa, il risultato inevitabile dell’affermazione di principi aberranti in campo religioso, politico ed economico, che sono stati diffusi ovunque dal liberalismo anticristiano.” In riferimento alle condizione della classe operaia, “Il salario è il fattore che ci rivela la miseria degli operai e, d’altra parte, costituisce il banco di prova per valutare la validità delle proposte a sostegno della situazione operaia. […] il lavoro è di fatto divenuto una merce, quindi è soggetto alle leggi che regolano le merci.” L’autore cerca di individuare le cause di tale condizione, sostenendo: “L’intera esistenza dell’operaio dipende dal salario, che nel frattempo è diventato una merce, il cui prezzo è determinato ogni giorno da offerta e domanda. Il salario rappresenta quasi sempre l’equivalente del sussidio minimo per la sopravvivenza, e spesso nemmeno la raggiunge. […] Il salario dell’operaio è determinato dalla domanda e dalla offerta, in un regime di concorrenza. [… ] La diffusione del libero scambio è una fra le ragioni principali della situazione attuale della classe operaia. In modo inequivocabile il lavoro è divenuto pari a una merce il cui valore è determinato in un regime fortemente concorrenziale, che seleziona il miglior offerente al prezzo più basso.” L’operaio merce in balia dei mercati. In queste parole, il vescovo si avvicina molto alla teoria socialista, muovendo una forte critica al sistema capitalista. “Non si può immaginare nulla di più doloroso dell’immagine di una moltitudine di operai che, giorno dopo giorno, si trovano esposti come merce sul mercato mondiale per ottenere il salario che gli garantisce il pane quotidiano, con l’atroce incertezza: -forse già domani sarò con mia moglie e i miei poveri figli senza pane, nudo e senza un tetto-. Una tale condizione trasforma necessariamente il genere umano in un mare che, flagellato incessantemente da venti impetuosi, innalza la marea montante a livelli estremi, portando distruzione ovunque.” Von Ketteler, dopo aver mostrato l’inefficacia delle proposte liberali e radicali, giunge all’elaborazione di proposte secondo lui “efficaci” per affrontare la questione operaia, individuando nel cristianesimo il mezzo idoneo: “Il Cristianesimo ha risolto tutte le grandi questioni –attraverso lo spirito creativo del figlio di Dio- da quando è giunto sulla terra. Ha risolto anche quello che riguardano l’indigenza e il sostentamento degli uomini, nella misura in cui è possibile farlo con i mezzi a disposizione in terra. […] Il cristianesimo ha infranto lo spirito dell’antica schiavitù.” Le sue 5 teorie vanno ad inserirsi in quella teoria cristiano sociale utile a comprendere la posizione della Chiesa nei confronti della questione sociale. Le sue posizioni, di fatto, saranno quelle successivamente prese dal Papa nel 1891.
IL LAICATO CATTOLICO DI FRONTE ALLA QUESTIONE SOCIALE: IL TERZO ORDINE FRANCESCANO
Gli strumenti “sociali” che la Chiesa adottò per non essere estranea ai cambiamenti che la società subiva (soprattutto dopo la Rivoluzione Industriale), furono molteplici. La Rerum Novarum spinse i preti ad un maggiore lavoro all’interno delle comunità dove essi lavoravano, una vicinanza con le masse proletarie per contrastare la sempre maggiore adesione ai movimenti socialisti e comunisti. Le opere di carità, ovviamente, non bastavano. Serviva un impegno diretto. Il pontificato di Papa Leone XIII (1878-1903) si è contraddistinto proprio in tal senso. O meglio, provò a scuotere le associazioni cristiane. Il Terz’Ordine Francescano ne è un chiaro esempio. Fondato nel 1212 ad Alviano, piccolo borgo umbro, da San Francesco d’Assisi, tale ordine mirava al coinvolgimento diretto dei laici, un impegno a vivere la propria vita in funzione del Vangelo e degli insegnamento del Santo. Rinominato Ordine Francescano Secolare dopo il 1978, si colloca in una delle tre grandi famiglie dell’ordine francescano (il primo è composto dai frati, il secondo dalle clarisse); soggetti ad una preparazione culturale e spirituale profonda, gli aderenti si impegnano a vivere la propria vocazione in ogni aspetto della loro vita. Si contraddistinse da subito nelle opere di carità e nell’esercizio di incarichi di pubblica utilità. Molti furono, nel corso della sua storia, gli aderenti che si occuparono di ricoprire delicate questioni amministrative all’interno dei comuni. Nel corso del tempo, il frazionamento che l’ordine francescano subì, portò il Terz’Ordine ad una profonda immobilità. I cambiamenti che la società subì nel XIX secolo, la formazione di una classe proletaria e la nascita della questione sociale, spinsero la Chiesa a riprendere, o almeno provarci, l’importanza di un ordine che quasi non esisteva più. Durante il Pontificato di Leone XIII, ci fu quindi un intenso lavoro volto a ridare vita all’Ordine Francescano Secolare, per agire direttamente all’interno della società. Quella che venne definita “Stagione dei Congressi”, dimostra questo chiaro intento. L’enciclica di Papa Leone XIII, Auspicato Concessum, del Settembre 1882, in un certo qual modo diede il via a questo progetto: “In essa il Pontefice ripercorre la vita del Santo, visto anzitutto come il riformatore sociale che agiva richiamando gli uomini alla virtù, e delinea un profilo sociale e morale del XIII secolo. Secondo Leone XIII <<i nostri tempi si assomigliano in molti punti a quelli di allora>>, in quanto la carità si è raffreddata, i cristiani non adempiono ai loro doveri, molti uomini si dedicano avidamente al lusso e alle comodità, la fratellanza universale è esaltata a parole mentre nei fatti vince l’egoismo e, come in quel secolo l’eresia catara aveva scompigliato l’ordine civile spargendo ribellione contro l’autorità della Chiesa, così nel XIX secolo i fautori del Naturalismo (termine sotto il si possono ascrivere tanto la Massoneria che il social-comunismo o lo scientismo positivista) rifiutano la soggezione alla Chiesa e mettono a repentaglio l’ordinata convivenza civile e domestica. […] E’ il rilancio della dottrina tradizionale secondo la quale il povero, rassegnato e attivo, dà occasione al ricco di essere caritatevole e munifico, giacché entrambi non sono fatti per i beni della terra, ma per raggiungere il cielo, gli uni con la sofferenza, gli altri con la liberalità.”. Interessante notare il paragone che Papa Leone XIII fa con la società del XIII° secolo, importante per capire la strada che egli volle indicare all’ordine. Un ritorno alle tradizioni, quindi, dove il ricco rimane ricco e il povero rimane povero. Un richiamo all’ancien regime che poco si confaceva con il periodo. All’inizio del XIX° secolo, comunque, diversi intellettuali di area cristiana avevano ripreso gli studi su San Francesco, interessandosi alla ripresa dell’ordine terziario. Venne fondata la rivista Annales franciscaines, nel 1861 a Parigi. In Italia, cappuccini lombardi fondarono la rivista italiana Annali franscescani, nel 1870 e L’eco di San Francesco, nello stesso anno, a Napoli. Si cercò poi di ridare una organizzazione definita a cominciare dagli appellativi per i responsabili (Assistente, Direttore, Visitatore, Commissario), passando per una divisione a livello nazionale e locale. Nel 1897, ad esempio, in Umbria, si contavano 114 fraternità e 10000 iscritti, fatto questo che dimostra una attiva ripresa. Dove però l’ordine trovò ampio spazio fu in Francia, grazie al lavoro di Léon Harmel. Imprenditore, attuò all’interno dell’azienda una cooperazione dei lavoratori, creando consigli di fabbrica. I suoi stabilimenti a Val-des-Bois, attirarono l’attenzione di molti in quanto, oltre alla realizzazione di un villaggio operaio, diede impulso alla creazione di una organizzazione democratico-cooperativa dove veniva assicurata l’assistenza religiosa, intellettuale e materiale. Risulta interessante, a tal proposito, riportare la sua visione: “La grande opera dei nostri tempi è l’opera della salute dei nostri fratelli operai. L’assenza di Dio è il male peggiore che possa incombere sul mondo del lavoro. Come è rigorosa giustizia offrire agli operai un giusto salario, bisogna aver cura d’impedire alle loro anime di morire e assicurare loro, insieme al pane materiale, anche il pane quotidiano per le loro anime.” Nel 1861 aderì al Terz’Ordine Francescano dove si impegnò realizzando quella serie di Congressi volti allo studio ma soprattutto alla organizzazione dell’ordine. Paray-le-Monial, nel Settembre del 1894, si tenne il Primo Congresso. In esso, venne trattato il problema sociale che attanagliava la società del XIX° secolo e venne sviluppata una forte critica al capitalismo. Poco dopo, in Italia, a Novara, Il Terz’Ordine organizzò un altro Congresso nel quale venne ribadita la posizione assunta dal Congresso francese, ponendosi inoltre il problema dell’attivismo sociale tramite opere sociali cattoliche quali ad esempio le Casse rurali o le Società di Mutuo Soccorso. Venne confermata (se mai ce ne fosse stato bisogno) in entrambi i Congressi, la Rerum Novarum come codice da seguire. Nei successivi Congressi del 1895 (uno a Limoges, l’altro ad Assisi), vi fu il pieno coinvolgimento dei Cappuccini, rimasti fino a quel momento fuori. Si discusse della disciplina interna e dell’ordinamento esteriore oltre che della cooperazione con le altre forme di laicato cattolico. Se fino a quel momento gli indirizzi discussi ottenevano la maggioranza, diversa fu la situazione creatasi al Congresso di Nimes dell’Agosto 1897 dove vi si delinearono due tendenze ovvero, gli individualisti che sostenevano il carattere di associazione di perfezione cristiana e i sociali che, senza rinnegare ovviamente gli obblighi morali cristiani, spingevano per una maggiore attività dei terziari sul piano sociale. Per intenderci, i primi individuavano un problema di tipo morale lavorando sul singolo, i secondi invece, volevano un lavoro sociale collettivo individuando il problema nell’ordine materiale. Gli individualisti sostenevano il ritorno alla religione secondo lo spirito di carità, i sociali invece, tenevano conto dei problemi collettivi quali lavoro, stipendio e sostenendo nei casi specifici, il ricorso alle scienze umane (economia, sociologia). Gli individualisti erano soprattutto i Cappuccini. Il Congresso Internazionale di Roma del 1900, accentuò tali diverse posizioni che alla fine portarono il Terz’Ordine ad eclissarsi. Papa Leone XIII non seppe trovare una soluzione, sostenendo entrambe le posizioni ma di fatto senza risolvere la controversia. Il suo successore, Pio X, trovandosi di fronte ad una questione praticamente irrisolvibile, decise di fare del Terz’Ordine più una scuola di perfezione evangelica, mettendolo sotto controllo dei vescovi e indirizzando i terziari ad un impegno sociale in altre organizzazioni quali ad esempio l’Azione Cattolica. Fu, di fatto, una sconfitta. Le numerosi iscrizioni che avevano caratterizzato il periodo dei Congressi, faceva ben sperare per un lavoro sociale unificato e coerente. Ma le visioni troppo diverse tra chi voleva uno sviluppo “moderno” dell’ordine e chi invece ne difendeva i caratteri tradizionali, lo distrussero sul nascere. Viene da chiedersi, allora, in che modo la Chiesa poteva intervenire nel sociale, senza rapportarsi direttamente con la società stessa.
CONCLUSIONI
Andare ad esaminare la posizione dei cattolici nei confronti della questione sociale, ci porta a comprendere ancora meglio gli avvenimenti di quel periodo. Il rifiuto iniziale verso l’impegno politico venne superato da Don Luigi Sturzo che nel 1919 fondò il Partito Popolare Italiano, ispirato dalla dottrina sociale cattolica ma che mai si definì pienamente cattolico. La divisione tra religione e politica, di fatto, venne sempre mantenuta. La sua breve vita (dopo il ventennio fascista diventò Democrazia Cristiana) dimostrò la possibilità concreta di un impegno politico/sociale da parte dei cattolici. Tuttavia la classe operaia così come quella contadina aveva già tracciato la sua strada, abbracciando ideali che seppero capire e coinvolgere il proletariato.
Opere citate:
- Wilhem Emmanuel Von Ketteler, La questione operaia e il cristianesimo
- Leone XIII, Rerum Novarum
- Prospero Rivi-Andrea Gasparini, L’Impegno sociale del Terz’Ordine Francescano
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