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La strage di Senigallia nelle opere di Machiavelli e Guicciardini.

Nell’anno 1502 i principali capitani di Cesare Borgia complottarono contro di lui per impedirne un ulteriore accrescimento del potere, ma il Duca Valentino, nonostante la netta inferiorità in forza militare, riuscì con l’ingegno e l’inganno a disarmare i suoi nemici e ad eliminarli in quella che sarebbe passata alla storia come la strage di Senigallia. Questo evento ebbe due osservatori d’eccezione: Niccolò Machiavelli, che ebbe anche un piccolo ruolo nella vicenda, e Francesco Guicciardini. In seguito i due grandi fiorentini avrebbero ricostruito quegli eventi all’interno delle loro opere, nello specifico Guicciardini all’interno della sua “Storia d’Italia” (Capitolo VI del Libro V) mentre Machiavelli vi fece richiamo nel “Principe” nonché vi dedicò un intero breve testo dal titolo “Descrizione del metodo tenuto dal Duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il Duca di Gravina Orsina.”. Nell’articolo di oggi intendo trarre a pretesto appunto la strage di Senigallia per andare a vedere come due tra i padri della storiografia scientifica moderna hanno trattato il medesimo fatto per mettere in luce le differenti opinioni, conclusioni e massime che ne hanno tratto.

Come anticipato siamo nell’Ottobre 1502 e Cesare Borgia, figlio naturale di papa Alessandro VI, è dal 1499 impegnato in una serie di campagne militari volte a eliminare le varie signori che si sono negli anni installate in Romagna sostituendosi all’autorità temporale del papato. Lo scopo del Valentino, chiamato così in quanto Duca di Valentinois a seguito delle nozze con la principessa francese Charlotte d’Albret, era di unire quelle terre in un Ducato di Romagna sotto il suo scettro, ma più difficile è invece inquadrarne il fine ultimo perché, se la maggioranza degli storici credono che il suo sogno fosse di porsi alla guida di uno stato del centro Italia, altri hanno voluto attribuirgli un progetto pre-risorgimentale di unità d’Italia. Questa seconda ipotesi non è da escludersi a priori, ma bisogna depurarla dalla fantasie appunto risorgimentali perché nel XVI secolo parlare di Italia era molto diverso se la si intendeva da un punto di vista politico e geografico. Machiavelli, che ebbe modo di conoscere e ammirare il Borgia, nel “Principe” prima parla genericamente di “disordinare gli Stati d’Italia, per potersi insignorire sicuramente di parte di quelli” per poi però aggiungere che “acquistata adunque il Duca la Romagna,…, volendo mantenere quella, e procedere più avanti” il che, se legato allo slancio ideale dell’ultimo capitolo, può far supporre una sua idea o speranza che l’opera del Valentino avrebbe potuto condurre a una semplificazione della situazione italiana con la riunione di ampie zone del settentrione e del centro sotto un’unica forte signoria. Al contrario Guicciardini non si avventurò né a supporre gli intimi intendimenti del Borgia né a teorizzare un possibile esito delle sue imprese, ma si limitò a constatare quanto certo e cioè la volontà di ricondurre all’obbedienza di Roma le terre della Romagna e delle Marche, un obiettivo in seguito perseguito anche dal grande nemico dei Borgia Papa Giulio II. Comunque nel 1502 Cesare aveva già provveduto ad occupare città come Imola, Forlì, Piombino, Cesena, Faenza e Rimini nonché la totalità dei Ducati di Camerino e Urbino; suo prossimo obiettivo era la città di Bologna che, stando ai nostri due autori, avrebbe dovuto essere la capitale del suo principato. Proprio questi progetti contro il capoluogo romagnolo, all’epoca soggetto alla signoria della famiglia dei Bentivoglio, destò preoccupazione non solo tra gli avversari del Valentino, ma anche all’interno del suo stesso campo. Com’era uso all’epoca l’esercito di Cesare Borgia non era infatti altro che una serie di compagnie di condotta, guidate dai rispettivi capitani, unite tra loro. Molti di questi capitani avevano ottenuto non pochi vantaggi dal servizio sotto il Valentino, denari e titoli nobiliari, ma adesso, a fronte del sempre maggior rafforzamento del loro signore, temevano “non cercassi di spegnerli, per rimanere solo in sull’armi in Italia” come scrisse il Machiavelli. In effetti all’epoca Cesare Borgia godeva del supporto del re di Francia Luigi XII, sceso in Italia nel 1499 per rivendicare Milano e Napoli, che aveva respinto ogni richiesta, proveniente tanto dai veneziani quanto dagli stessi Bentivoglio, a mettere un freno all’ambizione del suo protetto. Per il Guicciardini fu proprio questa passività del francese, anche dopo uno scontro avuto col Valentino per l’attacco condotto da questi contro Arezzo (all’epoca sotto il governo di Firenze città alleata di Luigi XII), a convincere i capitani che solo un’azione interna allo schieramento del Borgia ne potesse ostacolare le ambizioni. Era infatti da tempo nota la tendenza, tanto di Cesare quanto di suo padre Alessandro VI, di circuire nemici e alleati con favori e promesse fin tanto che ciò fosse a loro utile, per poi tradire alla prima occasione. In particolare Machiavelli, sempre nel “Principe”, argomenta, traendone massima generale, che Cesare Borgia fosse giunto al punto da ritenere che il dipendere da “armi d’altri” fosse una costante minaccia per la stabilità delle sue conquiste. E’ probabile che il Valentino avesse in animo di regolare la questione subito dopo aver conquistato Bologna, infatti pagò regolarmente i suoi capitani perché si preparassero all’azione; ma questi ne anticiparono le mosse su istigazione degli Orsini, alleati dei Borgia, ma timorosi del loro potere dopo averli visti “disperdere” i Colonna. Machiavelli e Guicciardini non sono concordi sulla sequenza degli eventi che condusse a quella che, in seguito, fu chiamata la congiura della Magione. In particolare i due differiscono sul ruolo che ebbe la conquista, ad opera dei partigiani dell’ex-duca d’Urbino, della fortezza di San Leo. Stando al Machiavelli la caduta di San Leo fu la conseguenza del diffondersi della notizia della creazione di una coalizione anti-Borgia, al contrario Guicciardini scrive che invece fu la conquista della fortezza a far cadere gli ultimi dubbi dei congiurati convincendoli ad agire. Va detto che Machiavelli scrisse la sua “Descrizione” appena un anno dopo i fatti, mentre Guicciardini mise mano alla “Storia d’Italia” oltre trent’anni dopo, e dunque, senza che ciò sia una sicura patente di certezza, la maggior vicinanza cronologia agli eventi può lasciar suppore una più sicura conoscenza del loro susseguirsi. Comunque l’incontro si svolse al Castello dei Cavalieri di Malta a Magione presso Perugia, dove risiedeva il Cardinale Giovanni Battista Orsini, e vi parteciparono quattro capitano del Borgia, cioè Oliverotto da Fermo (ricordato sempre da Machiavelli nel capitolo VIII del “Principe” per essersi impadronirsi di Fermo uccidendo lo zio), Vitellozzo Vitelli, Paolo (o Pagolo) Orsini e Francesco Orsini Duca di Gravina, nonché Giampaolo Baglioni capitano di ventura e signore di Perugia, Ermes Bentivoglio figlio dell’allora signore di Bologna Giovanni e Antonio da Venafro in rappresentanza di Pandolfo Petrucci signore di Siena. L’accordo raggiunto tra le parti, stando a Guicciardini, è che si doveva impedire la caduta dei Bologna e per questo, approfittando della rivolta nel Ducato d’Urbino, avrebbero mosso guerra a Cesare Borgia, forti di un esercito di novemila fanti e settecento uomini d’armi, puntando su Rimini e Pesaro. Allo stesso tempo tentarono di accattivarsi i favori del re di Francia dichiarandosi suoi alleati e pronti a intervenire militarmente dovunque egli avrebbe chiesto. Tentarono anche di trarre dalla loro parte Firenze, promettendo in cambio Pisa che, a dir loro, era alla completa mercé di Pandolfo Petrucci, ed è in questa schermaglia diplomatica che Machiavelli entra personalmente, seppur con un ruolo minore, nella vicenda. Questi infatti racconta che i fiorentini, non fidandosi dei congiurati in quanto tra loro vi erano persone come Vitellozzo Vitelli, che aveva tentato di conquistare Arezzo, e gli Orsini, decisero di inviare proprio il Machiavelli come ambasciatore presso Cesare Borgia in modo da informarlo di ciò che si stava tramando alle sue spalle. Il Valentino si trovava allora ad Imola e fu colto completamente in contropiede dagli eventi, ma, e questa è una delle caratteristiche, o delle virtù restando  Machiavelli, dei grandi della storia, non perse la testa mettendosi anzi subito a lavorare per uscire dall’angolo. In primo luogo urgeva riequilibrare le forze, perché i quattro capitani congiurati si erano portati con loro il grosso del suo esercito, per cui chiese al re di Francia di inviagli al più presto degli uomini e, allo stesso tempo, diede fondo alla cassa per arruolare tutto ciò che vi fosse sul mercato. L’ordine che il Borgia aveva dato ai capitani rimastigli fedeli era di temporeggiare ed evitare lo scontro fintanto che non si fosse rafforzato a sufficienza;  a tal scopo ordinò a Ugo di Cardona e Miguel de Corella di Valencia di portare i loro uomini (800 tra fanti e cavalleggeri) a Rimini. Questi però, non volendo farsi sfuggire l’occasione di saccheggiare le indifese Pergola e Fossombrone, si imbatterono nei pressi proprio di Fossombrone in Paolo Orsini e nel Duca di Gravina che avevano con loro anche seicento uomini di Vitelli. Ne scaturì una battaglia che fu una completa disfatta per le forze del Valentino con molti morti e prigionieri anche tra gli ufficiali; come se non bastasse in quegli stessi giorni le forze dei Bentivoglio passarono all’offensiva puntando su Dozza molto vicino alla stessa Imola. Questi eventi convinsero definitivamente Cesare Borgia che l’opzione militare dovesse essere accantonata in favore di una trattativa coi congiurati per disarmarli con l’inganno. Tanto il Machiavelli che il Guicciardini non lasciano dubbi sul fatto che tutto ciò che il Valentino fece da questo momento in poi fosse uno stratagemma, anche se nessuno dei due è in grado di dire se l’omicidio finale dei congiurati fosse già parte del piano o, come lascia intendere l’autore del “Principe”, il frutto di un lampo di genio nel vedere l’occasione giusta. Fatto sta che il Valentino sfruttò le divisioni nel campo avversario dove i congiurati, vedendo che Luigi XII continuava a supportare il Borgia e che lo stesso Duca pareva disposto al negoziato, iniziarono ognuno a giocare in proprio. Intanto il Cardinale Orsini non aveva mai smesso di trattare con papa Alessandro VI mentre tanto Petrucci che i Bentivoglio inviarono lo emissari a Imola presso lo stesso Valentino. Intuendo lo sfaldamento interno degli avversari il Borgia individuò l’uomo migliore a essere ingannato, e allo stesso tempo a convincere gli altri congiurati, in Paolo Orsini e lo invitò a Imola. I nostri due autori descrivono in maniera molto simile le parole adoperate dal Valentino per ottenere la fiducia del suo interlocutore: si addossò la colpa di non essere riuscito a far comprendere le sue intenzioni ai suoi capitani e spiegò, che stante il supporto del re di Francia, la congiura non poteva avere seguito, ma che lui aveva capito i loro motivi d’agitazione ed era pronto a porvi rimedio. Da qui promise di tutto e di più non imbarazzandosi di nulla, arrivò a dire che lui non voleva che essere un primus inter pares, dichiarando che era pronto a riconciliarsi coi Bentivoglio sulla base delle condizioni poste dai congiurati stessi. Appare onestamente incredibile che Paolo Orsini abbia prestato fede a queste promesse, al punto da convincere i suoi colleghi a interrompere ogni operazione militare, sebbene fosse ben a conoscenza della fama del Valentino e la stessa congiura fosse nata proprio per la disinvoltura con cui il Duca si sbarazzava degli alleati quanto gli erano divenuti scomodi. Si potrebbe pensare a un contro inganno o a uno stratagemma da parte degli stessi congiurati, ma nulla di ciò che avvenne in seguito lascia supporre qualcosa di diverso dal semplice fatto che i congiurati fosse realmente convinti di aver stretto un accordo risolutore con Cesare Borgia. Gli stessi Machiavelli e Guicciardini affermano che, tolti Vitellozzo e Giampaolo Baglione, tutti gli altri congiurati non espressero alcuna riserva a fronte delle promesse fatte dal loro ex-signore; entrambi invece riconoscono, il primo con ammirazione il secondo semplicemente prendendone atto, l’abilità del Valentino nell’usare le parole per tirarsi fuori dal pericolo. L’accordo raggiunto apparentemente accontentava interamente i congiurati e concedeva poco o nulla al Borgia: tutti i capitani furono confermati nel loro precedente ruolo e gli vennero dati immediatamente quattromila Ducati oltre che il diritto di presentarsi da lui solo a loro discrezione. Bologna sarebbe dovuta restare ai Bentivoglio, che avrebbero stretto un’alleanza con il Valentino anche attraverso le nozze tra Costanza Bentivoglio e un nipote cadetto dei Borgia; in cambio gli ex-congiurati si impegnavano a restituire le terre occupate, a riconquistare il Ducato d’Urbino e a supportare ogni futura spedizione militare del Duca. Insomma all’apparenza Cesare Borgia aveva dovuto soddisfare molte delle richieste dei congiurati, in particolare mettendo un freno ai suoi progetti espansionisti, ottenendo in cambio solo il riavere indietro ciò che già era stato in suo possesso. Eppure di motivi per dubitare ve ne erano in particolare il fatto che, nonostante l’accordo concluso, il Valentino continuasse a richiedere nuovi rinforzi al re di Francia e arruolasse tremila mercenari svizzeri; certo il Borgia affermava che queste truppe servissero per la riconquista del Ducato d’Urbino, ma ci si sarebbe potuto chiedere perché ingaggiare degli svizzeri quando si era appena pagato il ritorno al proprio servizio di ben quattro capitani impegnatisi a riconquistare quelle terre di loro mano? Evidentemente però nessuno sospettò di nulla perché Vitellozzo, Oliverotto e i due Orsini si misero subito a rioccupare i Ducati d’Urbino e di Camerino, da dove i rispettivi Duchi (Guidobaldo da Montefeltro e Giovanni Maria da Varano) erano già fuggiti alla notizia della pace tra i congiurati e il Valentino. Questi intanto, siamo ormai alla fine di Novembre, si era spostato a Cesena, per preparare l’ultima parte di partita, dove venne raggiunto dagli a lungo richiesti rinforzi francesi che, però, immediatamente fecero dietro front. Anche questo evento non è di semplice cronaca perché il Guicciardini afferma, pur senza prendere posizione com’è suo solito quando non vi sono prove certe, che ciò avvenne o per un dissidio tra il comandante francese e Cesare Borgia o perché questi voleva a tutti i costi non apparire una minaccia ai suoi capitani. Machiavelli invece non ha dubbi a favore della seconda ipotesi e, personalmente, anche io la credo molto più probabile dato che tutto quello che il Valentino aveva fatto fino a quel momento era stato perfettamente calcolato. Comunque i condottieri non ebbero ancora alcun timore e anzi inviarono Oliverotto da Fermo a chiedere al Borgia numi sui suoi futuri piani; in particolare se voleva procedere a una nuova spedizione contro la Toscana oppure se preferiva intanto che venisse rioccupata la fortezza di Senigallia. La Toscana avrebbe voluto dire nuovi dissidi coi fiorentini, e di riflesso con Luigi XII, per cui fu Senigallia, ma avvenne qui una circostanza apparentemente di poco conto che invece sarebbe stata fatale per i quattro condottieri: il castellano della fortezza dichiarò che l’avrebbe ceduta solo al Borgia in persona. Ecco così presentarsi l’occasione perfetta per ritrovarsi a tu per tu con gli ex-congiurati senza che questi sospettassero di nulla. Lo ripeto ancora una volta non sappiamo con certezza quando nella mente del Valentino balenò l’idea di sbarazzarsi dei suoi capitani ribelli; può essere nato tutto sul momento alla notizia della situazione creatasi a Senigallia oppure si trattava un piano da tempo concepito che adesso trovava solo l’occasione per essere realizzato. Tra le righe Machiavelli, mi sembra, lasci intendere di essere convinto della seconda perché parla di “occasione buona” il che implicherebbe qualcosa di già progettato. Spostatosi dunque a Fano il Valentino sfruttò ancora una volta tutte le sue abilità per convincere i suoi ad attenderlo a Senigallia, riuscendo a lasciare sospettoso solo Vitellozzo il quale credeva “non si debbe offendere un Principe e dipoi fidarsi di lui”; e sì che ancora di possibili segnali che qualcosa non andava ce ne erano perché il Duca chiese e ottenne che i capitani facessero accampare i loro uomini fuori dalla cittadina. Siamo dunque al 30 Dicembre 1502 quando, per la prima volta, Cesare Borgia illustrò a otto dei suoi uomini più fidati il piano concepito per catturare senza colpo ferire i quattro capitani: si sarebbero dovuti dividere i quattro coppie e ogni coppia avrebbe dovuto affiancarsi a un capitano, non facendolo partire da Senigallia e facendoli sentire al sicuro, finché non fossero stati tutti nelle camere private del Duca. Radunate le sue forze sul Metauro il 31 Dicembre Cesare Borgia mosse verso Senigallia; a farglisi incontro furono Vitellozzo e gli Orsini mentre Oliverotto era rimasto nella cittadina sotto la fortezza. Machiavelli a questo punto dà un tocco romanzesco alla sua “Descrizione” affermando che Vitellozzo era giunto a Senigallia con un presagio di morte tanto che aveva fatto testamento e ammonito i nipoti di ricordare sempre ” le virtù de’ loro padri”. Giunti a Senigallia il Valentino fece segno a uno dei suoi che andasse a chiamare Oliverotto facendo anche in modo che le truppe di questi venissero allontanante dal borgo così che, nell’ora decisiva, in città e nella fortezza vi fossero solo uomini del Duca. I quattro capitani chiesero di poter prendere congedo, anche perché, e direi finalmente, il numero di soldati che il loro signore si era portato dietro gli aveva fatto sorgere i primi dubbi. Cesare Borgia però li convinse a restare per cena così da aver modo di discutere con loro dei suoi futuri progetti; i quattro sventurati accettarono firmando così la loro condanna a morte. La vulgata vuole che questi furono fatti prigionieri mentre si mangiava, ma per quanto teatrale l’immagine non trova conferma in nessuna fonte. Entrambi i nostri fiorentini infatti affermano solo che i quattro furono condotti negli alloggiamenti del Borgia dove questi diede il segnale convenuto, cioè lasciare la stanza con la scusa di volersi cambiare d’abito, perché tutti fossero fatti prigionieri. Fatto ciò diede ordine ai suoi uomini di colpire di sorpresa, dando libertà di saccheggio, le condotte dei quattro capitani così che queste non potessero tentare una missione di salvataggio, ma se gli uomini di Oliverotto furono disperi quelli degli Orsini e di Vitellozzo combatterono insieme riuscendo a ritirarsi. La magrezza del bottino portò le truppe del Valentino a darsi alla razzai della stessa Senigallia, ma il Duca, non gradendo ciò, bloccò la cosa “con la morte di molti”. La notte stessa Cesare Borgia diede ordine che venissero strangolati Oliverotto da Fermo e Vitellozzo Vitelli, che già aveva perso tre fratelli di morte violenta, mentre i due Orsini furono tenuti in vita il tempo sufficiente a dare modo a Papa Alessandro VI di fare prigionieri a Roma anche il cardinale Giovanni Battista Orsini, Rinaldo Orsini arcivescovo di Firenze, il protonotario Giambattista Orsini e alcuni loro sostenitori. Paolo Orsini e suo cugino Francesco Duca di Gravina furono in seguito a loro volta strangolati a Castel della Pieve il 16 Gennaio 1503 mentre il Cardinale Orsini mori a Castel Sant’Angelo il 22 Febbraio probabilmente avvelenato.

L’Italia intera si divise tra chi approvò l’opera del Valentino e chi invece rimase disgustato dalla disinvoltura del tradimento; meno pietà vi fu per i morti alcuni dei quali, come Oliverotto da Fermo, già noti per costumi pari o anche più crudeli di quelli del Borgia.  “Magnifico inganno” fu l’espressione lapidaria usata dal Machiavelli che non fece nulla per nascondere la sua ammirazione per l’operato del Borgia. Di fatto, tra tutti i personaggi suo contemporanei citati nel “Principe” Cesare Borgia rappresenta sicuramente quello che più si avvicina all’ideale del signore che, in nome del bene supremo dello stato, si slega da ogni vincolo etico o morale per conseguire solo il bene pubblico. In tal senso la “Descrizione” può essere considerata una sorta di appendice al “Principe” contenente un esempio pratico delle massime elaborate dal pensatore fiorentino; ciò è in perfetta coerenza con la sua concezione della storia come magistra vitae da cui trarre ispirazione e utili lezioni per il futuro. La connessione tra la “Descrizione” e i concetti espressi nel “Principe” a mio avviso si sente quando Machiavelli fa notare che il Valentino, al momento della conclusione delle trattative con i congiurati, avesse già pareggiato la forza militare con questi grazie ai rinforzi inviatigli dal re di Francia, ma “nondimeno pensò che fusse più securo e più utile modo ingannarli, e non fermare per questo le pratiche dello accordo.”. Eccolo il principe golpe e lione in grado di sapere quando adoperare la forza e quando l’inganno; certo il Valentino avrebbe potuto sconfiggere i congiurati sul campo di battaglia, ma ciò oltre ad essere un rischio sarebbe stato alla lunga meno conveniente che eliminarli senza danneggiare ulteriormente le sue forze in un momento in cui il suo dominio sulla Romagna non era ancora stabilizzato. Si può quasi dire che per Machiavelli la strage di Senigallia sia un metodo d’azione d’apprendere e padroneggiare per sapere come gestire situazioni simili. E Guicciardini? Rispetto al suo contemporaneo  è molto più difficile interpretare il pensiero dell’autore della “Storia d’Italia” essendo la sua opera molto parca di opinioni personali e giudizi. Raramente infatti il Guicciardini esprime la sua opinione e quando lo fa non è mai per commentare singoli fatti, ma uomini spesso nel momento conclusivo della loro vicenda storica ( es. Carlo VIII o Lodovico il Moro). Altrimenti il suo racconto tende ad essere privo di elevazioni ideali o manifestazioni di entusiasmo per i personaggi o fatti. Leggendo il capitolo dedicato ai fatti di Senigallia nessun giudizio traspare e soltanto scorrendo attentamente le righe si può trovare questo passaggio, a chiusura della ricostruzione tra i Borgia e gli Orsini, che paiono un suo sbiadito riconoscimento delle “virtù” del Valentino “… con tanto artificio che facilmente gli persuase tutto quello che si esprimeva per lui, efficace molto per natura nelle parole e prontissimo d’ingegno.”. Ciò non deve né sorprendere né ridurre il merito della sua opera o delle sue qualità di storico perché il tutto è figlio di una concezione della storia diametralmente opposta a quella del suo concittadino. Mentre infatti Machiavelli fu, nonostante le molte delusioni, un eterno idealista che non smise mai di sognare una rinnovazione della situazione italiana, le illusioni di Guicciardini morirono con il sacco di Roma lasciando il posto a una cinica disillusione che si riflette nel modo in cui si pone con la storia. Per lui la storia è una sequenza di eventi da narrare senza però sperare di trarne lezioni; semplicemente la realtà è qualcosa di troppo mutevole perché si possa sperare di trarre esempio da ciò che è successo per averne un insegnamento valido universalmente. In tal senso ogni evento è un unicum e per quanto due momenti storici si possano rassomigliare mai quello precedente potrà dare indicazioni su come comportarsi in quello successivo. Leggendo i “Ricordi”, sicuramente l’opera più personale del Guicciardini, possiamo trarre l’idea che una condotta come quella del Valentino non gli sarebbe risultata sgradita, non era persona da patemi morali; ma mentre Machiavelli traeva da ciò spunto per elaborare la sua dottrina politica, Guicciardini guardava l’evento come tale senza provare a estrarne di più. Va detto che entrambi gli autori condivisero una visione laica e scientifica della storia, libera quindi da ogni intromissione divina o di altre forze sovrannaturali, in cui gli uomini, o meglio i grandi uomini, ne sono i protagonisti e gli artefici con il popolo semplice spettatore ininfluente. A muovere questi grandi uomini sono le loro virtù, ma per Guicciardini queste sono intrinseche al singolo individuo spinto dal suo interesse particulare, mentre per Machiavelli esse sono anche il prodotto delle lezioni impartite dalla storia. Per questi motivi Machiavelli fu in grado di produrre un sistema mentre Guicciardini, e attenzione non fu né poco né qualcosa di irrilevante, “solo” un metodo. Il ritratto, attraverso i discorsi, dei protagonisti della storia privo di agiografie, l’uso del documento come base della ricerca storica, il cercare sempre di leggere i fatti nel loro insieme individuandone i collegamenti anche nascosti, ma soprattutto un’analisti critica fredda e distaccata questa è l’eredità di Guicciardini: i fondamenti della storiografia scientifica moderna. Manca però lo scatto idealisti a conseguenza dell’analisi storica che invece è proprio del Machiavelli; la “Descrizione” infatti, come opera, cambia completamente se viene presa singolarmente o se viene inserita all’interno del sistema politico/filosofico che ha il cuore nel “Principe” e nel “Discorso sulla prima deca di Tito Livio”. Al termine dei i loro capolavori i nostri due autori giungono entrambi a un giudizio critico sulla situazione della penisola nel loro tempo, ma mentre Guicciardini, avendo la realtà come unico metro, non può che essere pessimista sul futuro, Machiavelli è spinto dai suoi ideali a uno slancio di speranza che si traduce nella conclusiva “Esortazione a liberare l’Italia dalle mani dei barbari” che mai sarebbe potuta uscire dalla penna del Guicciardini.

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