
Tutto ciò che segue è il frutto di riflessioni conseguenti alla lettura di alcuni articoli scritti in occasione della vicenda della rimozione delle statue dei generali e soldati confederati da varie città degli Stati “sudisti”; questi articoli, cercando di contestualizzare l’evento e spiegare il perché di tante e tali passioni scatenate da delle statue, hanno finito inevitabilmente per tornare alla grande ferita mai completamente rimarginata della storia degli Stati Uniti: la guerra di secessione. Più di una volta ho letto che, sebbene vi furono ragioni politiche ed economiche all’origine del conflitto, la questione della schiavitù fu comunque un fattore determinante nella decisione del Sud di separarsi dal resto dell’Unione e a tal scopo vengono citate le affermazioni di importanti personalità confederate, ad esempio il vice-presidente Alexander Stephens, a difesa della “peculiare istituzione”. Al di là però di questo citazionismo, di prove storiche in merito a questa centralità della schiavitù, ad esempio quanto l’abolizionismo spostò voti nelle elezioni del 1860 o se la schiavitù fosse concretamente messa in pericolo dalla vittoria di Lincoln, non ne ho mai trovate. Metto le mani avanti: quello che segue non vole e non deve da nessuno essere usato come un mezzo per giustificare i pigolii tremebondi di Trump rispetto ai fatti di Charlottesville o per benedire la causa di quei gruppi razzisti che difendono le statue del sud sulla base di valori che c’entrano ben poco con gli ideali che, secondo me, portarono il Sud alla secessione. Semplicemente, come spesso ho detto, non amo un’analisi storica orientata più a sostenere una tesi ideologica piuttosto che a comprendere il contesto dei fatti per giungere a spiegarne il verificarsi; ho deciso così di mettere mano alla tastiera per scrivere questo articolo in cui, ovviamente senza la presunzione di un qualche titolarità alla verità assoluta, provo a mettere in luce le ragioni del conflitto tra il Nord e il Sud degli Stati Uniti alla metà dell’ottocento ed il perché quel conflitto provoca reazioni emotive ancora oggi.
Che la guerra civile americana non sia nata solo dalla schiavitù è ormai un assunto, ma provate a pensare: quanto spesso, dopo la formula di rito “ragioni politiche ed economiche”, avete trovato un approfondimento che vi abbia permesso di capire quali fossero tali ragioni politiche ed economiche e del perché furono sentite al punto da portare alla rottura dell’unità del paese? Anche il provare a ricondurre l’essenza ultima del contendere al conflitto tra l’economia a trazione industriale-finanziaria del Nord e la base agricola del Sud permette a sua volta di scalfire solo la superfice di una situazione che aveva portato gli Stati Uniti, in quel Novembre 1860 in cui il Sud Carolina per prima decise la secessione, ad essere divisa in due mondi contrapposti e l’un contro l’altro armati. Questa divisione aveva radici lontanissimi, addirittura all’alba della colonizzazione. Il Nord nasceva dall’emigrazione puritana e, sebbene nei secoli quello spirito di fervore religioso fosse andato diluendosi, l’antico retaggio calvinista rimase sempre parte integrante del DNA yankee favorito anche dal fatto che l’ambiente aspro e montagnoso del New England favoriva lo sviluppo del commercio marino e delle attività manifatturiere. Il Sud invece non aveva conosciuto l’imporsi di un forte elemento ideologico unitario com’era stato quello puritano, favorendo quindi l’affermarsi di una maggiore libertà di pensiero che si era tradotto in un più marcato individualismo; a questa base ideale dobbiamo poi aggiungere che l’assetto geografico e climatico del meridione si sposava perfettamente con l’affermarsi dell’attività agricola. Ovviamente lo sviluppo di un’economia agraria scoraggiava il concentrarsi della popolazione negli agglomerati urbani, come invece succedeva a Nord con città come Boston o New York, e ciò da un lato favoriva ulteriormente lo spirito individualista, ma allo stesso tempo portò alla nascita di grandi proprietà terriere nelle mani di un’aristocrazia agita (fondata però non sul sangue com’era invece nel vecchio continente). Così, alla l’alba della rivoluzione, se l’elité del Nord era mercantile-finanziaria di carattere urbano-borghese (es. John Hancock era un uomo d’affari tra i più ricchi del nuovo mondo mentre Benjamin Franklin era un tipografo) quella del Sud era invece agraria rurale-aristocratica spesso animata da un bonario paternalismo conservatore. Certo la rivolta contro gli inglesi iniziò nel Nord, ma dopo l’indipendenza la guida politico-ideologica dell’Unione fu marcatamente di impronta sudista e a dimostrare ciò basta constatare che, dei quattordici presidenti che vi furono tra Washington e Lincoln, ben otto venivano dal meridione (6 dalla Virginia e 2 dal Nord Carolina) mentre i restanti sei di provenienza nordista, eccezion fatta per John Adams e suo figlio (la cui elezione fu comunque una delle più contestate della storia), vinsero tutti grazie all’appoggio degli stati del Sud (dopo la guerra civile solo quattro presidenti vennero dagli Stati della secessione e il primo, Jimmy Carter, nel 1976). Tra questi otto presidenti provenienti dal Sud tre, Jefferson, Madison e Monroe, sebbene fossero proprietari di grandi piantagioni in cui si faceva ampio uso di manodopera schiavista, rientrano tra i Padri Fondatori della Nazione ed anzi proprio Thomas Jefferon, creando il partito Democratico, gettò le basi dell’opposta visione ideologica sulla natura dell’Unione rispetto al progetto dei federalisti di Adams ed Hamilton. Questi ultimi, legati al ceto affaristico-mercantile del Nord, sostenevano un governo centrale forte, un limitato protezionismo e un’interpretazione aperta della Costituzione con conseguente limitazione dell’autonomia dei singoli stati, ciò al fine di garantire a imprenditori e mercanti quelle sufficienti certezze di politica economiche unitaria all’interno delle quali poter operare. A contrario Jefferson e i Democratici, esprimendo in gran parte lo spirito dell’individualismo sudista, sostenevano i diritti degli Stati, il decentramento dei poteri dello Stato, il libero commercio e una interpretazione letterale della Costituzione. Questo conflitto ideologico ovviamente non era di per se sufficiente a scatenare un conflitto politico mortale all’interno dell’Unione ed infatti per anni il Partito Democratico tendenzialmente dominò la politica americana grazie all’asse tra l’elité del sud, le masse popolari e gli ancor poco rilevanti coloni (frontiersman) che iniziavano a spingersi verso ovest. In questa fase la schiavitù fu più un argomento di discussione tra la stessa elité agraria del meridione che un problema su cui vi fosse un dibattito nazionale; al Nord poco importava che il Sud avesse la sua “peculiare istituzione” mentre nel Sud, pur riconoscendone da molte parti il problema etico-morale, se ne constatava il legame quasi indissolubile con l’intera economia del meridione. Non a caso il primo conflitto tra governo centrale e uno Stato dell’Unione, lo scontro nel 1832 tra il Presidente Jackson e il Sud Carolina a causa dell’aumento dei dazi commerciali, riguardò interamente il principio dell’autonomia dei singoli Stati; in quell’occasione, allorché Jackson inviò flotta ed esercito per imporre il rispetto della legge, il Sud Carolina non si fece scrupolo a mobilitare la sua milizia a dimostrazione di come gli Stati meridionali fossero, già trent’anni prima della secessioni, pronti a difendere con le armi quelli che ritenevano fossero i loro diritti. Fu sempre allora che John Calhoun, una delle più eminenti personalità politiche del Sud, stilò il manifesto di quella che sarebbe stata la base ideologica della Confederazione. Come ha sintetizzato Raimondo Luraghi il fondamento del pensiero di Calhoun era che “L’Unione non erano uno stato federale, ma una confederazione di stati indipendenti e sovrani. La suprema autorità non risiedeva pertanto nel governo federale, ma in coloro che avevano posto in essere l’Unione: nei governi (o meglio nei popoli) degli Stati”. Era un quadro ideologico completamente opposto a quello che sarebbe stata l’idea della Great Republic di Lincoln. Sempre Luraghi poi spiega come Calhoun espresse anche il timore per il rischio della dittatura della maggioranza; era ovvio che in democrazia chi otteneva la maggioranza avesse il diritto di governare, ma questo diritto non poteva estendersi sino al punto di calpestare la minoranza. Questo ragionamento nasceva dall’inizio di presa di conoscenza da parte degli Stati del Sud del rischio di poter divenire minoranza all’interno dell’Unione e quindi di perdere non solo la leadership politica del paese, ma anche ogni forza contrattuale rispetto al Nord e al governo centrale. Questa preoccupazione ebbe le sue radici come indiretta conseguenza della sempre maggior spinta alla colonizzazione dell’ovest che, paradossalmente, era incoraggiata proprio dai Democratici del Sud, i quali desideravano nuova terra vergine da mettere a disposizione della loro agricoltura. Con Thomas Jefferson si era avuto l’acquisto della Louisiana francese nel 1803 che non comprendeva solo l’odierno stato della Louisiana propriamente detto, ma 2.140.000 km2 di territorio che andavano dalle sponde del Mississippi a quello che sarebbe passato alla storia come selvaggio West. Si trattava praticamente di quasi un 1/3 degli odierni Stati Uniti e per lo più era terra inabitata (o meglio c’erano gli indiani però….) che facevano ovviamente gola tanto agli agricoltori del meridioni quanti alle masse urbane del Nord desiderose di sfuggire alla miseria. Fu in questo contesto che emerse per la prima volta la questione della schiavitù in quanto nel 1820, allorché si decise di elevare il Missouri a Stato, dal Nord si chiese che ciò avvenisse vietandovi la schiavitù. La ragione di tale richiesta non stava in motivazioni di carattere etico o morale, ma politiche in quanto vietando la schiavitù si sarebbe di fatto chiuso il nuovo Stato ai coloni del Sud in favore invece di quelli del Nord. Chi veniva dal settentrione infatti tendeva a diventare un piccolo proprietario terriero che curava personalmente il suo podere e quindi temeva la concorrenza “sleale” del colone del meridione che, tramite la schiavitù, poteva gestire ampie piantagioni minacciando quindi di mettere fuori dal mercato i piccoli agricoltori. Nacque così il movimento dei freesoiler cioè quei coloni, principalmente del Nord, che chiedevano il divieto della schiavitù nei territori ad ovest del Mississippi; a loro nulla importava se il Sud manteneva o meno la sua “peculiare istituzione” purché non tentasse di estenderla nelle terre ancora libere. In sostanza i freesolier più che provare pena per gli schiavi, li temevano in quanto finivano per soffocare il lavoro libero dei piccoli agricoltori. Il Sud però non poteva rinunciare ai territori per due motivi: uno di carattere economico e uno di natura politica. In primo luogo infatti l’agricoltura del meridione, condotta ancora con metodologie arretrare, aveva sempre bisogno di nuova terra coltivabile per supplire a quella che col tempo diveniva sterile causa lo scarso uso di concimi o di mezzi meccanici. In secondo luogo, e qui torniamo al discorso della paura del Sud di divenire minoranza, ogni nuovo Stato che sarebbe sorto avrebbe portato ad un’alterazione degli equilibri politici del paese. Infatti il meridione aveva accettato come inevitabile la perdita della Camera dei rappresentanti perché, essendo questa eletta in maniera proporzionale alla popolazione dei singoli Stati, era inevitabile che i più popolosi Stati del Nord, per altro punto d’arrivo dell’immigrazione europea, avrebbero finito per prevalere. Il Senato però era diverso perché qui ogni Stato aveva diritto a due rappresentanti e quindi il Sud contava di potervi conservare il pareggio. Dividendo infatti gli Stati Uniti sulla base della così detta linea Mason-Dixon, e quindi considerando come Sud gli Stati sotto di questa più il Delaware (dove la schiavitù era legale anche se in via d’estinzione), nel 1796 con l’elevazione del Tennessee a Stato nel Senato meridione e settentrione si equivalevano per numero di senatori. Da quel momento in poi per mantenere l’equilibrio si era proceduto a un sistema di compensazione in base al quale ogni ingresso di uno stato nordista doveva esse pareggiato dall’ingresso di uno stato sudista e viceversa. Così all’ingresso dell’Ohio nel 1802 aveva fatto seguito quello della Louisiana nel 1812, all’Indiana nel 1816 il Mississippi nel 1817 e infine l’Illinois nel 1819 era stato compensato dall’Alabama nel 1819; così al momento della discussione sul Missouri la situazione al senato era di undici stati nordisti e 11 stati sudisti dove la schiavitù era legale. Nel Sud si sapevano fare i conti e non ci volle molto perché si capisse che, se il Missouri fosse stato elevato a Stato con la pregiudiziale del divieto della schiavitù e dunque dominato dai coloni settentrionali, ciò avrebbe fatto saltare l’equilibrio al Senato; non solo, ma un Missouri anti-schiavista sarebbe di fatto divenuto un argine per l’afflusso di ulteriori coloni meridionali nei territori dell’Ovest. Il risultati sarebbe stato che in questi territori sarebbero nati nuovi Stati tutti controllati da freesoiler nordisti finendo appunto per rendere gli Stati del Sud minoranza del paese e dunque soggetti al possibile arbitrio della maggioranza del Nord Nord-Ovest. Il timore non era ingiustificato perché la spinta dei frontiersman del Nord, avvantaggiati da un maggior sviluppo della rete ferroviaria nel settentrione e dal sorgere di grandi città di frontiera come Chicago, era molto superiore a quella dei coloni del Sud i quali, senza il contrappeso di poter esportare nei Territori la grande proprietà terriera schiavista, non erano in grado di tenere il passo. Per evitare lo scontro i moderati di entrambi gli schieramento lavorarono a un compromesso, passato alla storia come compromesso del Missouri, in base al quale il Missouri sarebbe divenuto Stato senza il divieto della schiavitù, venendo però immediatamente pareggiato dalla contemporanea elevazione a Stato del Maine così da mantenere l’equilibrio al Senato; a ciò però si aggiunse che ad Ovest del Mississippi nessun nuovo Stato schiavista sarebbe più potuto sorgere a Nord del 36° parallelo. I più tirarono un sospiro di sollievo mentre pochi compresero che il compromesso finiva solo per rimandare sine die il problema del conflitto tra freesoiler e coloni settentrionali. E infatti il problema si ripropose sempre uguale e sempre con maggior acredine tra le parti ogni volta che entrava in discussione la nascita di nuovi Stati nell’Ovest. Così nel 1850, dopo la vittoriosa guerra col Messico, si tornò a litigare in merito alla California, che voleva entrare con una costituzione antischiavista, al Texas, schiavista che però rivendicava un’immensa porzione di quello che oggi è conosciuto come New Mexico, e più in generale di nuovo sull’organizzazione
dei Territori. A chiedere che fosse l’Unione, e quindi il governo centrale, a stabilire la liceità della schiavitù in essi erano ancora una volta i freesoiler, appoggiati dal Nord, e al cui interno si stava sviluppando il movimento dei freehomsteads cioè coloro che chiedevano l’assegnazione gratuita a ogni capi famiglia che ne faceva richiesta dei poderi dei Territori in quanto demanio dell’Unione. Questa pretesa era stata originariamente combattuta dai gruppi industriali del settentrione, che temevano lo spostamento verso ovest degli operai con conseguente aumento dei costi del lavoro, ma adesso era guardata con terrore dal Sud che vi vedeva il via libera all’apertura della cataratta dell’immigrazione dei coloni del Nord. Gli Stati sudisti poi combattevano decisamente l’idea che fosse l’Unione a legiferare in materia di schiavitù nei Territori e, ancora una volta, non era la schiavitù in se per se l’oggetto della discussione, ma la difesa del principio caro al meridione dei diritti degli Stati intangibili dal governo centrale. Per il Sud spettava ai nuovi Stati, quando questi avessero chiesto l’ingresso nell’Unione, legiferare autonomamente in materia di schiavitù essendo questa una materia interna ad essi; ciò ovviamente nella speranza di poter tirare su altri due-tre stati filo-sudisti che permettessero al meridione di mantenere il pareggio al Senato. Ancora una volta si riuscì a trovare un delicato compromesso, ma stavolta mandato giù molto più forzatamente da entrambe le parti rispetto a quanto era avvenuto nel 1820; gli schieramenti si stavano irrigidendo nelle loro posizioni e non ci volle molto perché il clima tornasse a scaldarsi. Nel 1854, con già sul tavolo la discussione del tragitto della prima ferrovia transcontinentale, Stephen Douglas, leader dei Democratici ed espressione del Medio Ovest che voleva trattare il Sud da pari a pari, propose una norme per organizzare il territorio del Nebraska, da tempo meta principale dei coloni di tutto il paese. Teoricamente il Nebraska, essendo a nord del 36° parallelo, avrebbe dovuto essere libero dagli schiavi, ma il Sud opinava che avendo accettato una California anti-schiavista, sebbene parte di questo Stato fosse a sud della linea di demarcazione, il compromesso del Missouri e con esse il limite del 36° parallelo era di fatto decaduto. Douglas, che sperava di riuscire a tenere insieme Unione e Partito Democratico, si inventò così il Kansas-Nebraska Act in base al quale sarebbero stati creati due territori con l’implicito scopo di destinarne uno ai coloni del Nord e l’altro a quelli del Sud. Purtroppo Douglas, che aveva buona parte della sua base elettorale nei frontiersman, tentò di non alienarsi interamente il loro supporto introducendo nella legge la dottrina della sovranità dei pionieri in base alla quale nelle materie inerenti ai Territori, e quindi anche sulla schiavitù, non avrebbe deliberato l’Assemblea Statale dopo l’elevazione del territorio a Stato, ma l’Assemblea territoriale provvisoria. Il risultato fu che il Kansas fu letteralmente invaso da coloni sia del Nord e del Sud nel tentativo di sposare l’equilibrio a favore dell’una o dell’altra parte nel momento in cui si sarebbe eletta l’assemblea. Non ci volle molto perché tra i due schieramenti iniziassero gli scontri e ben presto il Kansas si trovò in piena guerra civile con due assemblee elette: una dei frontiersman del Nord, che votava per l’esclusione della schiavitù, e una dei coloni del Sud che invece varava norme a tutela della peculiare istituzione. Il Sud così aveva finito per alienarsi completamente i frontiersman, che erano uno dei principali bacini di voto di quel Partito Democratico che incarnava ancora quegli ideali jeffersoniani tanto cari al meridione. Questa frattura avvenne poi in un momento in cui il Sud era già da anni ormai entrato in piena rotta con il Nord. Lo scontro stavolta era nato come economica per diventare poi politica: la rivoluzione industriale aveva trovato terreno fertile nel settentrione, ma la giovane industria americana, per essere competitiva rispetto ai migliori e più a buon mercato prodotti che giungevano dall’Europa, chiedeva adesso una svolta protezionista così da avere un grande mercato interno di riferimento. Sebbene orientato al libero commercio il Sud, a suo tempo, non aveva disprezzato una minima dose di protezionismo al fine di poter più facilmente vendere i suoi prodotti agricoli al Nord; però con l’invenzione nel 1797 della cotton gin (una macchina per sgranare il cotone) gli Stati del Sud erano divenuti progressivamente una gigantesca piantagione di cotone giungendo ad esserne i principali produttori a livello mondiale (46.535.000 kg raccolti nel solo 1816). Una svolta protezionista avrebbe ovviamente reso più difficile al Sud rivendere il suo cotone sui mercati europei, obbligandolo allo stesso tempo ad acquistare i prodotti manifatturieri di minor qualità del settentrione; come scrive sinteticamente Raimondo Luraghi il Sud non ci stava a pagare il costo della rivoluzione industriale del Nord. Di fatto non era un conflitto eccezionale o diverso rispetto a quelli che, all’incirca negli stessi anni, avvenivano in Europa tra la città industrializzata e le campagne in via di spopolamento, tra il romanticismo e il positivismo, tra gli ultimi retaggi della società dell’ancien regime e l’attivismo della borghesia trionfante. La differenza era però che negli Stati Uniti la rivoluzione industriale aveva prodotto anche un mutamento sociale nel Nord in quanto, alla vecchia classe mercantile, adesso si stava sostituendo una nuova classe imprenditoriale che aveva idee completamente diverse di quali dovessero essere in rapporti con il Sud. Se infatti subito dopo l’indipendenza i commercianti del New England avevano accettato di lasciare la leadership politica dell’Unione all’elité del Sud per poter meglio perseguire i loro affari, ora gli industriali di New York e della Pennsylvania non era disposti ad accettare questa pretesa di un primato politico del meridione se ciò voleva dire porre un argine allo sviluppo della rivoluzione industriale. Va precisato che anche per questi nuovi imprenditori la peculiare istituzione del Sud non era fonte di patemi morali, dopotutto si potevano fare ottimi affari con i coltivatori di cotone, ma il Sud doveva scendere dal suo piedistallo e accettare quanto meno una coabitazione del potere. Gli Stati sudisti, che avevano un malcelato disprezzo per il gretto e cinico affarista del Nord, scelsero invece di scendere in trincea in difesa della loro posizione e del loro mondo e ciò favorì l’effetto più deleterio a cui sarebbero potuti andare incontri: i businessman del Nord atlantico finirono per allearsi con i frontiersman dell’Ovest creando un Nord compatto a falange nel pretendere dal Sud un giro di vite nella politica e nell’essenza dell’Unione. Gli Stati sudisti iniziarono così a sentirsi sotto assedio; da lontano vedevano riemergere l’ombra del federalismo di Adams ed Hamilton, con la conseguente limitazione del diritto degli Stati a favore dell’Unione, mentre il protezionismo e la chiusura degli spazi per la colonizzazione dell’Ovest minacciavano quell’economia agraria che era la base della società del meridione. Fu a questo punto che al Nord si ebbe la brillante idea di spingere il confronto sull’unico terreno su cui il Sud non avrebbe mai potuto vincere: la schiavitù. In effetti protezionismo, diritto degli stati, diritti dei coloni dell’Ovest erano temi settoriali e tecnici che non potevano fare presa su tutta la popolazione indistintamente da Boston, a New York, a Chicago sino alla frontiera; la schiavitù invece era qualcosa che, sebbene solo una minoranza ne chiedesse l’immediata abolizione, faceva storcere il naso un po’ a tutti al di sopra della linea Mason-Dixon. L’abolizionismo negli Stati Uniti era di due tipi: uno moderato e uno radicale. Il primo era il più risalente e, come detto, era nato proprio nel Sud dove, già dopo la rivoluzione, la sua elité iniziò a interrogarsi sulla peculiare istituzione; uomini come Jefferson e Madison ammettevano senza problemi che questa era moralmente ed eticamente indifendibile, ma argomentavano anche che si trattava di una scomoda eredità che gli era stata imposta e che solo un’abolizione progressiva poteva evitare il collasso completo dell’economia e della società del meridione. Inoltre queste personalità si preoccupavano anche di quale effetti avrebbe avuto un’emancipazione non adeguatamente preparata sulla stessa popolazione di colore che, sia per assenza di una loro struttura sociale sia per i pregiudizi della popolazione bianca, avrebbe faticato ad inserirsi nella vita dell’Unione (timori simili vennero anche da Tocqueville nel suo “La Democrazia in America”). Questa linea di un’emancipazione a fasi era condivisa anche dai moderati del Nord, tra i quali lo stesso Lincoln, i quali comprendevano le difficoltà oggettive che avrebbe incontrato il Sud se si fosse sbarazzato della schiavitù dall’oggi al domani; il meridione dunque doveva essere accompagnato a un superamento per morte naturale della sua peculiare istituzione. L’abolizionismo radicale fu invece un prodotto interamente dello spirito puritano del Nord, il quale nonostante positivismo e rivoluzione industriale covava costantemente sotto la cenere, e per esso la schiavitù non era una materia politica o economica, ma morale. La peculiare istituzione del Sud era un peccato, un’aberrazione contro cui andava condotta una santa crociata e non ci volle molto perché dalla condanna della schiavitù si passasse alla condanna dell’intero Sud in quanto tale, indicato come il regno di Satana sulla Terra. Ovviamente il meridione, dalle teste calde ai più moderati, rispose indignato e furante a questa rappresentazione falsata e caricaturale che produsse l’unico risultato di aumentare la paranoia e il sentimento da assedio negli Stati del Sud. Fino agli anni ’40 dell’ottocento questo abolizionismo radicale, per quanto rumoroso, rimase largamente minoritario e inascoltato nel Nord finché il Nord non decise di usarlo per spingere nell’angolo gli Stati del meridione. Fu a questo punto che il Sud commise il suo più grande errore che lo condanno inevitabilmente alla catastrofe: accettò lo scontrò sul campo della schiavitù cioè su un’istituzione non solo moralmente sbagliata, ma anche economicamente e storicamente in via d’estinzione. Il risultato fu che anche i sudisti moderati iniziarono una disperata e patetica difesa della peculiare istituzione con teorie obbiettivamente fragili come quella del bene positivo. Perché commisero una tale ingenuità? Personalmente concordo con Luraghi quando afferma che il Sud scelse di difendere la schiavitù non per la schiavitù in sé, ma perché questa faceva parte della più ampia difesa dell’essenza della società sudista
e del principio dell’autonomia degli Stati; per il meridione anche la peculiare istituzione faceva parte di quelle materie interne ai singoli Stati su cui solo questi avevano diritto di legiferare. In sostanza il Sud rifiutava di farsi dare lezioni di morale e di farsi imporre la linea dal Nord o dal governo federale su una questione che, erano convinti, dovesse essere discussa esclusivamente nelle Assemblee statali. Su un piano teorico giuridico il ragionamento ci poteva pure stare, nella sostanza non era niente di più di ciò che aveva teorizzato Jefferson e che era dottrina per il Partito Democratico, ma accettando, come da intenzione delle classi dirigenti del Nord, di legare questo principio ideologico alla schiavitù, che tutto corrompeva e sporcava, si finiva per renderlo di riflesso a sua volta indifendibile. Il dipingere a tinte fosche il meridione era poi tanto più facile perché la stragrande maggioranza della popolazione del Nord non aveva una conoscenza diretta della realtà della schiavitù. Servirebbe un articolo a parte per descrivere l’essenza autentica della peculiare istituzione in tutti i suoi aspetti; qui limitiamoci a dire che il padrone modello Leonardo di Capri in “Django” di Tarantino era più unico che raro mentre la stessa “La capanna dello zio Tom”, del cui valore letterario non si discute, era alquanto carente come raffigurazione documentale del Sud. Senza scendere nel dettaglio la schiavitù nel Sud degli Stati Uniti aveva, sebbene fossero passati dei secoli, molte somiglianze con ciò che era stata la schiavitù nell’antica Roma e quindi una profonda differenza di condizione tra schiavi da lavoro e schiavi domestici nonché una pluralità di tipi di padrone che andavano dal sadico, al bonario che era solito intrattenersi a dialogare con i suoi servitori fino a quello che lasciava la gestione della piantagione in mano a uno schiavo di fiducia chiudendo anche un occhio se questo si intascava qualcosa. Ovviamente questa non vuole essere una difesa della schiavitù in quanto non può e non si deve dimenticare la frusta, i linciaggi e il fatto che queste persone fossero una proprietà, ma credo che fossero in buona fede quei proprietari i quali ritenevano che la condizione di uno schiavo nel Sud fosse per certi aspetti migliore rispetto a quella di un operaio del proletariato urbano nel Nord. Certo c’era il razzismo, ma, almeno per la maggioranza dell’elité del Sud, questo non era poi molto diverso da quello diffuso nel Nord o in Europa dove un qualsiasi inglese, francese o tedesco era perfettamente convinto che la società occidentale fosse in missione civilizzatrice dei restanti 3/4 del mondo. Il razzismo squallido, odioso e volgare della segregazione sarebbe giunto dopo e, lo vedremo a breve, come frutto avvelenati della guerra civile ad opera soprattutto della masse popolari, che da sempre avevano in odio gli schiavi perché riducevano le possibilità di lavoro.
Mi sembra a questo punto di aver portato un sufficiente numero di elementi a riprova di quanto il tema della schiavitù in sé fosse stato in realtà marginale, o meramente strumentale, nel creare i presupposti per la scelta del Sud di uscire dall’Unione all’indomani della vittoria di Lincoln. Certo non ho qui esposto tutte le ragioni economico politiche che favorirono il progressivo allontanamento delle due parti, si potrebbe discutere anche del solo accennato tracciato della ferrovia transcontinentale o della Fugitive Slave Law o ancora del raid di John Brown, ma credo di aver messo in evidenza le radici fondamentali del dissenso. Mi sento quindi di dire che il Sud vide nella vittoria di Lincoln l’avverarsi di quello che era stato il timore di Calhoun cioè la dittatura della maggioranza degli Stati del Nord che avrebbero imposto a quelli del Sud una stretta sulla materia dei diritti degli Stati, favorito una svolta protezionistica dannosa per l’economia del meridione e infine dato piena soddisfazione al movimento dei freesoiler vietando la schiavitù nei Territori, e di fatto precludendoli all’immigrazione dal meridione. Il Sud insomma nel Novembre 1860 più che temere l’abolizione della schiavitù temeva di essere costretto ad accettare la resa sul piano del controllo politico dell’Unione il che implicava, dal suo punto di vista, l’inizio della fine per quello che era il suo universo sociale ed economico. La secessione, che negli anni era progressivamente passato da essere il grido di pochi esaltati a una concreta alternativa presa in considerazione anche dai moderati, fu interpretato come l’unico strumento per garantire la sopravvivenza del Sud. Va detto che la colpa di questa situazione va dato in gran parte allo stesso Sud che decise di suicidarsi nel 1860 rompendo l’unità di quel Partito Democratico che, in quel momento, era l’unica forza propriamente nazionale che vi fosse negli Stati Uniti. Il giovane Partito Repubblicano era infatti, prima ancora che il partito dell’abolizione, il partito del Nord così come Lincoln invece che espressione dell’abolizionismo radicale, di cui lui non fece mai parte, era in prims espressione dei frontiersman freesoiler. Agli stati del Sud sarebbe bastato appoggiare Stephen Douglas, che aveva ancora molto supporto nell’Ovest, per garantirsi la vittoria, ma per far ciò avrebbe dovuto accettare quella condizione minima che Douglas pretendeva e cioè che l’Ovest fosse trattato come un pari grado nella gestione politica dell’Unione. Il Sud, forse anche per una quota di disprezzo aristocratico per questo parvenu, non volle e non poté accettare questa condizione, ma così condannò di fatto i Democratici alla sconfitta in quanto ai Repubblicani bastò fare quasi punteggio pieno negli Stati del Nord per vincere. Per la prima volta, se si fa esclusione di Adams padre e figlio, un Presidente era stato eletto nonostante e contro il voto del meridione; per il Sud non ci poteva essere nulla di più preoccupante. Alle elezioni del 1860 dedicai uno dei miei primi articoli per cui rimando a questo per i dettagli su quella campagna elettorale. Voglio però ancora dimostrare come, di fatto, l’elité sudista avesse poco da temere da Lincoln in merito alla permanenza della peculiare istituzione; il nuovo presidente nel suo indirizzo inaugurale, a secessione del Sud già avvenuta, disse “Io dichiaro che non ho alcuna intenzione di interferire, né direttamente, né indirettamente, nell’istituzione della schiavitù in quegli Stati ove essa esiste. Credo di non avere alcun diritto legale di fare ciò, e non ho alcuna inclinazione a farlo.”. Queste parole erano in linea con il suo atteggiamento moderato e progressivo in merito al superamento della schiavitù; dove però Lincoln non era disposto a negoziare era sul fatto che “l’Unione di questi Stati è perpetua” rivendicando quindi il diritto del governo centrale di restaurare l’ordine nel meridione dove era stata posta in essere un’inesistente ed incostituzionale secessione. Disse insomma al meridione: gli Stati non possono fare ciò che vogliono e se lo fanno è diritto e dovere del governo federale fargli una tirata d’orecchie o anche peggio. Ancora è secondo me facile dimostrare come per tutto il periodo della guerra di secessione la schiavitù fu più uno strumento di propaganda piuttosto che una ragione del combattere tanto per il governo dell’Unione che per quello della Confederazione. A sostegno di ciò basta vedere che le iniziative legislative di Lincoln in materia di schiavi non hanno certo il timbro dell’abolizionismo, anche perché quattro Stati schiavisti erano rimasti nell’Unione; infatti i due atti più importanti furono l’offerta di una compensazione da parte del governo federale a qualsiasi padrone che avesse liberato i suoi schiavi e la disposizione che vietava la schiavitù nei Territori atto che, più che a favore dell’abolizione, era a favore dei frontiersman freesolier che erano la base elettorale di Lincoln. Anche il Proclama di Emancipazione del 22 Settembre 1863 nacque soprattutto allo scopo di propagandare all’estero la tesi della guerra contro la schiavitù; infatti creava il paradosso che erano considerato ope legis liberi, come misura di necessità bellica, tutti gli schiavi presenti negli Stati che avevano aderito alla Confederazione, ma non quelli degli Stati schiavisti rimasti nell’Unione (Missouri, Maryland, Delaware e Kentucky) nonché quelli dei territori del Sud riconquistati e che avevano costituito dei governi filo-unionisti (area di New Orleans, Tennessee e West Virginia). Lo scopo del Proclama venne raggiunto in pieno perché rese più difficile per Francia e Gran Bretagna poter riconoscere la Confederazione senza rischiare condanne in Europa da parte di chi, in buona fede, credeva che il motivo del contendere fosse solo la schiavitù; in effetti pochi nel vecchio continente riuscirono a vedere al di là della cortina fumogena alzata dal Nord e tra questi Giuseppe Mazzini, che disse senza mezzi termini che la vera questione erano i diritti e l’autonomia degli Stati rispetto al governo federale. Infine lo stesso XIII emendamento, che aboliva la schiavitù nell’Unione, nacque e fu inteso da Lincoln con scopi tutt’altro che ostili nei confronti del meridione e della sua peculiare istituzione. Intanto il Presidente lo volle perché sapeva che il suo Proclama di Emancipazione era stato una forzatura giuridica che le corti avevano accettato solo perché sostenuto dalla necessità del tempo di guerra, ma, quando gli Stati del Sud sarebbero rientrati con pieni diritti nell’Unione, c’era il rischio che i tribunali non fossero più così accomodanti. Lincoln voleva sia evitare lo smacco di vedersi dichiarato incostituzionale quell’importantissimo documento, sia impedire che la schiavitù diventasse materia di cause giudiziarie, cosa che avrebbe reso più difficile l’opera di pacificazione nazionale. Solo un emendamento costituzionale gli avrebbe permesso di fare ciò, ma il Presidente mise il chiaro che tale emendamento più che immediatamente esecutivo doveva essere programmatico; Lincoln insomma restava sulla sua posizione che il Sud andasse accompagnato ad abolire la schiavitù, magari però dandogli una vigorosa spinta a compiere il primo passo. Ciò appare evidente sia dal così detto piano dei quattrocento milioni di dollari, sia dalla conferenza di Hampton Roads. Col primo si intende una proposta che Lincoln fece durante una riunione di governo in merito al dopo guerra; in opposizione a chi chiedeva di spezzare la schiena al meridione il Presidente propose: nessuna confisca di proprietà, restituzione di quelle già confiscate (tranne gli schiavi) e uno stanziamento di quattrocento milioni di dollari, da versare agli Stati del Sud in proporzione agli schiavi in ognuno di essi, per compensare i padroni della perdita della loro manodopera. La conferenza di Hampton Roads del 3 Febbraio 1865 fu invece l’estremo tentativo da parte di Lincoln di giungere a una pace con la Confederazione che evitasse un ulteriore spargimento di sangue; il governo del Sud vi era favorevole perché sapeva che la guerra era ormai persa, ma sperava che, evitando la resa incondizionata, si potesse salvare qualcosa del progetto confederato. Nell’ottimo film di Spielberg si fa credere che questa trattativa sia fallita a causa dell’ostilità dei delegati sudisti ad accettare il XIII emendamento, ma i resoconti di entrambe le parti negano questa versione. Lincoln infatti spiegò ancora una volta che l’emendamento era programmatico e che a lui sarebbe bastato che il meridione lo accettasse in via di principio riservandosi di indicare il termine ultimo della sua completa attuazione; anche Seward, il potente Segretario di Stato dell’Unione, spiegò che il Sud, rientrando subito con pieni diritti nell’Unione, avrebbe potuto rifiutare la ratifica dell’emendamento facendo mancare il numero legale dei 3/4 di Stati per la sua entrata in vigore (in effetti il Texas lo avrebbe ratificato solo nel 1870 e il Mississippi addirittura nel 2013). Ovviamente tale possibilità era puramente accademica in quanto il Presidente stava già lavorando per ottenere l’assenso del Sud e aveva già in tasca il Sì di tre Stati della morente Confederazione (Tennessee, Giorgia e Louisiana), ma serviva a dimostrare come la schiavitù non fosse una condicio sine qua non per la pace. E ciò sarebbe stato illogico visto che anche nella stessa Confederazione il governo si era orientato da tempo per la liberazione degli schiavi sia per poterli arruolare nell’esercito, sia per un’illusoria ultima speranza di riconoscimento internazionale. La Conferenza di Hampton Roads dunque fallì perché non si poté trovare l’accordo su quella che era la vera questione del contendere: lo status giuridico della Confederazione. Per Lincoln non esisteva alcuna Confederazione in quanto la secessione era illegale e dunque il meridione doveva accettare la potestà del governo federale; al contrario i delegati sudisti affermavano che la Confederazione era una Nazione a tutti gli effetti e quindi si stava negoziando la pace tra due paesi belligeranti. La questione non è di lana caprina perché ritornava all’essenza della ragione per cui il Sud aveva combattuto: accettare la posizione di Lincoln implicava riconoscere che i diritti degli Stati non prevalevano sul governo federale e che quindi la Costituzione andava lettera nel senso che questa dava dei poteri impliciti all’Unione per agire anche sulle materie domestiche dei singoli Stati. I delegati del Sud non potevano accettare ciò perché voleva dire negare l’essenza stessa della loro lotta! Secondo Luraghi il vice-presidente della Confederazione Alexander Stephens avrebbe accettato anche di discutere di uno status speciale del Sud all’interno dell’Unione, ma il Congresso della Confederazione gli aveva dato il mandato vincolante di non cedere di un solo punto su quella materia.
Molti storici hanno scritto che l’omicidio di Lincoln generò sconforto nella classe dirigente del Sud e malcelata soddisfazione nell’ala radicale del Partito Repubblicano. Forse è un’esagerazione, ma è certo che il delitto mise fuori gioco l’uomo che voleva un ritorno quanto più indolore del Sud nell’Unione, dando allo stesso tempo campo libero a chi invece voleva la pace cartaginese. E in effetti la pace che giunse fu una pace diretta a umiliare e spezzare la schiena moralmente ed economicamente al meridione. Ciò ebbe secondo me conseguenze catastrofiche perché incattivì il Sud il quale accettava di aver perso, ma non accettava di rinnegare i motivi per cui si era combattuta la lotta. Ecco dunque secondo me perché vennero erette tante statue agli eroi della Confederazione e perché acquisirono quel valore emotivo così forte; esse servivano a rivendicare la giustezza morale alla causa, ad onorare il coraggio di una società che vi aveva creduto e che per essa aveva combattuto. Causa che, come credo di aver ampiamente dimostrato, non era la permanenza della peculiare istituzione, ma il ruolo del Sud nell’Unione e la salvaguardia della sua struttura economico-sociale contro i tentativi di cambiarla “dall’alto” ad opera del Nord. Ancora oggi negli Stati del meridione permane in molti strati della popolazione bianca una memoria eroica, anche se inquinata dal razzismo, della storia della Confederazione; a riprova della continuità di questo senso d’appartenenza basti pensare che molti di questi Stati hanno ancora nella loro bandiera la croce sudista. Tragicamente chi pagò il conto di questa pace mal pensata e mal eseguita fu proprio quella popolazione di colore che i radicali Repubblicani credevano di stare aiutando umiliando gli ex-padroni. Invece dell’abolizione progressiva della schiavitù voluta da Lincoln si ebbe una liberazione a freddo che produsse una masse di persone da inserire all’interno di un contesto economico-sociale schiantato dall’esito del conflitto. Il Sud, morto il suo sistema economico, si trovò privo della sua vecchia elité colta e moderata, così le nuove leadership emersero dalle masse popolari che facevano appello alla rabbia e alla frustrazione di un meridione umiliato. Non potendosi questa rabbia dirigere contro il Nord, dato che la guerra era persa, essa venne diretta contro la gente di colore tacciati come una sorta di collaborazionisti dell’ex-nemico che adesso cercavano di costruire la loro nuova vita sulle macerie del Sud sconfitto. Il Nord, dopo aver creato le condizioni per il disastro, se ne disinteressò dei suoi effetti e non poté fare diversamente perché, a meno di trasformare il meridione in una gigantesca colonia nordista, bisognava tornare a convivere con il Sud. Visto che il grande obiettivo era stato conseguito (conquistare il controllo sulla politica del paese), si poteva ben lasciare che il meridione si gestisse da solo il post-schiavitù. Ciò fu una benedizione implicita al segregazionismo, reazione squallida e volgare di un popolo che aveva bisogno di un capro espiatorio. In tal senso capisco anche perché oggi gli afroamericani pretendono la rimozione di quelle statue; esse per loro non sono, come per i bianchi del Sud, il memento di una lotta per un ideale, ma il simbolo di un sistema istituzionale che per oltre un secolo lì ha sistematicamente discriminati. Faccio però anche osservare come i tre regimi razzisti peggiori della nostra storia (il segregazionismo nel Sud degli Stati Uniti, l’apartheid sudafricana e il nazismo tedesco) nacquero tutti anche come effetto della ricerca di un capro espiatorio a seguito di una sconfitta umiliante e di una pace ritenuta ingiusta dalla popolazione.
Butto là infine un ultimo spunto di riflessione. Lo scegliere quell’abolizione “dura” al posto di quella progressiva, fu una buona scelta? Si tratta di un tema dai mille risvolti e molto ampio per cui, essendo già questo articolo molto lungo, mi limiterò a fare un confronto con il Brasile, dove la schiavitù fu lasciata morire naturalmente ed abolita senza traumi nel 1888, prendendo ad esempio l’ambito dello sport. Fino alla seconda metà del novecento negli Stati Uniti ai neri fu vietato di giocare nelle stesse squadre e nelle stesse leghe dei bianchi; ad esempio nel Baseball esisteva una lega apposta, la Negro League, riservata ai soli giocatori di colore. Nel 1938 la nazionale brasiliana che perse la semifinale del mondiale contro l’Italia di Vittorio Pozzo era composta per metà da giocatori di colore e uno di questi, Leonidas, era già considerato non solo uno dei più forti del Brasile (dov’era idolatrato), ma dell’intero mondo. Nel 1950, mentre il primo giocatore di colore era ammesso nell’NBA, la nazionale brasiliana su cui, come scrive Federico Buffa, un’intera nazione aveva riposto le speranze di “convincere il mondo che qui non ci sono i serpenti nelle strade”, e che avrebbe perso nello storico Maracanazo, aveva un solo giocatore bianco in squadra. Ovviamente non dico che per la popolazione di colore in Brasile fossero tutte rose e fiori, ma ritengo sia qualcosa su cui riflettere.
Bibliografia:
- Raimondo Luraghi, Storia della guerra civile americana
- Mario Del Pero, Libertà e impero – Gli Stati Uniti e il mondo 1776-2006
Enza Coletta
22 Settembre 2017Per me molto interessante xché poco conosco la storia americana, un solo appunto alcune parti avrebbero meritato maggiore sintesi