Di Carlo Bonaccorso
Con questa nuova pubblicazione, andremo ad esaminare la strage di Caltavuturo consumatasi il 20 gennaio 1893 nel piccolo paese del palermitano. Tale eccidio occupa all’interno della storia dei fasci siciliani un’importanza rilevante in quanto, di fatto, decretò la diffusione del movimento nelle campagne, grazie anche all’opera dei dirigenti del fascio di Palermo, Corleone e Piana dei Greci, coadiuvati dalla figura di Napoleone Colajanni, personaggio di grande personalità culturale e politica, nonché statista, economista, sociologo, repubblicano-socialista, eletto pressoché ininterrottamente in Parlamento dal 1890 fino agli anni Venti del Novecento. Influenzati dall’articolo del Cabrini, Ai Campi!, i dirigenti socialisti siciliani lavorarono alacremente per favorire l’incontro città-campagna e seppur con tanti errori, riuscirono a costruire il primo movimento sindacale operaio-contadino italiano.
La strage di Caltavuturo fu la tragica conseguenza di quella protesta contadina volta alla mancata redistribuzione delle terre demaniali ed ecclesiastiche (in compensazione dell’abolizione degli usi civici e diritti promiscui avvenuta nel 1818) che, come avviene nelle peggiori delle usurpazioni, vennero spoliate e divise tra borghesi avidi e mafiosi privi di scrupoli, tramite affitti illegali e subaffitti elevati che riducevano i contadini nella miseria più profonda. Redistribuzione che non avvenne né con i Borbone, né con il nuovo stato italiano. Le proteste scoppiarono in diversi centri dell’isola, come ad esempio nel catanese: La causa che aveva provocato l’agitazione dei contadini di Caltavuturo (che, dopo l’intervento solidale dei dirigenti socialisti, fondavano nel paese il Fascio) era la residua spoliazione borghese delle terre demaniali a danno dei contadini. Tale spoliazione si era manifestata acutamente nel ’60, provocando sanguinose repressioni anticontadine. Era una questione che si riaffacciava ancora, negli antichi termini, qua e là, in alcuni centri rurali, come a Catenanuova, in provincia di Catania, dove il Fascio locale chiedeva la divisione del feudo Buzzoni. Ma ormai la questione della terra si poneva nell’isola in altri termini per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Se la conquista della terra rimaneva l’aspirazione fondamentale del contadino siciliano, la questione del miglioramento dei contratti agrari e la rivendicazione dei più elementari diritti umani apparivano ora alla coscienza delle masse come urgenti e realizzabili, sia pure in un lento e lungo sviluppo.1
A Caltavuturo, negli anni precedenti al 1893, si era formata la Società Operaia “Francesco Crispi” (1891) che si poneva come obiettivi oltre alla riduzione del dazio di consumo, anche la denuncia della cattiva amministrazione che ne gestiva gli introiti. Rispetto alle numerose società operaie e di mutuo soccorso presenti nell’isola (la prima nacque a Corleone nel 1860) quella di Caltavuturo mostrò una maturità maggiore, organizzando cortei e sollecitando gli organi competenti ad intervenire di fronte ai soprusi. Nel borgo palermitano, così come in altre parti della Sicilia, la amministrazione comunale trasformò i demani in beni patrimoniali, non alienabili a terzi: la rapace borghesia dominante ha addirittura rubato le terre demaniali, usurpando a proprio privato vantaggio il patrimonio della collettività2.
Caltavuturo era un piccolo paese agricolo dove la maggior parte della popolazione viveva come mezzadro o jurnataru; pochissimi coloro che avevano usufruito della redistribuzione della terra e comunque gli stessi si trovavano in quegli anni impossibilitati a sostenere le spese di mantenimento di un piccolo appezzamento di terreno per colpa della crisi agraria e dei dazi che portavano all’accumulazione di numerosi debiti. L’abolizione della vecchia feudalità avvenuta con i Borbone aveva portato di fatto alla formazione di una nuova; a Caltavuturo, ai vecchi Duca di Ferrandina si sostituivano i Muscarella, Cirrito, Giuffrè, Cipolla, Di Marco ed altri3; proprio la divisione delle terre concesse dal Duca di Ferrandina fu esempio eclatante dell’usurpazione che regolarmente veniva fatta: la famiglia aristocratica, che possedeva 6000 ettari di terra nella zona di Caltavuturo, dopo aver a lungo tergiversato, concesse al demanio l’aliquota di terra cui era obbligata a cedere; quei terreni, invece che essere redistribuiti, vennero dati in gabella a prestanome legati alla borghesia municipale. Diversi furono i gabelloti che, subaffittando illegalmente quelle terre, si arricchirono sulle spalle dei poveri contadini: Giuseppe Gianduo, i fratelli Francesco e Genualdo Giardina, Antonio Guggino, Giuseppe Russinello, tutti tristemente famosi per i metodi angarici usati nella gestione dei terreni.
Per comprendere ancora meglio quelle dinamiche, occorre citare il caso del Dottor Oddo: amico del sindaco Giuffrè, ebbe in maniera del tutto arbitraria la concessione delle campagne di Sant’Antonio e oltre a questo altre ne riusciva ad accumulare, quali ad esempio quelle nelle Contrade Stazzone e Serra, sub affittandole e guadagnando ingenti somme. Dalle pagine del Giornale di Sicilia (simpatizzante con l’amministrazione), il tutto venne giustificato come mossa per impedire usurpazioni “audaci e continue” da proprietari limitrofi4. Nonostante Oddo venisse poi sospeso dalle sue cariche municipali (venendo successivamente reintegrato), continuò a gestire illegalmente quei terreni5.
In tale contesto, si sviluppò dunque la Società Operaia fondata nel 1891 da Bernardo Comella e Gianbattista Vivrito che dopo la strage fondarono il Fascio locale ricoprendo i ruoli rispettivamente di Presidente e Vicepresidente; già l’8 giugno 1891 venne organizzato un corteo di contadini che sfilò contro i dazi e la corruzione all’interno dell’amministrazione comunale. Altre manifestazioni si svolsero nelle settimane successive, destando l’attenzione del prefetto di Palermo che decise così di inviare il consigliere De Francisci per indagare sulla gestione amministrativa del comune. Dopo un mese di “generosa ospitalità”, il consigliere presentò una relazione nella quale definiva l’amministrazione di Caltavuturo “integerrima” e “tra le migliori amministrate in Italia”6. Tutto ciò non fece altro che aumentare l’astio della classe contadina ne confronti dei “galantuomini” e del latifondo e le proteste s’intensificarono; il 16 gennaio 1892, nonostante il divieto imposto dal regolamento dell’annona comunale, i lavoratori della terra organizzarono una vendita pubblica di genere alimentari e prodotti di prima necessità; il 20 aprile dello stesso anno occuparono il terreno comunale di Spicaleosa e così avvenne per le domeniche successive, aumentando d’intensità le lotte nei mesi estivi. L’obiettivo era quello di “riappropriarsi delle terre sottratte”7.
Tra il 1891 e il 1893, dunque, a Caltavuturo vi fu un’intensa attività svolta dalla Società Operaia e dai contadini, siano essi piccoli proprietari, mezzadri e braccianti; l’obiettivo della riappropriazione della terra sottratta ingiustamente era ormai ampiamente dichiarato e vi fu anche un tentativo, da parte dell’amministrazione, dietro spinta dal prefetto, di reintegro dei terreni demaniali per una nuova distribuzione, ma fu lo stesso sindaco Giuffrè a bloccare tutto, in quanto il feudo in questione, quello di Sangiovannello era gestito proprio dalla famiglia Giuffrè insieme con quella dei Cirrito. La diffusione, inoltre, della notizia di nuove terre concesse all’Oddo, esasperò ulteriormente gli animi. E a nulla valsero le promesse del sottoprefetto di scioglimento dell’amministrazione comunale.
Il 20 gennaio 1893, giorno della festa del patrono San Sebastiano, più di mille contadini, organizzatisi nei giorni precedenti, all’alba decisero di occupare i terreni di Urgo-Sant’Antonio. Dopo il suono del corno del contadino Muscarello, che chiamò a raccolta i contadini, la massa si diresse verso le terre e le occupò. Decisero successivamente di recarsi davanti il Palazzo del Municipio, per chiedere la legittimità dell’occupazione ma il segretario comunale comunicò l’assenza del sindaco e degli assessori; i contadini, allora, tornarono alle occupazioni, questa volta in direzione del feudo Sangiovannello, ma nel frattempo, truppe miste di carabinieri, militari e guardie campestri si erano radunate con l’ordine di bloccare i lavoratori. Fu un attimo: senza neanche gli squilli di tromba d’avvertimento, partirono diversi colpi che lasciarono sul terreno 11 persone, 8 delle quali rimasero sul terreno fino al pomeriggio di giorno 21; altre due morirono in ospedale. Persero la vita: Giovanni Ariano (54 anni), Giuseppe Bonanno (28 anni), Calogero Di Stefano (22 anni), Vincenzo Guarneri (18 anni), Mariano Guggino (45 anni), Niccolò Iannè (60 anni), Giuseppe Modaro (34 anni), Giuseppe Renna (30 anni), Francesco Inglese (68 anni), Salvatore Castronovo (43 anni), Pasquale Cirrito (17 anni), due persone non identificate. Nonostante le promesse del Presidente del Consiglio dei ministri, Giovanni Giolitti, gli autori materiali della strage non subirono mai alcun processo.
La notizia si diffuse velocemente e in poco tempo tutta la Sicilia veniva a conoscenza dei terribili fatti di Caltavuturo. A Palermo, la prima testata giornalistica a darne notizia fu “Gibus”: Non possiamo ascoltare senza sentirci scuotere profondamente l’eco dei lamenti e delle grida strazianti di numerose vittime, che cadono al suolo colpite dal piombo omicida8. Il Tenente Gattola, di stanza a Caltavuturo, in base alla Relazione al Prefetto di Palermo del 24 gennaio 1893, tentò subito di giustificare i mancati squilli di tromba per una dimenticanza dei suoi uomini che lasciarono lo strumento in caserma; ma nel giorno di pochi giorni, anche grazie all’opera congiunta dei dirigenti dei fasci di Palermo, Corleone e Piana dei Greci, che fecero partire una sottoscrizione per le famiglie delle vittime, la strage di Caltavuturo trovò ampio spazio nella stampa nazionale e in Parlamento dove il deputato Colajanni fece partire un’interpellanza al Ministro dell’Interno sui gravosi fatti di Caltavuturo, illustrando le misere condizioni di vita dei contadini siciliani9. A Palermo, all’interno della sede locale del Fascio, pochi giorni dopo la strage, lo stesso Colajanni, dopo un acceso discorso davanti a un folto gruppo di operai, concluse proclamando l’unione della città con la campagna che di fatto diede il via all’azione di propaganda socialista nelle campagne: Operai di Palermo! Unitevi ai contadini di Caltavuturo e preparate insieme il terreno della riscossa.10 Bosco, Presidente del Fascio di Palermo, organizzò uno spettacolo, al teatro sociale del fascio palermitano, dedicato proprio ai fatti di Caltavuturo che ottenne un discreto successo; il ricavato fu destinato alle famiglie delle vittime. Inoltre, grazie anche all’organo di stampa del Partito dei Lavoratori Italiani, Lotta di Classe, la sottoscrizione riuscì ad avere un buon riscontro e vennero raccolte più di 2600 lire; lo stesso Garibaldi Bosco insieme con Bernardino Verro Presidente del Fascio di Corleone, Nicola Barbato Presidente del Fascio di Piana dei Greci e Ignazio Salemi di Montemaggiore, si recarono a Caltavuturo il 23 aprile 1893 per la consegna della somma e per tenere un comizio che, alla presenza di più di 200 persone, venne interrotto diverse volte dal delegato di pubblica sicurezza. 11 Venne espressa soddisfazione per il rilascio degli arrestati accusati di aver incitato alla rivolta la massa e si esaltò l’ideale socialista. Pochi giorni dopo, Bernardo Comella trasformò la Società Operaia di Caltavuturo in Fascio dei lavoratori che fu tra i più numerosi della provincia e contribuì all’elezione dello stesso Comella alle successive elezioni comunali.
Nelle settimane seguenti, la diffusione dei fasci nella provincia palermitana, agrigentina e nissena soprattutto, fu rapida, tanto da preoccupare seriamente il prefetto di Palermo che inviò a Giolitti i continui rapporti di questura che riceveva sulla diffusione e propaganda dei fasci nelle campagne; la risposta, fu l’attuazione di una strettissima sorveglianza e denunzia immediata alle autorità qualora vi fosse appena un accenno alla ribellione12. Nicola Barbato, proprio in virtù di ciò venne arrestato a San Giuseppe Jato nel maggio 1893 per aver tenuto un comizio definito “sedizioso”. La propaganda nelle campagne portò alla formazione di più di 170 fasci e 80.000 aderenti; i congressi di Palermo del maggio 1893 e quelli di Corleone (luglio 1893) e Grotte (ottobre 1893) dai quali uscirono i documenti rivendicativi di contadini e minatori, furono uno spartiacque nella storia del movimento operaio e contadino siciliano, decretando l’inizio di un nuovo periodo fatto di lotte per i diritti sociali.
NOTE:
1 Renato Marsilio, I Fasci Siciliani, Edizioni Avanti, Milano-Roma, 1954 pag. 24
2 G. Castiglia – G. Muscarella, La borghesia agraria nell’800 a Caltavuturo, Kefagrafica Lo Giudice, 1993
3 Carmelo Botta – Francesca Lo Nigro, Il sogno negato della libertà. I Fasci siciliani e l’emancipazione dei lavoratori, Navarra editore, Palermo, 2015
4 Giornale di Sicilia, 24 febbraio 1893, in Salvatore Francesco Romano, Storia dei Fasci siciliani, Edizioni Laterza, Bari, 1959
5 Fascicolo sui fatti di Caltavuturo, in A.S. di Palermo, pref. 1893, cat. 16 f. 51
6 Carmelo Botta – Francesca Lo Nigro, op. cit., pag. 75
7 Rapporto riservato del 7 febbraio 1893, il sottoprefetto al prefetto, in ASPA, Prefettura, b.133
8 Gibus, 22 gennaio 1893
9 Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, , 30 gennaio 1893
10 ASPA, Prefettura, b.130
11 Il Comandante la stazione dei Carabinieri al Prefetto, 28 aprile 1893, n. 6628, in A.S.P. Pref., 1893, cat.16, f.3, in Salvatore Francesco Romano, op. cit.
12 Salvatore Francesco Romano, op. cit., pag. 177
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