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Lo scandalo della Banca Romana: il caso che non spaccò l’Italia.

Mentre scrivevo il mio precedente articolo sull’affaire Dreyfus non ho potuto fare a meno di confrontare questa vicenda giudiziario-politica con lo scandalo della Banca Romana che, all’incirca negli stessi anni, si abbatté sulla politica italiana. Al contrario dell’affaire, che come già detto spaccò la Francia e ne decise il futuro politico, la Banca Romana ebbe un effetto molto meno dirompente sull’Italia nonostante si sia trattato del primo vero grande scandalo post-unitario: l’opinione pubblica non si divise in piazze contrapposte e combattive così come il confronto politico, sebbene durissimo, non toccò mai livelli di dramma tali da mettere in discussione l’assetto istituzionale del paese. Le domande dunque che mi sono posto, e a cui proverò a rispondere, è in che modo le due vicende si differenziarono e perché produssero esiti così diverso? Ovviamente, prima di provare a dare una risposta, ritengo imprescindibile raccontare l’intera vicenda così da fornire a tutti gli elementi per poter valutare le mie ipotesi e, magari, avanzare anche le proprie.

Nell’Italia post-unitaria se per certi aspetti si era seguita la strada di una forte centralizzazione delle istituzioni a scapito delle realtà locali, in alcune aree si era deciso di mantenere agli organi precedenti all’unità. Così in materia di giustizia il paese aveva cinque corti di Cassazione (Torino, Firenze, Roma, Napoli, Palermo), che sarebbero state riunite solo nel 1923, mentre in materia economica al posto di un unica banca centrale vi erano sei istituti di credito autorizzati ad stampare carta moneta. Ovviamente tale emissione era soggetta a delle regole in quanto, attraverso una legge, si stabiliva quanto denaro ogni banca poteva stampare e mettere in circolazione, ma era facilmente evidente a tutti che un sistema del genere non poteva che essere foriero di problemi in quanto il numero degli istituiti concessionari, tutti privati e quindi non direttamente controllabili dallo stato, è eccessivo. Ben presto iniziano dunque ad essere avanzati progetti di unificazione delle sei banche in un unico istituto centrale, ma nessuno va in porto a causa delle forti resistenze degli istituti anche perché ognuno di essi ha filiali e rappresentanze sparse per tutta Italia ed Europa al fine di approfittare della “riscontrata” un sistema in base al quale ogni istituto deve accettare il denaro emesso da un altro, ma, dopo dieci giorni, ha diritto a farselo cambiare con denaro proprio dagli istituti debitori. Con il passare degli anni la situazione peggiora: la concorrenza tra i vari istituti si fa spietata a colpi di rischiose operazioni finanziarie e, dopo la presa di Roma nel 1870, è iniziata una gigantesca speculazione edilizia che, come spesso avviene, termina in una bolla di sapone lasciando una voragine debiti i  cui si trovano coinvolte molte banche. Una di queste banche è la Banca Romana (fondata nel 1850 come Banca dello Stato Pontificio) diretta da Bernardo Tanlongo detto “sor Bernardo”. Tanlongo è uno di quei personaggi che paiono non avere epoche: è il tipico animale da sottobosco romano sornione e in grado di accattivarsi i potenti rendendosi disponibile per ogni tipo di lavoro che però, ad ogni cambio di regime, si trova sempre dalla parte dei vincitori con ancora più potere di prima. Della sua vita prima dello scandalo si hanno solo delle informazioni generali che lo danno come confidente della polizia papalina e fornitore di piaceri ai monsignori, ma queste frequentazioni ecclesiastiche non gli impediscono di iscriversi alla Massoneria per avere un canale aperto quando arriveranno i piemontesi divenendo intimo tanto di Vittorio Emanuele II che di Francesco Crispi. Di “sor Bernardo” si diceva che avesse sempre un toscano per chiunque, non so se è vero certamente però aveva carte su chiunque perché la sua gestione della Banca Romana era, per usare un eufemismo, allegra e quindi fece in modo di rendersi intoccabile per quando il periodo di bonaccia fosse finito. A tale scopo finanziò coi soldi dei correntisti del suo istituto politici e giornali in modo che lo difendessero ogni volta che qualcuno riesumasse il progetto di unificazione degli istituti di credito, ma nemmeno tutti questi appoggi poterono evitare che, quando gli scricchiolii del sistema finanziario del paese iniziarono a farsi sentire, voci di gravi irregolarità nella gestione della Banca Romana iniziassero a salire da più parti accompagnate da una richiesta al governo di fare chiarezza. Siamo nel 1889 e sulla poltrona di Presidente del consiglio c’è Francesco Crispi sicuramente una delle figure più colorite del primo quarantennio di storia unitaria: siciliano di nascita fu mazziniano e tra gli ispiratori dell’impresa dei mille; dopo l’unità entrò in parlamento nelle file della sinistra facendosi notare come uno dei più feroci fustigatori dei governi e della pratica del trasformismo inaugurata da Depretis, ma l’ambizione e l’ego, di cui era equamente dotato in abbondanza, lo portò ad avvicinarsi alla monarchia e a un’idea di democrazia autoritaria con ovviamente lui al timone. Nel 1887 si recò a Berlino tornandone infatuato di Bismark di cui tentò di imitarne le politiche in Italia sia stroncando sul nascere il movimento operaio sia dedicandosi alla politica estera, fino a quel momento piuttosto ignorata dai governi, con l’obiettivo di fare del paese una grande potenza: fu lui a sottoscrivere il nostro ingresso nella Triplice, a dare inizio a una dura guerra doganale con la Francia e a puntare gli occhi sull’Africa come luogo per far guadagnare all’Italia il suo posto al sole. Per storia, carattere e ambizioni Crispi appare incredibilmente vicino a Mussolini (Gramsci lo considerò il  precursore del fascismo) di cui  ebbe il cinismo mancandogli invece la spregiudicata astuzia da giocatore di poker propria Duce; non è un caso che, durante il ventennio, fu uno dei pochi politici dell'”italietta” ante-marcia che il regime esaltò. Crispi non era entusiasta all’idea di dar noia al sor Bernardo perché quesri aveva prestato molti soldi a fondo perduto sia a lui sia alla sua intrigante seconda moglie Lina, ma le pressioni dell’opposizione alla fine lo convinsero a incaricare il ministro Luigi Miceli, titolare del dicastero dell’industria e del commercio, di avviare un’inchiesta con l’astuzia però di indirizzarla verso tutto il sistema creditizio così che la Banca Romana si perda nel mare magno. Miceli sceglie come presidente del comitato d’indagine l’aziano senatore Giacomo Alvisi esperto di questioni finanziarie oltre che uomo di integerrima onestà in modo che nessuno possa affermare che l’obiettivo e quello di nascondere la polvere sotto il tappeto; accanto a lui un tecnico, indicato dal ministro delle finanze Giovanni Giolitti, nella persona del commendatore Gustavo Biagini e  Antonio Monzilli capo della “Divisione credito” al ministero  scelto per sopire, troncare le eventuali irregolarità rilevate. Alvisi mette però subito in chiaro come intende gestire l’inchiesta presentandosi subito alla Banca Romana ordinando a Tanlongo di dare a Biagini pieno accesso ai documenti e agli uffici; allo stesso tempo mette in chiaro con Monzilli che la sua presenza non è gradita e che o se ne va oppure si sarebbe dimesso. Resta quindi in campo solo Biagini, Alvisi è chiamato altrove per urgenti impegni, che subito, ignorando le istruzioni volutamente generali del ministero, punta a verificare la cassa trovandosi subito di fronte a gravissime irregolarità; ingenuamente ne da notizia a Monzilli che subito mette sull’avviso Tanlongo il quale, appena vede ripresentarsi Biagini, inizia una filippica contro il suo cassiere Lazzaroni allo scopo di farne il capro espiatorio. Il funzionario del ministero delle finanze passa un giorno dopo l’altro a studiarsi le carte e i libri della Banca Romana e più va avanti più si accorge di aver scoperchiato un verminaio; la scoperta più allarmante è che l’istituto ha emesso venticinque milioni di banconote in eccedenza rispetto alla quota che gli era stata assegnata e che, addirittura, ha stampato clandestinamente dei  duplicati! Il trucco è semplice: mettiamo che la Banca Romana ha cento banconote ognuna col suo numero seriale, adducendo come scusa l’usura di queste ne fa stampare altre cento a cui però appone il medesimo numero di serie delle precedenti che ovviamente non vengono distrutte, ma mantenute in circolazione. Ecco le parole di Biagini in merito alla vicenda: “La frode consisteva in questo: per coprire una materiale deficienza di cassa in biglietti proprio della Banca Romana furono creati clandestinamente nove milioni in tagli di mille, duecento e cinquanta lire che furono posti in cassa per colmare il vuoto.” Come se non bastasse emergono pesanti debiti con il settore edilizio, prestiti a personalità della politica e dell’informazione, conti correnti per investimenti brevi aperti falsamente a lunga scadenza nonché una pletora di cambiali pluri-rinnovate per un totale di cinque milioni di patrimonio dell’istituto. Tanlongo, vistosi scoperto, tenta di corrompere Biagini il quale però non si presta e invece si reca subito da Miceli per denunciare la grave situazione in cui si trova la Banca Romana; il ministro, stretto tra i suoi doveri istituzionali e il timore dello scandalo, convoca immediatamente Tanlongo il quale confessa i duplicati, ma garantisce che la situazione sarà presto risolta. Per nulla rassicurato Biagini torna per un ennesimo controllo e scopre che effettivamente le banconote duplicate sono scomparse, ma al loro posto sono comparsi vari pagherò intestati alla Banca Nazionale; anche stavolta Tanlongo ha cercato il trucco di magia facendosi prestare da un altro istituto dieci milioni per coprire momentaneamente il disavanzo di cassa. Messo al corrente di tutto il senatore Alvisi da ordine a Biagini di mettere tutto quello che ha scoperto nero su bianco in una relazione da consegnare al ministero di cui però, all’insaputa di tutti, si fa fare una copia in caso di necessità. La precauzione non è immotivata dato che, una volta ricevutala, Miceli e Crispi chiudono la relazione in un cassetto del ministero e ne fanno redigere un’altra più soft da Monzilli mentre Biagini viene immediatamente promoveatur ut amoveatur.

Sull’ispezione alla Banca Romana cala dunque il silenzio per due anni finché, caduto il governo Crispi, Alvisi non si alza in parlamento con l’intenzione di darvi pubblica lettura della relazione scatenando la reazione rabbiosa del nuovo governo Di Rudinì e dei deputati governativi; offese, dileggi e inviti a tacere “nel supremo interesse della patria” piovono sul vecchio senatore che, seppur onesto, rimane un uomo delle istituzioni finendo per cedere alla “ragion di stato”. Il rimorso però per quel momento di viltà lo iniziò ad attanagliare da subito e, ormai prossimo alla morte, decise di affidare le scottanti carte all’amico Leone Wollemborg, economista in procinto di candidarsi in parlamento, con l’incarico di utilizzarle “per smascherare ladri e manutengoli di questa povera Italia.” Wollemborg si rende conto subito che il materiale è esplosivo così, prima di agire, crea un comitato di cinque esperti, tutte persone che in seguito avrebbero svolto un ruolo da protagonisti nella politica e nella cultura italiana (Vito De Marco, Maffeo Pantaleoni, Pasquale Villari, Vilfredo Pareto e Francesco Siliprandi), perché studino la relazioni e valutino il modo migliore per renderla di pubblico dominio. La deliberazione a cui si giunge fu che la denuncia parlamentare fosse la strada maestra da seguire, ma per farlo bisognava individuare un deputato che, al contrario del buon Alvisi, non si facesse ricattare da richiami al dovere verso la patria. L’uomo scelto per guidare la battaglia contro l’omertà del parlamento e la disonestà di Tanlongo fu l’onorevole Napoleone Colajanni siciliano come Crispi ed esperto di cose economiche, dunque in grado di comprendere la gravità dei fatti, nonché membro dell’estrema com’era chiamata la sinistra radicale che, proprio in quegli anni, stava iniziando ad affrontare il travagliato passaggio da Mazzini a Marx. Il 10 Dicembre 1892 Maffeo Pantaleoni consegna la relazione a Colajanni il quale si impegna a renderla pubblica in parlamento nella stessa seduta in cui la camera sarà chiamata a votare proprio in materia dei diritti di emissione da parte delle banche private. Prima però di arrivare al momento della denuncia dello scandalo recuperiamo un attimo i fili delle vicende politiche del paese che sono fondamentali per poter capire l’evolversi dei fatti.

Eravamo rimasti al passaggio dal governo Crispi a quello Di Rudinì, ma questi durò ben poco e così re Umberto convocò al Quirinale per affidargli l’incarico di formare il nuovo ministero Giovanni Giolitti. L’uomo di Dronero incontrò subito l’ostilità del parlamento, celebre è rimasta una frecciata lanciata contro di lui Imbriani altro membro dell’estrema “In tempi minori, a Principi minori, ministri minori”, che ebbe, secondo Montanelli, almeno tre ragioni: in primo luogo l’odio di Crispi perché Giolitti, dimettendosi da ministro, aveva contribuito al naufragio del suo primo governo e lo statista siciliano era il tipo che queste cose se le legava al dito, in secondo luogo era avvertito quasi come un estrano dalle Camere non venendo dalla politica militante bensì dalla burocrazia statale e, infine, scontava la colpa di essere il primo Presidente del consiglio che non avesse qualche benemerenza risorgimentale di cui fregiarsi. Giolitti poi caratterialmente era l’opposto di Crispi: grigio, di oratoria spartana e più attento alle carte che ai grandi voli pindarici probabilmente avrebbe concluso la sua carriera in qualche ruolo da gran commis dello stato se l’allora vecchio deputato di Dronero, in procinto di ritirarsi dalla politica, non gli offrì il suo seggio in parlamento. Senza farsi notare troppo Giolitti apprese i meccanismi parlamentari e così, quando venuto il suo momento al voto di fiducia il parlamento gli diede una striminzita maggioranza di nove voti, non perse tempo ottenendo dal re nuove elezioni che, addomesticate dai prefetti, gli diedero una maggioranza schiacciante. Ovviamente la questione dell’ordinamento bancario era ancora in testa ai problemi del paese e Giolitti, sebbene fermamente convinto che solo un’unica banca nazionale potesse risolverli, preferendo non iniziare la legislatura con uno scontro aperto con gli istituti di credito nominò ministro delle finanze Grimaldi, che aveva sempre avversato l’unione delle banche, propose una proroga di sei anni all’attività di emissione di valuta da parte delle banche private e, soprattutto, incluse Tanlongo nell’elenco dei candidati al senato che, all’epoca, erano scelti dal re. Questa mossa generò, e genera ancora oggi, parecchio stupore perché il sor Bernardo era ormai un personaggio parecchio chiacchierato e quindi pareva assurdo dargli anche l’immunità parlamentare. All’epoca si vociferò che questo fosse il prezzo che Tanlogo aveva posto al suo silenzio tesi seguita ancora oggi sebbene qualcuno ha proposto che la contropartita potesse essere la fine dell’opposizione del governatore della Banca Romana al progetto di un’unica banca nazionale. Com’è come non è la voce che Colajanni abbia in mano la relazione Alvisi-Biagini inizia a girare e Giolitti, colto evidentemente in contropiede, il giorno prima che le camere votino la proroga di sei anni la ritira in tutta fretta sostituendola con una proroga di soli tre mesi in attesa che si dia attuazione al progetto dell’unione degli istituti emittenti in un’unica banca; contemporaneamente il governo annuncia una nuova commissione d’inchiesta presieduta dal presidente del consiglio di stato Gaspare Finali perché informi le camere se vi sono irregolarità nel settore creditizio. La mossa crea sbandamento nell’estrema e qualcuno suggerisce a Colajanni di desistere dal suo intento sia per prudenza sia per non essere accusati di aver sollevato un polverone con accuse che finiranno solo per danneggiare l’opera di Finali, ma il deputato siciliano decide di andare avanti. E siamo giunti quindi al 20 Dicembre 1892 quando Colajanni chiede la parola in parlamento e, dopo esser rimasto quasi un minuto immobile con l’indice puntato contro i banchi del governo, lancia il suo “J’accuse”. La requisitoria di Colajanni fu durissima portando alla luce punto per punto tutte le irregolarità che Biagini aveva rilevato e concludendo con la richiesta di una commissione di inchiesta parlamentare che si affiancasse alla commissione Finali nella sua indagine sui modi con cui le banche private si gestiscono. Passato il Rubicone il resto dell’estrema corre in appoggio del collega unendosi nello sciorinare le devastanti conclusioni della relazioni e appoggiando la sua richiesta di una commissione d’inchiesta. Giolitti rimane un muro di gomma anche quando gli viene chiesto se, sul suo onore, può respingere le accuse rivolte contro Tanlongo (si limiterà a un laconico “Come vede stò accuratamente prendendo nota della sua richiesta…”), ma in difesa del governo, e soprattutto di se stessi, prendono uno dopo l’altro la parola Miceli, Di Rudinì e Crispi tutti con lo stesso spartito: l’inchiesta di Biagini mise si in luce alcune irregolarità, ma Tanlongo provvide subito a porvi rimedio per cui le accuse della sinistra sono strumentali e la commissione d’inchiesta non farebbe altro che allarmare inutilmente l’opinione pubblica. Forte di questi appoggi Giolitti prende la parola con la sua retorica asciutta dichiarandosi offeso per il richiami fatti dall’estrema al suo onore e osando poi un’affermazione che gli avrebbe creato in seguito non pochi problemi “Ammetto, e non ho difficoltà a farlo, che non la lessi (la relazione) neppure tutta convinto che le irregolarità riscontrate sarebbero state sollecitamente sanate.” Infine chiede alla camera di respingere la richiesta dell’estrema di una commissione parlamentare d’inchiesta ponendo allo stesso tempo la fiducia sulla proroga di tre mesi alla concessione di emissione per le banche. Il governo porta a casa una maggioranza schiacciante, ma le rivelazioni di Colajanni hanno reso pubbliche le magagne del sistema finanziario italiano e ben presto iniziano ad arrivare le prime scosse di risposta: in primis sono i giornali a chiedere, seppur senza toni incendiari, che il governo faccia la massima chiarezza al che segue un grave errore tattico del presidente del consiglio cioè la convalida della nomina di Tanlongo a senatore. Il gesto pare a tutti assolutamente fuori luogo e lo stesso senato lo blocca sospendendo l’ingesso del suo nuovo membro con un’ampia maggioranze; per sor Bernardo questa è però solo la prima tegola che gli piove sulla testa perché la commissione Finali è incappata nelle stesse irregolarità già riscontrate da Biagini come le banconote duplicate e l’emissioni illegali di banconote. A questo punto il governo decide di scaricare Tanlongo, ancora convinto che tutti i favori concessi alla politica nel corso degli anni siano una rete di sicurezza sufficiente, il quale viene arrestato il 19 Gennaio 1893 a pochi giorni di distanza dalla pubblicazione delle conclusioni della commissione Finali. Quella sera succedono molte cose strane: la polizia invece di condurre subito Tanlongo in carcere lo porta a casa sua dove l’arrestato accusa un malore venendo dichiarato intrasportabile dal medico che lo visita; contemporaneamente a ciò si procede alla perquisizione sia dell’abitazione che dell’ufficio presso Banca Romana, senza un mandato da parte della magistratura, al termine della quale pile di documenti vengono chiusi in dei pacchi portati via verso una destinazione sconosciuta. Quando qualche giorno dopo questi pacchi riappariranno sia Tanlongo che i figli diranno che si sono molto assottigliati rispetto alla sera dell’arresto; inizia qui un’intricata vicenda di carte fatte sparire nella quale non ci si è mai riusciti a districarsi sebbene sia un fatto che due funzionari di polizia presenti alla perquisizioni, l’ispettore Mainetti e il delegato Montalto, saranno promossi insieme al questore Felzani “con menzione onorevole.” Il fato sembra però congiurare per rendere il clima attorno alla finanza italiana infuocato perché nello stesso momento in cui la verità sulla Banca Romana viene alla luce altri due fatti contribuiscono a generare il sospetto che l’intero sistema sia marcio: Vincenzo Cuciniello, dirigente del Banco di Napoli, scompare dopo aver saccheggiato la cassa dell’istituto, verrà arrestato qualche giorno dopo mentre tenta di fuggire travestito da prete, mentre il 1 Febbraio l’ex-direttore della Banco di Sicilia marchese Emanuele Notarbartolo viene assassinato. In un primo momento si sospettò che il marchese fosse stato messo a tacere perché al corrente di alcune segreti riguardanti la Banca Romana, ma in seguito, e la tesi è ormai universalmente accolta, venne indicato come mandante del delitto il deputato Raffaele Palizzolo, a sua volta dirigente del Banco di Sicilia, che si sarebbe rivolto a Vito Cascio Ferro, primo vero padrino della Mafia siciliana, per impedire a Notarbartolo di rendere di pubblico dominio alcune sue malversazioni.

Il 25 Gennaio Tanlongo entra, insieme al cassiere della Banca Romana Lazzaroni, a Regina Coeli mentre una folla segue l’evento lanciando urla contro “ladri e corrotti”. Contemporaneamente  il parlamento riapre e stavolta Giolitti non viene cannoneggiato solo dall’estrema, ma anche da Sidney Sonnino e Di Rudinì che, vedendo il governo in difficoltà, chiedono conto della designazione di Tanlongo a senatore. Il presidente del consiglio è chiamato in prima persona sul banco degli imputati oltre che per la nomina del sor Bernardo anche per aver salvato dal fallimento alcune banche minori, operazione fatta secondo l’estrema per tutelare il denaro di alcuni grossi personaggi, e per il suo ruolo nel nascondere della relazione Alvisi-Biagini. Conviene fermarci un attimo per discutere di quest’ultima accusa che, come vedremo, sarà decisiva per il destino del primo governo dell’uomo di Dronero; Giolitti fu a conoscenza o no della relazione? Ancora oggi la storia non è in grado di dare una risposta certa; Giolitti dichiarò sempre di non averne mai avuto la versione completa e che, comunque, gli era stato garantito che tutto era rientrato mentre i suoi avversari lo accusarono non solo di averla letta, ma di averne approvato l’insabbiamento. Va detto che nessuna delle due ipotesi rende onore allo statista piemontese perché nel primo caso fu ingenuo e superficiale, tanto più visto che era il Ministro delle Finanze, mentre nel secondo omertoso e disonesto. Come sempre provo ad esprimere la mia opinione: tra le due tesi quella che mi sembra più realistica è la seconda perché non riesco a credere che una persona intelligente e tecnicamente esperta come Giolitti, con quello che già si vociferava in merito alla Banca Romana, non prendesse cognizione di una relazione redatta da un funzionario del suo ministero indicato da lui per quel ruolo! Vi è però secondo me, una terza ipotesi e cioè che Giolitti non volle leggere la relazione perché intuiva quello che vi potesse essere dentro e, vedendola come un cavo dell’alta tensione scoperto, vi si tenne ben lontano: in sostanza non la volle conoscere perché già la conosceva. Questa tesi secondo me si incastra perfettamente con il personaggio Giolitti, ma, ovviamente, riduce la distanza dall’aver letto e nascosto la relazione a un puro esercizio di semantica. Torniamo nell’aula della Camera dove l’uomo di Dronero si sta difendendo, con la solita flemma che nulla lascia trasparire, dagli attacchi concentrici che gli vengono rivolti, ma il più duro colpo deve ancora venire perché l’On. principe Odescalchi chiede conto di una voce che sta girando in base alla quale la Banca Romana avrebbe finanziato la campagna elettorale del Presidente del Consiglio. Dai resoconti giuntici pare che per la prima volta Giolitti perda la sua imperturbabilità e salti in piedi per negare sdegnato le accuse e la cosa non deve sorprendere perché, se nel governare l’uomo di Dronero non si farà mai scrupolo di servirsi di mezzi anche illeciti come instrumentum regni, nel privato fu sempre di un onestà cristallina intendendo il suo ufficio mai come un mezzo di arricchimento personale, ma come un servizio da rendere allo Stato. Al di là dell’accusa vi è però un fatto molto più preoccupante per governo e parlamento, la voce di cui parla Odescalchi è infatti quella di Tanlongo che sta usando i suoi interrogatori in carcere per mandare un messaggio alla politica: o mi salvate o parlo; a peggiorare la situazione finisce in carcere anche Monzilli, autore della relazione soft sulla Banca Romana, e l’estrema torna a battere sulla richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare. Giolitti tenta di tenere a galla la nave mentre gli arresti si succedono, le azioni della Banca Roman crollano in borsa e i giornali pubblicano stralci degli interrogatori dei Tanlongo; anche la monarchia viene coinvolta nello scandalo perché da alcuni messaggi criptici del figlio del sor Bernardo pare di intendere che Vittoria Emanuele II abbia fatto buoni affare attraverso il padre mentre Umberto I si sarebbe fatto prestare del denaro allo scopo di foraggiare le sue amanti, usando come prestanome il ministro della Real casa Urbano Rattazzi, per poi trasferire rapidamente le somme all’estero alle prime avvisaglie dello scandalo. Ovviamente questi accenni al Quirinale vengono rapidamente messi a tacere, ma lo stesso non si può fare per le accuse, sempre più circostanziate, che vengono rivolte contro alcuni deputati e, infine, il 3 Febbraio la magistratura fa giungere alla camera la richiesta d’autorizzazione a procedere contro l’Onorevole Rocco De Zerbi per concorso in corruzione e peculato. De Zerbi è stato tirato in ballo da Tanlongo per aver ricevuto cinquecentomila lire come “corrispettivo per i servizi svolti nella sua qualità di deputato”; l’autorizzazione viene concessa dalla camera all’unanimità anche perché lo stesso De Zerbi chiede di potersi difendere davanti ai giudici, ma tra i deputati inizia a serpeggiare un certo timore per ciò che il sor Bernardo sta raccontando. Tanlongo infatti non sta procedendo a caso, ma segue un preciso piano elaborato insieme ai figli forse imbeccati da qualche emissario; infatti in un primo tempo l’ex-governatore della Banca Romana fa  molti accenni a soldi prestati a Giolitti, guardandosi bene dal nominare i presidenti del consiglio precedenti, ma, quando il figlio Pietro gli fa pervenire un messaggio in cui spiega che essendo Giolitti al governo è l’unico che potrebbe aiutarlo, sor Bernardo cambia registro iniziando a parlare di Di Rudinì e, soprattutto, di Crispi. Qualche storico ha teorizzato che dietro le prime dichiarazioni di Tanlongo contro Giolitti ci sia stato proprio Crispi che voleva preparare il terreno per la caduta dell’odiato rivale; quando però lo statista siciliano venne a sapere che anche il suo nome aveva iniziato a essere chiamato in causa decise di accelerare i tempi rompendo il silenzio fino a quel momento tenuto. L’attimo era infatti favorevole per colpire Giolitti in difficoltà, oltre che per la Banca Romana, per una grave crisi economica continentale che aveva provocato, di riflesso, scioperi, tumulti e la formazione in Sicilia dei Fasci dei contadini; Giolitti, non credendo negli stati d’assedio, optò per la linea morbida attendendo che il movimento si riassorbisse da se, ma questa scelta trovò l’ostilità di una borghesia spaventata e della corte dove la regina Margherita lavorava da tempo contro di lui non avendolo mai sopportato. La strategia di Crispi è quella di smentire Giolitti quando afferma di non essere mai stato a conoscenza della relazione Alvisi-Biagini e sia con interviste su giornali che in interventi alla camera afferma che, al tempo in cui lui era presidente del consiglio, questi gli aveva fatto rilevare come la relazione presentasse al suo interno “roba da corte d’assise”. Per avvalorare ulteriormente il suo racconto non esita ad affermare che lui stesso aveva letto la relazione e aveva deciso di insabbiarla nel miglior interesse del credito nazionale e della patria criticando l’azione politica dell’uomo di Dronero che, invece di controllare la crisi del settore bancario, se n’è fatto dominare demolendo gli istituti di credito prima ancora di aver messo su una banca nazionale unica. Le accuse ovviamente rinfocolano la polemica e danno nuove munizioni a chi insiste nel chiedere un’inchiesta parlamentare non più solo sulle banche, ma anche sui rapporti tra la finanza e la politica. Il 20 Febbraio una notizia poi scuote ulteriormente gli animi: Rocco de Zerbi è morto.Il parlamentare era da giorni in piena crisi di nervi, perché ormai consapevole dell’ampio materiale contro di lui in mano ai giudici, e per i medici si sarebbe tratto di infarto anche se già allora circolò la voce di un suicidio che, ancora oggi, trova un certo appoggio in alcuni autori.

Pochi giorni dopo che la camera si è riunita per una commemorazione di De Zerbi, la commissione Finali presenta la sua relazione e il governo, con molte difficoltà, riesce ad evitare che ne sia concessa la pubblicazione chiedendo che prima venga studiata da un’apposita commissione. Il giorno dopo però, 21 Marzo 1893, con un incredibile giro di valzer Giolitti comunica che il governo si è convertito all’idea di una commissione parlamentare d’inchiesta. Perché questa scelta? Secondo i più Giolitti, leggendo la relazione Finali, trovando parecchi riferimenti critici ai governi che l’avevano preceduto ha deciso di contrattaccare cercando di spingere nel calderone dello scandalo Di Rudinì e Crispi il cui operato sicuramente sarebbe stato messo sotto indagine dalla commissione d’inchiesta. La svolta mette nel sacco molta dell’opposizione di destra che, unitasi a suo tempo  all’estrema per cavalcare l’onda della richiesta di una commissione, non può adesso fare marcia indietro e così viene nominato un gruppo di sette parlamentari (detta “commissione dei sette” o “comitato inquisitorio”) che accerti le responsabilità politiche nello scandalo. Sempre nel tentativo di far diradare le nubi che gli si sono accumulate sopra il governo rompe anche gli indugi e annuncia l’unificazione nelle mani dello stato dell’emissione monetaria attraverso al creazione della Banca d’Italia.  Contemporaneamente a questi risvolti parlamentari è andata avanti l’inchiesta della magistratura,  affidata al giudice Ferdinando Capriolo, e a Luglio si giunge al rinvio a giudizio per Tanlongo, il cassiere Lazzaroni e Monzilli (oltre che altri due personaggi secondari) prosciogliendo invece il figlio dello stesso sor Bernardo; gli interrogatori hanno infatti mostrato un ex-governatore che cade in continua contraddizioni in merito alle responsabilità per gli illeciti amministrativi commessi dal suo istituto mentre gli altri dirigenti si limitano ad affermare di aver eseguito degli ordini scaricando su Tanlongo e Lazzaroni l’intera responsabilità.

Otto mesi dura il lavoro della commissione d’inchiesta parlamentare  e il 23 Novembre, in un clima teso, i sette membri si presentano alla camera consegnando alla presidenza un plico sigillato contenete le sue risultanze. Giolitti, quasi a volersi prendere gioco dei presenti, ostenta calma e con la sua solita flemma fa delle comunicazioni istituzionali e procede a presentare  alcuni disegni di legge scatenando la reazione isterica dell’estrema che invoca l’ora della verità. Alle 18:15 il presidente della camera Zanardelli rompe i sigilli e dà lettura della “montagna di documenti”, come li definisce lui stesso, che si aprono con un lungo excursus storico-politico sulla questione del credito nel paese dopo l’unità. Ovviamente la Banca Romana è chiamata in causa come il cattivo della situazione, ma ci sono pesanti critiche anche per gli altri cinque istituti emittenti che si sono gestiti come “opere pie” a favore di politici e clienti privilegiati (“vigne vendemmiali per ogni stagione”). Si passa poi, dopo un dovuto tardivo elogio della relazione Alvisi-Biagini, si passa poi ad analizzare il rapporto tra gli onorevoli e le banche affermando che, se non c’è nulla di male che un deputato abbia relazioni con un istituto di credito, lo diventa quando l’istituto in questione è titolare del potere di emissione su cui vi è un dovere di vigilanza in capo al parlamento; peggio ancora se poi la banca in questione concede la rinnovazione del debito non pagato ai suddetti deputati che o pagheranno in piccole dosi o non pagheranno mai creando così una situazione di sofferenza per l’istituto che, per convenienza, non agirà mai al fine di recuperare il denaro. Si prosegue poi con una lunga requisitoria contro il malcostume delle raccomandazioni, contro i giornali che si sono fatti generosamente foraggiare alla Banca Romana sotto il nome di “spese di pubblicità” e  contro i funzionari dello stato che hanno accettato grossi vantaggi creditizi in cambio di possibili futuri illeciti favoritismi. Se la relazione si limitasse solo a questo sarebbe di per sé già devastante per le istituzioni, ma manca ancora la più dolente delle note: la responsabilità dei governi sia precedenti che attualmente in carica; l’incipit già di per se non è incoraggiante perché denuncia “tolleranze e, insieme arrendevolezze, quando, ad esempio, il governo ha acconsentito in modo esplicito, ovvero ha col silenzio mostrato di acconsentire che le banche contravvenissero alle leggi e ai regolamenti… ha (sempre il governo) attuato ingerenze quando, esponendo la propria responsabilità, ha preso una parte diretta a far deviare le banche dalle prescrizioni statutarie.”. Il primo ministro a finire sul banco degli accusati è l’ex-Miceli definito ingenuo per aver creduto alle rassicurazioni di Tanlongo nonché colpevole, insieme a Crispi (che lo ammette) e a Giolitti (che continua a negarlo) di aver deciso di nascondere la relazione Alvisi-Biagini per salvaguardare la sicurezza del credito. Su questo punto la commissione d’inchiesta è netta nel dire che fu un errore, protratto dai governi successivi, perché la ragion di stato non può divenire motivo sufficiente per nascondere un cancro di tali dimensioni che, invece, avrebbe dovuto essere denunciato così da poterlo rimuovere sul momento. Viene dunque una reprimenda al governo Giolitti sia per la “misteriosa” scomparsa di documenti sequestrati  a casa Tanlongo la sera dell’arresto dell’ex-governatore, sia per la scelta improvvida di nominare il suddetto a senatore del regno nonostante le informazioni su di lui già in possesso dell’esecutivo. La relazione si conclude con un lungo elenco di nomi di persone (politici, giornalisti e funzionari statali) da censurare per il loro operato nella vicenda e quando vengono citati gli ultimi tre, Crispi, Miceli e Giolitti l’aula diviene una bolgia con l’estrema che urla “In galera!” e “Mettiamo sotto accusa questi ministri!”. Il presidente del consiglio riesce comunque a portare a casa un piccolo successo perché la commissione di inchiesta parlamentare, in merito a sessantamila lire che si era fatto prestare dalla Banca Romana, afferma che esse non erano destinate a spese elettorali e che inoltre non vi sono prove che altro denaro gli sia stato prestato dall’istituto retto da Tanlongo. Ovviamente l’estrema non ci sta a questa “assoluzione per insufficienza di prove” e si scatena contro il governo e l’intero parlamento; teoricamente conclusa la lettura della relazione si sarebbe dovuto procedere al voto di fiducia, ma Zanardelli visto il clima dell’aula e l’ora tarda decise di scogliere la seduta e rimandare tutto al giorno dopo. La relazione, seppur non ha mai riscontrato comportamenti penalmente rilevanti, è politicamente e moralmente devastante per l’intero parlamento, ma al difuori della camera sono solo i giornali a prendere pubblicamente posizione a favore o contro l’esecutivo mentre le piazze rimangono concentrate sulle rivendicazioni sociali. Il 24 Novembre l’estrema si presenta in aula ben agguerrita con l’obiettivo di mettere sotto pressione il governo e la carica viene suonata da Felice Cavallotti, il bardo della democrazia, che chiede sia impedito ai deputati chiamati in causa dalla relazione di dimettersi dall’incarico, allo scopo di non dover rispondere della loro condotta, così che possano invece essere destituiti con un voto parlamentare. Cavallotti però non riesce a concludere il suo intervento perché, d’improvviso, Giolitti si alza e chiede la parola per un incredibile colpo di scena: il governo si è dimesso! Il suo non è stato un atto d’impulso, ma una scelta debitamente calcolata per evitare di essere battuto da una sfiducia parlamentare e l’estrema lo capisce reagendo con rabbia per la perdita dell’occasione per una grande successo politico; Cavallotti tenta di interloquire, ma l’ormai l’ex-presidente del consiglio si alza per lasciare l’aula con il resto dei ministri e allora molti deputati dell’estrema gli si fanno incontro. In quei momenti concitati verranno pronunciate due frasi che resteranno nella storia di questo scandalo perché Cavallotti, fattosi vicino a Giolitti, gli dirà “Non vi darò mai più la mano! Mai più, perché la mia è la mano di un galantuomo…” ricevendo seccamente come risposta “Me la darete ancora, vedrete!”.

Se l’estrema si convinse che, nonostante l’essenza di un voto di sfiducia, aver costretto il governo a dimettersi fosse un successo preludio di una chiamata in causa di tutte le istituzioni del paese, anche la più alta, in merito al malaffare emerso, i suoi entusiasmi subirono un immediato raffreddamento. Al governo venne infatti chiamato, e se avete seguito la storia fino a questo momento non ve ne sorprenderete, proprio Francesco Crispi che subito dimostrò la diversità di approccio rispetto al suo predecessore proclamando lo stato d’assedio in Sicilia e Lunigiana oltre che mettendo fuori legge il neonato partito socialista. A colpi di fucile e di tribunali militari le piazze furo ricondotte all’obbedienza e per questo Montanelli definì il secondo governo Crispi il “pretoriano della borghesia”. Non solo però repressione interna, ma anche espansionismo oltre mare perché, al termine di una lunga e ingarbugliata vicenda diplomatica di cui qui non c’è spazio per parlare, si procedette all’invasione dell’Abissini così da dare anche all’Italia il suo impero coloniale. Questi successi, o presunti tali, finirono però per far perdere a Crispi il senso della misura e lo portarono a gravissimo errore; come detto lo statista siciliano era uno che se la legava al dito e non gli bastava aver visto il governo di Giolitti naufragare miseramente… voleva vendetta vera così diede mandato al ministro della giustizia di avviare le pratiche per il deferimento dell’uomo di Dronero alla giustizia per la famosa sottrazione di documenti a casa di Tanlongo durante la perquisizione. Su questo fatto aveva molto calcato la difesa del sor Bernardo durante il processo penale, di cui parlerò a breve, e parve a Crispi lo strumento perfetto per annientare l’avversario. Giolitti però, sebbene ferito, non era ancora fuori gioco e così, comprendendo ciò che il governo stava preparando, preparò le sue difese: la vicenda è quasi romanzesca e potrebbe benissimo essere uscita dalla penna di Verga o Dumas, fatto sta che la moglie di Crispi aveva per amante il maggiordomo che, dopo essere morto in circostanze mai chiarite, lasciò al figlio un pacco di lettere della signora alcune delle quali di Tanlongo. Il ragazzo, senza soldi, si rivolse a una camiciaia amica del padre, Ernesta Foresti perché faccia da tramite coi Crispi per vendergli le missive; la donna però lavora anche per casa Giolitti e gioca su due tavoli vendendo parte del materiale a uomini del presidente del consiglio e parte a uomini del suo datore di lavoro. Come si erano diffuse le voci su di Giolitti adesso iniziano a diffondersi voci su materiale compromettente contro Crispi e l’uomo di Dronero, con astuzia, lascia che l’attesa cresca chiedendo consigli su cosa fare del materiale a Di Rudinì, Zanardelli e Cavallotti (che come predetto ha riiniziato a dargli la mano vedendo la differenza tra questi e Crispi). L’11 Dicembre 1894 Giolitti si presentò alla camera con un grosso plico che, con un gesto plateale, consegnò alla presidenza della camera perché se ne decidesse il destino; ovviamente il governo avrebbe voluto respingerlo, ma a fronte delle richieste insistenti da più parti venne costretto ad accettare che fosse analizzato da una commissione di cinque membri, tra i quali Cavallotti, che ne riferissero alla camera. Da un punto di vista penale nel plico non vi era niente, ma le lettere di Lina Crispi a Tanlongo, oltre a dimostrare che la famiglia del presidente del consiglio era debitrice di un milione di lire alla Banca Romana, davano un quadro moralmente davvero poco edificante; infatti quando la commissione presentò le sue deludenti conclusioni alla camera Cavallotti sollevò la questione morale (avrebbe in seguito definito “terribile notte” quella in cui aveva letto le carte) chiedendo a Crispi di risponderne. Arrogante come al solito il presidente del consiglio non mollò la prese e, da un lato, convocò nuove elezioni per avere un parlamento più servizievole denunciando contemporaneamente Giolitti alla magistratura ordinaria per uso illecito di comunicazioni private. Si accese una complessa questione di giurisdizione con l’uomo di Dronero che sosteneva quella del senato costituitosi in Alta corte di giustizia e il governo che voleva quella del tribunale ordinario. Amici di Giolitti lo convinsero infiene a lasciare per qualche tempo l’Italia così da evitare il rischio di essere arrestato da una magistratura che stava subendo forti pressioni e ciò ha portato alcuni storici ad affermare che il suo gesto di rendere pubblico il plico sia stato un errore; personalmente non condivido perché, e lo vedremo a breve, l’uomo di Dronero non puntava a compromettere Crispi o far cadere il governo, ma voleva mandare un messaggio e ricordare allo statista siciliano che in quella storia c’era dentro anche lui quindi valutasse bene quello che intendeva fare. La minaccia ebbe il suo effetto e infatti, quando la cassazione riconobbe la giustezza delle argomentazioni di Giolitti in merito alla competenza giuridica del senato, dovendosi votare l’incriminazione il governo cambiò posizione dichiarando che non c’erano elementi. Crispi aveva grossi problemi perché la crisi economica continuava a mordere e quindi valutò che fosse meglio chiudere con la vicenda della Banca Romana per non continuare ad avere questa perenne spada di Damocle su di lui. Qualche mese prima si era provveduto a tacitare anche Tanlongo con l’assoluzione per tutti gli imputati dalle accuse di peculato e falso dopo uno strano processo con un’accusa particolarmente arrendevole. Varie interpretazioni si sono date su questo giudizio palesemente ridicolo, che comunque si limitò a indignare e null’altro, e se alcuni hanno ovviamente sostenuto la tesi delle pressioni dall’alto (un giurato affermò che, prima dell’ultima seduta, tre giurati passarono da colpevolisti a innocentisti) il poeta Pietro Gori, insieme ad alcuni giornali, anche della buona borghesia, avanzò l’ipotesi che i giurati vollero ribellarsi al fatto che a processo fossero finiti gli “strumenti” mentre “gli autori” restavano seduti in parlamento.

Così in un “tutti colpevoli nessun colpevole” si concluse il primo grande scandalo dell’Italia unita. Crispi sopravvisse politicamente solo un anno al voto sull’incriminazione di Giolitti cadendo quando la sua politica coloniale si concluse tra le gole di Adua; uscì di scena abbondonato e vilipeso da tutti, subendo anche l’umiliazione di una censura ufficiale del senato riguardo ad alcune vicende collaterali alla Banca Romana, per morire mezzò cieco nel 1901. Rimandando a un’altra occasione un giudizio su di lui voglio comunque ricordare le parole di Giovanni Amendola che, pur non amandolo, vedendolo nei suoi ultimi giorni di vita lo definì “un rudere gigantesco”. Per Giolitti invece la vicenda della Banca Romana fu solo un inciampo momentaneo e dieci anni dopo tornerà al governo del paese dando inizio a quel fondamentale periodo della nostra storia politico-sociale chiamata in suo onore “età giolittina”.

Veniamo dunque alla mia risposta in merito alla questione per cui è nato questo articolo: perché la vicenda della Banca Romana ebbe effetti così diversi dall’affaire Dreyfus? Benedetto Croce, nel tracciare nel 1928 un bilancio dello scandalo, ritenne che infine questo fosse in positivo perché “col male si ebbe il rimedio, e gli scandali cessarono di essere tali appunto perché furono qualificati e trattati come tali.” al contrario della situazione a lui contemporanea dove “il male si addensa e non scoppia”. Il giudizio ha il suo merito perché in effetti la vicenda della Banca Romana servì a denunciare un marciume ormai presente in molti strati della politica e a superare lo sclerotico sistema dell’emissione monetaria privata, ma resta il fatto che l’opinione pubblica non scese in campo con forza, ad esempio contro il governo, limitandosi ad indignarsi in privato. Eppure se mettiamo a confronto l’affaire Dreyfus e lo scandalo della banca Romana presi unicamente dal punto di vista dell’evento il secondo è molto più grave del primo che, per quanto la vicenda umana sia drammatica, resta un errore giudiziario mentre l’altro è una gigantesca frode ai danni dei creditori di un istituto di credito oltre che una rete di corruzione spaventosa. Secondo me i vari motivi alla base di questa difformità di reazione possono in realtà essere ricondotti a un’unica grande ragione di ordine superiore alla vicenda in se. Partiamo dicendo questo, l’affaire di per se era una vicenda semplice: l’ufficiale d’artiglieria o era colpevole o era innocente, l’esercito o aveva ragione o aveva torto cioè era qualcosa di cui chiunque, leggendo solo anche un riassunto dei fatto, poteva farsi un’idea. Al contrario la questione della Banca Romana presentava delle complessità di natura tecnica non facilmente affrontabile per l’uomo della strada soprattutto in un paese dove ancora quasi la metà della popolazione era analfabeta. La stessa relazione Alvisi-Biagini, pur sconvolgente, restava comunque un documento che, senza avere almeno un infarinatura di questioni finanziarie, risultava di difficile comprensione all’opposto di un “J’accuse” che invece parlava di prove false e processi manipolati. Pensate poi capire se il denaro prestato a quel ministro era legittimo o se quello prestato a quell’altro era corruzione… Aggiungiamo poi che l’opinione pubblica francese era ormai da più di un secolo abituata a prendere anche violentemente posizione sulle questioni politiche che riguardavano il paese, erano citoyen che si sentivano in dovere di difendere i principi su cui credevano dovesse reggersi lo stato; al contrario nell’Italia di fine ottocento, e forse anche in quella di oggi, bisognava ancora, per citare D’Azeglio, fare gli italiani! Cioè l’Italia scontava la colpa di un risorgimento che non fu mai moto di popolo consapevole, se non in rare occasioni, ma l’azione di un elité che poi assunse la guida del paese non riuscendo, e forse anche non volendo, a coinvolgere le masse nella vita politica. Lo stato post-unitario fu, per usare la definizione di Montanelli, quello dei notabili cioè la borghesia tecnica del Nord e i gattopardi del sud. Le masse, soprattutto fuori dalle grandi città, quando votavano raramente lo facevano seguendo un ideologia o di un programma, ma sulla base delle indicazioni appunto del notabile locale; il racconto che ho fatto di come Giolitti entrò in parlamento è lampante: non dovette fare campagna elettorale perché gli bastava essere stato indicato dal precedente deputato locale per vincere! La gente quindi di fronte alla banca Romana si indignò, ma non era stata istruita a fare altro cioè trasformare l’indignazione nella rivendicazione di un principio per cui rimase a guardare convinti che tanto nulla sarebbe cambiato. Ragionando così non è un caso che non ci fu mai una saldatura tra la protesta sociale per la crisi economica e la richiesta di pulizia interna nelle istituzioni, questo perché  mancando una coscienza politica le masse si sentivano in dovere di scendere in campo per chiedere il pane, ma non per pretendere di sapere perché non vi fosse il pane. In Francia, al contrario, le piazze non erano solo per Dreyfus o contro Dreyfus: erano per la repubblica o l’autocrazia, per gli ebrei o contro gli ebrei, per la giustizia o per l’onore dell’esercito… insomma erano in campo per un Principio che aveva nell’affaire solo un detonatore. Anche la Banca Romana avrebbe potuto essere un detonatore, e l’estrema lo sperava, ma l’esplosione fu tutta interna al sistema essendo i Principi sentiti solo da chi vi stava dentro mentre l’uomo della strada rimase ad osservare perché, al di là della semplice questione materiale del fallimento della banca in cui magari c’erano i suoi soldi, non si sentì in altro modo coinvolto nella vicenda.

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