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Storia dei Fasci siciliani dei lavoratori – I congressi di Corleone e Grotte.

Di Carlo Bonaccorso

Questa nuova pubblicazione andrà ad esaminare due congressi estremamente importanti all’interno della storia dei fasci siciliani. Oltre a quelli di Palermo del maggio 1893, infatti, soprattutto per quel che concerne la Sicilia rurale, vi furono due eventi che diedero al movimento un ulteriore impulso organizzativo ed emancipatorio. A Corleone, nel luglio del 1893, i contadini si riunirono sotto la direzione di Bernardino Verro e Nicola Barbato e dei fasci che dal palermitano arrivavano fino all’entroterra latifondista, stilando un programma rivendicativo passato alla storia come “I patti di Corleone”; nell’ottobre dello stesso anno, a Grotte, i fasci delle zone minerarie, i minatori e piccoli proprietari guidati da quello nisseno e da Agostino Lo Piano Pomar (Presidente del fascio di Caltanissetta), si riunirono per stilare i punti rivendicativi più importanti per la categoria degli zolfatari.

Dopo i Congressi di Palermo che dettarono le linee politiche e sindacali del movimento, vi fu un lavoro organizzativo all’interno di tutti i fasci locali dell’isola; quello su cui bisognava concentrarsi in quel momento, riguardava le lotte da portare avanti e le loro modalità soprattutto. I fasci contadini, in special modo quelli del palermitano, decisero di lavorare su questo, denunciando i principali problemi presenti nei territori. Sul giornale Critica Sociale, nel 1896, Bernardino Verro spiegò che uno dei maggiori problemi riguardava la tipologia dei contratti cui i lavoratori della terra erano costretti a sottostare, nello specifico quello riguardante il terratico.1 La situazione nelle campagne siciliane sia per i braccianti, sia per i contadini, nonché per i piccoli proprietari, era estremamente complicata, come già spiegato nel saggio La campagna siciliana:

I contadini a contratto e i braccianti siciliani impiegati nel latifondo (esteso in parte della Sicilia occidentale e centrale) erano indubbiamente le classi lavoratrici siciliane messe peggio; i primi, infatti, lavoravano con due tipologie di contratto: la mezzadria e il terratico. La prima era quella preferita dai contadini, in quanto dava loro una stabilità maggiore e soprattutto suscitava il sentimento d’attaccamento alla terra in quanto i contratti non duravano mai meno di sei anni; era presente “il soccorso”, l’anticipo cioè in grano o in fave da restituire sull’aia al momento del raccolto, o in denaro; la divisione del prodotto era di 3/4 al padrone e 1/4 al contadino; quest’ultimo metteva tutto ciò che serviva alla produzione, ad eccezione della semenza. La divisione poteva avvenire anche in 2/3 al padrone e 1/3 al lavoratore ma in questo caso il mezzadro doveva restituire la semenza anticipata; infine, in casi rari avveniva la divisione a metà, ma il lavoratore doveva al padrone la semenza più l’addito del 25%.L’altra forma contrattuale, il terratico, era quella odiata dai contadini; essa prevedeva il compenso fisso in misura di grano o denaro al posto della ripartizione del prodotto; ma bastava un’annata di cattivo raccolto per lasciare il terratichiere senza nulla, ma costretto comunque a corrispondere la misura stabilita, trovandosi così nella tragica situazione di doversi vendere tutto per pagare. Si trattava di due forme contrattuali entrambe angariche ed ingiuste. Per di più, i gabellotti non rispettavano quasi mai i diritti dei contadini previsti dai contratti, lasciandoli nella misera più totale. C’era anche un altro tipo di contratto, presente nelle coltivazioni a vigneti, che prevedeva la coltivazione della vite gestita direttamente dal contadino dividendo il prodotto, equamente, con il proprietario. Questi lavoratori, almeno fino allo scoppio della crisi agraria, avevano un tenore di vita decisamente migliore di quelli impiegati nel latifondo.2

Il terratico, che equivaleva in unità di misura ad un ettolitro di frumento per ogni ettaro di terra, era dunque per i contadini siciliani, la forma di contratto più angarica. Così come le altre forme contrattuali quali il paraspolo o il compagno e padrone dove le condizioni contrattuali erano ancora più riduttive dello stesso terraggio.3 Ancora più drammatica la situazione degli jurnatari: I braccianti, chiamati più comunemente jurnatari, ceto lavoratore più numeroso, erano impiegati soprattutto a giornata; all’alba si ritrovavano tutti alla piazza del paese, in attesa di essere selezionati dal caporale. Una giornata di pioggia voleva dire niente lavoro. Nei periodi estivi, durante la mietitura, moltissimi erano impiegati per 14-16 ore di lavoro sotto il caldo atroce, spesso contraendo malattie come la malaria (presente soprattutto nella zona del catanese); la paga era una miseria: 1,50 lire a giornata, 2 massimo. Non mancarono le forme di protesta e gli scioperi; nel 1875, 400 contadini della zona del vallone, nel nisseno, fondarono la “Coalizione dei contadini”, scioperando astenendosi dal lavoro della semina; la protesta venne repressa per ordine del prefetto di Palermo. Nel luglio del 1882 duemila giornalieri impiegati nella pianura di Catania per il raccolto, scioperarono due giorni per l’aumento della mercede; riuscirono alla fine ad accordarsi con le controparti.4

L’organizzazione del Congresso di Corleone gettò quindi le basi rivendicative che diedero ai lavoratori della terra siciliani la possibilità di lottare per migliori condizioni, inserendosi all’interno di quel progetto di educazione intellettuale e morale dei contadini, portato avanti dal Comitato Centrale.

La questione legata ai contratti agrari in Sicilia, però, era già stata attenzionata anni prima; nel 1882 infatti, il Ministro di Agricoltura, Commercio e Industria Domenico Berti aveva espresso la necessità di modificare quei contratti; Jacini, Presidente della giunta parlamentare per l’inchiesta agraria, aveva condannato la pratica di contratti leonini a danno dei coltivatori5.

La pratica del subaffitto applicato dai gabellotti con contratti angarici soprattutto nelle province di Palermo, Trapani, Girgenti e Caltanissetta era cosa risaputa, ma mai niente venne fatto di concreto, nonostante le diverse inchieste e le numerose discussioni parlamentari. Nel 1889 il Consiglio di agricoltura presso il Ministero evidenziò nuovamente la necessità di intervenire nelle campagne, ma non venne mai elaborata una legislazione in merito e non vennero mai fatti severi controlli sulle amministrazioni locali, spesso gestite dagli stessi proprietari terrieri e da quella borghesia municipale avida e corrotta. La divisione del latifondo in piccoli appezzamenti da subaffittare ai contadini era una pratica presente in misura maggiore nel girgentano, differenziando da zona a zona la tipologia di contratti che però si mostrava quasi omogenea nell’entroterra, soprattutto nei rapporti angarici sia con i contadini che con i braccianti (che comunque ricevevano sempre trattamenti peggiori sotto una forma impropria di mezzadria); le aree a colture specializzate, invece, vedevano nel lavoratore con una prole numerosa, una figura con maggiori possibilità di ottenere un contratto duraturo, grazie alla numerosa presenza di braccia da lavoro.

In un contesto del genere, la piattaforma rivendicativa elaborata dai fasci a Corleone, che seguì l’esempio dei socialisti cremonesi e mantovani (miglioramento dei patti colonici), ebbe un ruolo rilevante e si può definire una vera e propria battaglia socialista. Fu questo il motivo che portò il Partito Socialista a dissociarsi dal movimento siciliano: i patti di Corleone, secondo i socialisti italiani, non rispettarono le indicazioni dei programmi francese e tedesco, non seguirono i dibattiti del socialismo italiano sulla mezzadria, mantenendo piuttosto strumenti angarici che non si confacevano con gli obiettivi dei programmi socialisti. Probabilmente la critica ideologica ebbe di per sé una coerenza, ma resta evidente il fatto che nell’Italia di fine Ottocento, nonostante le similitudini nelle condizioni drammatiche dei contadini, diverse erano i contesti sociali e di conseguenza diverse dovevano essere le modalità d’azione nei territori. Questo non venne recepito dal gruppo dirigente del Partito Socialista che vide nell’accettazione della mezzadria da parte dei socialisti siciliani, un grosso errore. La decisione di abbandonare la Sicilia (senza aver provato mai a capirla veramente) provocò non solo un danno al movimento dei Fasci, ma a tutto il nascente socialismo nazionale.

Per i dirigenti dei Fasci l’obiettivo principale fu uno: dare ai contadini lo strumento necessario per poter trattare con i padroni migliori condizioni, grazie ad un’organizzazione politico – sindacale ben strutturata.

Come riporta Francesco Renda “In queste condizioni, poiché era coscienza comune che alla determinazione degli affitti o dei terraggi concorreva un accordo di fatto, tacito o esplicito che fosse, dei proprietari e dei gabelloti, e la concorrenza disordinata dei contadini, l’iniziativa socialista non implicò altro che l’enunciazione di un principio elementarissimo: i contadini non dovevano più trattare da soli ma organizzarsi in partito per costringere proprietari e gabelloti ad accettare le loro richieste di miglioramento.6

I Fasci siciliani dei lavoratori gettarono le basi per quelle che furono negli anni successivi i sindacati, creando di fatto organizzazioni dei lavoratori compatte, capaci di trattare e di lottare usando come strumento lo sciopero.

Il Congresso di Corleone del 31 luglio 1893, organizzato da Bernardino Verro e da Nicola Barbato, venne organizzato dopo gli scioperi avvenuti mesi prima nei centri rurali del palermitano, tra cui Prizzi, Corleone, Piana dei Greci, San Giuseppe Jato, Belmonte Mezzagno, Bisacquino, Misilmeri, Contessa Entellina, Chiusa Sclafani, Roccamena.7

Un’intera provincia si ritrovava a discutere e ad approvare un testo rivendicativo redatto da un comitato agricolo che ebbe forte valore non solo per i comuni del palermitano, ma per tutti i contadini siciliani. Vale la pena riportare per intero i patti colonici che vennero fuori da quella giornata:Stabilita come base la mezzadria, ed abolito il terraggio terratico la terra è sempre apprestata dal proprietario ed anche la semente a fondo perduto: cioè realforte biancuccia, gigante, scavorella ed altro, salma un mezzo pari ad ettari 3.09.6 per ogni salma. Timilia, salma un mezzo pari ad ettari 3.09.06 per ogni salma di terra di estensione pari ad ettari 2,68. Quando la coltivazione della terra vien fatta con il lavoro umano l’intiera produzione viene divisa in parti uguali, tra colono e proprietario senza tener conto della qualità della terra. Se la cultura delle terre galibe il colono lo fa con l’aratro, deve compensare al padrone tumuli 6 di frumento prelevandolo dalla metà. Avvenendo il caso di sopra con le terre (ristoppie) la rivalsa è di tumoli 5. Qualora un proprietario concede terre per la semina delle fave la convenzione è intesa per due annualità nel modo seguente: il primo anno il padrone appresta terra e concime ed il colono esegue tutti i lavori a cominciare dal caricare il letame dal posto in cui trovasi al sito da concimare e così di seguito fino alla fine, mettendo lui la sementa delle fave e resta padrone assoluto dell’intera produzione. L’anno appresso il proprietario appresta terre e seme frumento nelle proporzioni anzidette, restando l’obbligo al colono di rivalere al padrone con tumoli 12 di frumento per ogni salma e ciò dalla sua metà. Qualora il proprietario prepara la terra arandola una sola volta (fiaccatina) il mezzadro deve rivalerlo con 10 tumoli di frumento per ogni salma di terra dalla sua parte. Se la terra sarà arata due volte (fiaccatina e rifondimento) la rivalsa come sopra raggiunge i tumoli 16. Ove poi le arature saranno tre o poco più la ripartizione avviene a terzo, cioè due terzi il proprietario ed un terzo il lavoratore. La semente dell’orzo è fissata a tumoli 26 e della avena in tumoli 28 sempre a fondo perduto, solo che il mezzadro deve prelevare e restituire al padrone dalla sua produzione la metà della semente avuta e cià per ogni salma di terra coltivata. La spigolatura dopo usciti i covoni è facoltata al colono e di quest’ultimo è l’intero ricavato. Durante l’anno colonico se al mezzadro occorre pane, il padrone deve soccorrerglielo salvo a ritenersi frumento sul raccolto e ciò nelle proporzioni di n.9 pani di Kg. 1,600 ciascuno per ogni tumolo di frumento. Il padrone percepisce un tumolo del prodotto a titolo di diritto di custodia, solo nei casi 1 e 2 questo diritto viene aumentato a tumoli due e ciò prelevando dalla metà del prodotto spettante al mezzadro. 8

Dalla lettura dei patti di Corleone risulta evidente l’obiettivo principale: distruggere quei rapporti feudali che ancora esistevano nelle campagne siciliane e favorire quelle garanzie all’interno dei rapporti di stampo capitalista che si stavano sviluppando; garanzie che solo le idee socialiste potevano dare. Vero è che i patti di Corleone non ebbero una riforma agraria volta a sostenerne le rivendicazioni, ma furono comunque estremamente efficienti se si pensa che durante lo sciopero successivo messo in atto dai contadini per far valere le loro rivendicazioni, molti proprietari decisero di trattare ed accettare la piattaforma rivendicativa (soprattutto a Prizzi e Contessa Entellina), nonostante molti di essi cercarono in tutti i modi di spezzare il movimento contadino, sia con metodi istituzionali, sia con metodi mafiosi.

Il Congresso Regionale di Grotte, svoltosi giorno 12 ottobre 1893 fu anch’esso estremamente importante. Più di 1500 furono i minatori e piccoli proprietari che ivi parteciparono. Anche qui bisogna ricordare le condizioni tragiche cui i lavoratori delle miniere erano sottoposti: Critiche erano le condizioni dei lavoratori delle miniere, concentrati principalmente nelle zone del nisseno e dell’agrigentino, in minor parte nel palermitano; i maggiori centri zolfiferi (Grotte, Racalmuto, Favara e Riesi) vivevano quasi esclusivamente di quell’attività, dove lo sfruttamento era, purtroppo, una consuetudine presente da anni; cinquanta mila famiglie vivevano di quel lavoro, come riporta Napoleone Colajanni, due le figure professionali che più di tutte pativano le sofferenze del lavoro in miniera: il picconiere e il caruso. Se il primo è sempre stato descritto come sfruttatore del secondo, (quest’ultimo impossibilitato a frequentare la scuola, inesistente nelle zone dove le miniere erano collocate) in realtà entrambi erano vittime di quei rapporti angarici del quale beneficiava esclusivamente il padrone della miniera e in misura minore il coltivatore. Nell’assumere il caruso, il picconiere consegnava alla famiglia il “soccorso morto” o altrimenti detto “affittanza della carne umana”, un equivalente in denaro che di solito non superava le 150 lire; il caruso (che di solito non aveva più di 13 anni) si occupava del trasporto del materiale dalla miniera all’esterno, sostenendo pesi che a volte superavano i 20kg, con pesantissime ripercussioni sulla crescita fisica; la paga di 2 lire andava alle famiglie, anche se non di radio il caruso decideva di tenere per sé il denaro, generando forti liti familiari. Inoltre, se voleva liberarsi del rapporto con quel picconiere per andare alle dipendenze di un altro, la famiglia doveva restituire il soccorso morto, altrimenti il rapporto non poteva dirsi concluso.

Tuttavia, spesso il rapporto tra il picconiere ed il caruso diventava molto forte ed entrambi si davano l’un l’altro l’aiuto necessario per sostenere un lavoro estremamente pesante. Il picconiere veniva pagato a cottimo, non più di 2-3 lire massimo per 9 ore di lavoro, 5 giorni a settimana; a questa misera paga gli veniva tolto l’acquisto imposto del materiale per il lavoro (come l’olio per l’illuminazione) nelle botteghe delle miniere, dove le merci riportavano prezzi superiori a quelli applicati in paese. Questa imposizione, dettata dal coltivatore della miniera per rifarsi del pagamento dell’imposta fondiaria (che in realtà era dovere del proprietario), pesava enormemente sul lavoratore, con trattenute sullo stipendio che arrivavano fino al 30%. 9

Da sempre categoria fortemente attiva e protagonista di numerosi scioperi, riuscì a trovare una vera organizzazione grazie alla diffusione dei fasci dei paesi interessati, tra cui Grotte e all’ideale socialista. D’altronde, considerando che su una produzione mondiale di zolfo di 460.785 tonnellate, ben 378.359 venivano prodotte solo in Sicilia10, si può ben intendere l’importanza che tale settore ricopriva in quelle zone e di conseguenza l’impatto che ebbe su quel mondo professionale l’organizzazione dei lavoratori delle zolfare.

L’opera efficace di uomini come Agostino Lo Piano Pomar (Presidente del Fascio di Caltanissetta), di Giovanni Battista Castiglione (Presidente del Fascio di Grotte), del socialista Rinaldo Di Napoli, ma anche di Francesco De Luca e Antonio Licata (Fascio di Girgenti), contribuirono a diffondere tra i lavoratori il senso di maturità organizzativa, abbandonando quel ribellismo inutile e privo di qualsiasi base rivendicativa e soprattutto a condannare il tragico fenomeno dell’impiego del caruso, costretto a lavorare nelle miniere in età precoce: Io entrai per la prima volta in miniera a sei anni, per questo sono rimasto analfabeta. Mi ci portò un mio fratello, che lavorava già da caruso portando il sacco pieno di minerale minuto alla superficie. Quando mio fratello portava il carico alla superficie, io lo precedevo tremando sulla malferma gradinata della discenderia, reggendo la lampada ad olio, e quando egli tornava a rifare il carico, per non perdere il viaggio, mi infilava dentro il sacco, se lo buttava addosso, e giù a rotta di collo per la buia galleria. Quando cominciai ad assicurarmi e a poter reggere pesi, cominciò a farmi portare sulle spalle qualche pietra, prima piccola, poi sempre più grande, finché feci il callo e il picconiere mi assunse come caruso.11

Il Congresso di Grotte fu la naturale evoluzione di quel percorso emancipativo che vide per la prima volta l’unione tra lavoratori delle miniere e piccoli proprietari, entrambi sfruttati dai grossi monopolisti. In quella giornata di ottobre, dunque, i minatori si riunirono per discutere ed elaborare un documento, sull’esempio del congresso di Corleone. Le rivendicazioni approvate furono:

  1. a favore degli esercenti
  1. abolizione della proprietà del sottosuolo;
  2. riduzione del 10% della quantità di prodotto netto destinato dai gabelloti ai proprietari;
  3. istituzione di una banca mineraria che ponesse gli esercenti al riparo dalle sopraffazioni e dallo strozzinaggio degli esportatori e dei magazzinieri.
  1. a favore degli operai
  1. elevare a 14 anni l’età minima per lavorare all’interno della miniera;
  2. abolire con una apposita legge l’anticipo o soccorso morto12 dei carusi, perché strumento fondamentale dell’infame mercato della carne umana;
  3. elevare a L. 1,50 al giorno la paga del caruso fino a 15 anni e a L. 2 dopo tale età;
  4. ridurre le ore di lavoro esterno e fissare nella durata massima di otto ore i lavori interni giacché si praticavano a cottimo;
  5. la cassa per la misurazione dello zolfo uguale per tutte le miniere di due canne per una;
  6. garanzie di un salario minimo di L. 3 per i picconieri;
  7. abolire la bottega della miniera;
  8. pagare il salario in contanti e puntualmente.13

Tuttavia, non vi fu il tempo per organizzare scioperi volti all’applicazione del documento rivendicativo di Grotte. La nomina di Francesco Crispi a Primo Ministro nel novembre del 1893 e la repressione dei fasci avvenuta nel gennaio del 1894 con l’arresto dei dirigenti e di centinaia di operai e contadini, mise fine ai fasci siciliani ma non alle lotte agrarie che negli anni successivi videro non solo le organizzazioni socialiste, ma anche quelle cattoliche, guidare i lavoratori siciliani negli scioperi e nelle battaglie per la rivendicazione dei diritti sociali.

Note:

1 Lettera di Bernardino Verro pubblicata in Critica Sociale, Milano 16 ottobre 1896, in R. Marsilio, I Fasci Siciliani, Edizioni Avanti, Milano – Roma, 1954.

2 https://www.restorica.it/novecento/storia-dei-fasci-siciliani-dei-lavoratori-la-campagna-siciliana/

3 F. Renda, op. cit., pag. 163

4 Ibidem

5 Min. agr. 1891, p. XVI, in F. Renda, I Fasci siciliani 1892 – 94, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1977.

6 F. Renda, op. cit., pag. 167.

7 S.F. Romano, Storia dei fasci siciliani, Editori Laterza, Bari, 1959

8 Patti colonici stabiliti dal Comitato agricolo per lo sciopero del 1893 – 94, in A.S.P., cat. 20, f. 154.

9 https://www.restorica.it/novecento/storia-dei-fasci-siciliani-dei-lavoratori-la-campagna-siciliana/

10 P. Maccarrone, Fasci siciliani e lotte dei cattolici, Edizioni Makar, Biancavilla, 2007, pag. 59.

11 I. Negrelli, La crisi dell’industria zolfifera siciliana in relazione al movimento dei Fasci, in Movimento Operaio, novembre – dicembre 1954, p. 1061.

12 O altrimenti detto affittanza della carne umana, si trattava di un equivalente in denaro che di solito non superava le 150 lire che il picconiere dava alla famiglia del caruso (che di solito non aveva più di 13 anni); egli si occupava del trasporto del materiale dalla miniera all’esterno, sostenendo pesi che a volte superavano i 20kg, con pesantissime ripercussioni sulla crescita fisica; la paga di 2 lire andava alle famiglie, anche se non di radio il caruso decideva di tenere per sé il denaro, generando forti liti familiari.

13 P. Maccarrone, op. cit., pag. 58

2 Responses
  • Salvatore Spanò
    1 Settembre 2021

    Penso che ai siciliani hanno rubato la storia e la memoria. Questi aspetti importantissimi della storia d’Italia andrebbero discussi e approfonditi nei libri di scuola.

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