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Semplice ribellismo spontaneo o sollevazione politica? La rivolta del sette e mezzo

Di Carlo Bonaccorso

La nascita dello stato italiano, avvenuta nel Marzo del 1861, non produsse in Sicilia i miglioramenti sperati. La sconfitta del sogno repubblicano dei democratici garibaldini e le promesse da loro proclamate, svanirono come neve al sole. L’Italia era una monarchia e la sua economia di carattere capitalistico, incentrata soprattutto al Nord, lasciava poche speranze alle classi proletarie del Meridione. Per di più, nell’isola, andava rafforzandosi quel rapporto aristocrazia-borghesia  che monopolizzò i settori di sviluppo economico, in una terra che negli anni a venire disconobbe il settore industriale (se non con poche eccezioni). Ciò che avvenne nel 1866 fu un chiaro esempio di tale situazione.

Gli storici che si sono occupati di tale argomento hanno avanzato teorie piuttosto discordanti, dettate principalmente dall’ambiguità politica (se mai veramente ve ne fu una) di tale sollevazione; troviamo dunque tesi che sostengono lo spirito puramente ribellistico delle masse esasperate, una jacquerie (o mob come la chiamò Hobsbawn) priva di qualsiasi connotazione politica; altri, invece, vedono in tale rivolta, il tentativo borbonico-clericale antiunitario, o lo spirito eversivo dei repubblicani estremisti (tra cui il Badia, quelli contrari cioè alla teoria mazziniana dell’ “unità ad ogni costo”); una più esigua parte che riconosce in quell’episodio il primo vero esempio di coscienza proletaria che trovò il suo più alto compimento nei Fasci siciliani dei Lavoratori. Ancora oggi, la rivolta del Sette e mezzo fatica ad avere un suo spazio nella storiografia nazionale, forse proprio a causa di questa sua ambiguità. Quasi tutti gli studiosi, comunque, sono concordi nell’individuare le cause della sollevazione nelle tristi condizioni del ceto popolare: il rifiuto della leva obbligatoria che toglieva braccia al lavoro familiare, l’invasione di funzionari provenienti dal lontano Piemonte, l’aumento dell’imposta di ricchezza mobile, la siccità, la diffusione del colera e i peggioramenti della vita quotidiana, concorsero ad innescare tra la gente un odio verso lo Stato. Non è un segreto, tra l’altro, che tra i siciliani vi fosse un forte desiderio se non completamente indipendentista, comunque fortemente autonomista (iniziativa per altro sostenuta sia dalla Destra che dalla Sinistra Estrema del tempo, la prima in chiave separatista, la seconda come rinnovamento della struttura statale), ma definire la matrice della rivolta del Sette e mezzo puramente “indipendentista”, risulterebbe avventato e poco obiettivo. Trovare un’identità politica, quindi, è cosa non semplice. Basterebbe andare ad esaminare gli slogan usati in quella situazione dagli insorti, per comprendere la confusione che ivi regnava: “w Santa Rosalia”, “w la Repubblica”, “w Francesco II”  e chi più ne ha più ne metta. Le bandiere rosse con le croci e la sparuta presenza di quelle americane, ci fanno meglio comprendere l’amalgama incoerente di idee che si creò.

 

Lo scoppio e l’evoluzione della rivolta

Nella notte tra il 15 e il 16 Settembre 1866, migliaia di insorti radunatisi a Monreale, scesero a Palermo abbattendo le deboli difese e costringendo le autorità ad asserragliarsi a Palazzo Reale. Per sette giorni e mezzo (da qui l’appellativo) i rivoltosi tennero occupata la città principale dell’isola. Nello stesso momento, altri moti scoppiarono a Monreale, Borgetto, Torretta, Misilmeri, Corleone, Piana dei Greci, Mezzojuso e nelle provincie di Trapani e Catania. Il 22 Settembre il Generale Cadorna, al comando di 22 mila uomini e con il sostegno della Regia Marina, penetrò in città mettendo fine alla sollevazione e successivamente operando una forte repressione (con diverse fucilazioni e arresti di massa) priva di giudizio obiettivo. La particolarità di tale evento, come ci spiega egregiamente Salvatore Massimo Ganci nel suo “L’Italia antimoderata” edita da Guanda nel 1968,  sta nella mancanza di capi indiscussi; ad operare fu la massa in tutte le sue contraddizioni. Il Comitato insurrezionale che si creò giorni prima del moto, con lo scopo di studiare eventuali azioni di protesta, non riuscì in alcun modo a gestire quella massa arrabbiata. Lo stesso Lorenzo Minneci, a capo di tale comitato ed uomo del democratico repubblicano  Giuseppe Badia (secondo alcuni l’ispiratore vero della rivolta anche se in carcere in quei giorni), non ebbe mai il controllo della popolazione insorta. Non vi sono elementi omogenei dunque, non criminali e basta ma diverse realtà sociali.  La tesi, dunque, che sostiene la presenza dietro le quinte di un’abile mano manovratrice con loschi intenti, non può essere data come certa o almeno, non nelle modalità in cui la sollevazione avvenne.

Considerazioni personali

Dare oggi un’etichetta politica alla rivolta del Sette e mezzo è cosa impossibile a meno che non ci sia dietro un chiaro intento propagandistico. Lo storico, nel suo duro lavoro, deve presentare alla collettività i fatti per come sono avvenuti, siano essi certi o pieni di punti oscuri. Presentare un dato episodio basandosi unicamente sulla propria interpretazione è errato e poco corretto. Negli anni successivi al fatto, la storiografia ha dato poco spazio a eventi come questo e nei casi in cui esso venne trattato, l’unica spiegazione data fu quasi sempre quella di un ribellismo spontaneo portato avanti da gente losca e di malaffare. Studi tendenziosi. Andando ad esaminare la situazione della Sicilia in quegli anni, prescindendo dalle figure politiche più o meno coinvolte, ci si dovrebbe rendere subito conto dell’esasperazione in cui il popolo viveva. Probabilmente la fame spinse tanti individui ad abbracciare la rivolta, probabilmente un’abile mano contribuì ad aizzare la folla, tuttavia considerare la rivolta del 1866 unicamente come un fatto privo di reale importanza, è sbagliato. Essa ci fa comprendere ancora meglio la situazione economico/sociale.  D’altronde, conoscere il proprio passato significa affrontare meglio e con più maturità il proprio futuro.   

1 Response
  • Salvatore
    13 Settembre 2019

    Penso che i siciliani avevano fiducia nel Generale Garibaldi e quindi pensassero che si sarebbe instaurata la DEMOCRAZIA. La delusione fu notevole, la repressione e i balzelli fecero il resto e si tentò la rivolta.

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