DI CARLO BONACCORSO
Stando a quello che generalmente sentiamo dai mass media, l’Italia e l’Europa corrono il rischio di una vera e propria “colonizzazione” da parte dei musulmani che, tramite i flussi migratori, stanno soppiantando a poco a poco valori e credi occidentali. Da anni, ormai, l’Europa è abituata a vedere nell’islamico una figura altamente sospetta, pericolosa e retrograda, portatrice di una cultura violenta o comunque da condannare. Certo, i fatti di sangue avvenuti dall’11 Settembre in poi, hanno contribuito non poco a creare tali convinzioni, ma l’avanzata di una islamofobia cieca e ottusa, ci spinge (o almeno dovrebbe) a domandarci cosa ci sia realmente dietro l’Islam. Per evitare di ragionare secondo concetti pregiudiziali, proviamo a conoscere tale religione e comprendere più a fondo la gente musulmana.
“Entrare in uno stato di pace e sicurezza con Dio attraverso la sottomissione e la resa a lui”, questo il significato religioso della parola Islam, piena espressione di un credo nato e diffusosi nella penisola araba tra il VI ed il VII secolo d.C., grazie alla predicazione di Mohammad (Maometto), l’ultimo profeta mandato da Allah (Dio) nato tra il 567 ed il 572 d.C. L’ambiente geografico nel quale il Corano si sviluppò fu lo Higaz, regione dell’altopiano desertico, lungo la costa occidentale dell’Arabia; la presenza, nella zona, di comunità cristiane ed ebraiche e gli scambi commerciali delle popolazioni locali con altri popoli, influenzarono non poco la zona. Tuttavia, ciò che arrivava dalle grandi religioni monoteistiche in Arabia, era piuttosto vago e incentrato principalmente sulla vita leggendaria di Gesù. Notizie di pellegrinaggi alla Mecca si hanno già in epoca preislamica, quando tra gli arabi pagani vi era devozione verso la pietra nera, riferimento al Dio Hubal (già da alcuni chiamato Allah). Il pellegrinaggio era gestito da importanti famiglie della Mecca, segno questo dell’importanza spirituale e politica che tale città ricopriva ancor prima dell’epoca islamica. Le prime rivelazioni Maometto le ricevette, secondo la tradizione, dopo lunghi ritiri spirituali, tramite l’Arcangelo Gabriele. La data di tali rivelazioni sembra sia fissata al 27 Ramadan; poco tempo dopo, il Profeta iniziò la predicazione pubblica e la conseguente creazione della comunità musulmana portò gli aderenti a forti esclusioni dei diritti tribali. Mohammad si trasferì, nel 620, a Yatrib (futura Medina), dove convertì numerosi nuclei di persone, nel 621 egli venne riconosciuto come capo degli abitanti di Yatrib, diventando quest’ultima, la città del Profeta. Accettò e rispettò la comunità ebraica presente promettendosi aiuti reciproci (salvo poi dichiaragli guerra, confiscandogli tutti i loro beni in quanto definiti ipocriti). Ingaggiò battaglia contro i coreisciti (tribù araba Quraysh), arrivando alla battaglia finale nel 627, quando Maometto consolidò lo stato islamico di Medina. La conquista della Mecca, così, era sempre più vicina in quanto ormai l’oligarchia dominante scelse la via della conversione. Nel 630, Mohammad entrò, dunque, senza colpo ferire e decise di adottare un comportamento tollerante. Medina, comunque, rimase la capitale della nuova entità territoriale. La morte del Profeta avvenuta l’8 Giugno 632, portò a quella scissione esistente ancora oggi tra sunniti e sciiti; i primi, infatti, sostenevano come successore di Maometto il suocero Abu Bakr, legittimo erede secondo loro; i secondi, vedevano in Alì, cugino di Mohammad, il vero erede in quanto diretto discendente sanguigno. Tale scissione, come detto precedentemente, si è protratta per secoli ed ancora oggi è fortemente presente e vede nella Repubblica Islamica dell’Iran (sciita) e nel Regno dell’Arabia Saudita (sunnita/wahabita), i due maggiori rappresentanti.
ISLAMISMO: COS’E’ E COM E’ NATO
Considerare l’Islam come una semplice religione monoteista è sbagliato e soprattutto limitativo. Essa è morale e legge e non è per niente semplice separare il suo aspetto spirituale da quello politico. L’Islamismo politico deve essere compreso fino in fondo in quanto la sua nascita è irrimediabilmente legata a quei processi colonialisti operati dalle potenze europee che, di fatto, hanno accresciuto ed accrescono ancora oggi, la radicalizzazione di questa ideologia. Che oggi l’islamismo politico si dichiari acerrimo nemico dell’Occidente, questa è cosa chiara e abbastanza risaputa; tuttavia bisogna estrapolare da essa quelle componenti che prevedono azioni violente contro il mondo occidentale. Come dice egregiamente il professor Basso nel suo saggio” Tre temi chiave del razzismo di stato” “Non si può comprendere nulla dell’accanita militanza islamista se si prescinde o anche solo si lascia in secondo piano la tragedia coloniale che per mano anzitutto dell’Europa si è abbattuta su tutte le popolazioni arabe e islamiche, dal Marocco all’Indonesia.” L’enorme creazione di un mondo povero, da parte delle potenze colonialiste, a vantaggio di industrie, banche e commerci occidentali, è ben presente all’interno dell’ideologia islamista, che vede in Al Afghani il suo progenitore. Prospettando la creazione, anzi la ricreazione di un califfato che coinvolga tutta l’umma, l’ideologo propose una nuova entità in grado di combattere il colonialismo. Ma tale concetto trovò in tantissimi movimenti nazionalisti arabi un terreno fertilissimo (Hezbollah ed Hamas ad esempio), dove la jihad diventò (e lo è ancora oggi) un punto chiave della liberazione nazionale. Bisogna poi ricordare il pensiero di un altro teorico di tale ideologia, Sayyid Qutb, egiziano, che propose la creazione di un terzo polo che andasse aldilà del blocco capitalista e di quello socialista. L’islamismo politico, dunque, può essere considerato come una forma di nazionalismo in cui la nazione in questione riguarda la comunità musulmana mondiale. E non deve stupire se oggi, paesi come l’Arabia Saudita, di derivazione wahabita (corrente radicale dell’islamismo politico che si rifà all’idea di un ritorno all’Islam primordiale, considerato puro), occupano un posto di rilievo all’interno del mondo musulmano, pur essendo un paese in rapporti di collaborazione con potenze quali gli USA. Ma nella sua concezione di giustizia sociale ed equità fiscale, l’islamismo politico (come spiega M. Qutb) si avvicina non poco a quei concetti tipici dell’ideologia liberista; sempre il saggio del professor Basso, ci aiuta a comprendere meglio tale aspetto: Per M. Qutb l’autentico Islam, quello delle origini e quello “integrale” che verrà, è una «una totalità sociale armonica includente un ordinamento economico equo» e «un’organizzazione sociale equilibrata». Armonica la società realmente islamica lo sarebbe in quanto «comunità senza classi», nella quale «tutti sono uguali davanti alle leggi» ma se davvero bastasse l’eguaglianza davanti alla legge a far sparire le classi, le società occidentali dovrebbero essere il regno dell’armonia da quel dì. Equa la società realmente islamica lo sarebbe in quanto ammette sì la proprietà privata, inclusa la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma solo entro certi limiti, limiti che la rendono in quale modo inoffensiva, ma questo medesimo principio e questa medesima rassicurazione non sono forse contenuti in ogni costituzione democratica che si aspetti? Nella società cui aspira M. Qutb il meccanismo riequilibratore centrale nella distribuzione della ricchezza sociale sarebbe la “equità fiscale”, con i ricchi vincolati a pagare allo stato più degli altri componenti della società: l’Islam, infatti, è per «una equa divisione del profitto tra i lavoratori e il datore di lavoro», anche questa l’abbiamo già sentita qualche milione di volte in ambienti, però, non proprio islamici!. Sì, quindi, alla proprietà privata; no al monopolio. Sì al capitale produttivo, no all’usura e al parassitismo, identificato riduttivamente con il capitale finanziario. Risulta chiaro, dunque, che la teoria economica e sociale degli ideologi islamisti per quanto critichi il liberalismo, non ne condanna le sue nozioni principali. Tali contraddizioni, in effetti, li troviamo in paesi a conduzione islamica. L’Islamismo, oggi, trova consensi non solo tra la classe media ma soprattutto in quelle fasce disagiate dei popoli, dove la religione agisce da “eccitante”; questo è spiegato in quanto è in essa che il proletariato arabo trova quella valvola di sfogo dettata dalle condizioni di miseria costretta a vivere. Le ideologie nazionaliste arabe degli anni 50-60 ed il sogno dell’unione pan-araba sono naufragate dopo anni di successo ed enorme consenso (vedi Nasser in Egitto, o Hafiz Al Assad padre dell’attuale Presidente della Siria, Bashar Al Assad). La creazione del Partito Baath (Partito del Risorgimento Arabo Socialista), avvenuta nel Secondo Dopoguerra, riuscì ad accendere gli animi all’interno dei popoli arabi ed un senso di riscossa nazionale contro i dominatori colonialisti. Fondato da Michel Aflaq, Salah al-Din al Bitar e Zaki Al Arsuzi, il partito si dichiarò di ispirazione socialista e nazionalista e totalmente a-confessionale (i primi due fondatori erano musulmani sunniti, Al Arsuzi cristiano ortodosso). Il concetto di socialismo, importante questo, non deve essere letto nell’ottica marxista ma come un socialismo di tipo spirituale che rifiutava il materialismo tipico del marxismo. Il partito Baath vide la sua espansione in Siria, Iraq, Egitto, Algeria (con il Fronte di Liberazione Nazionale Algerino); negli anni ’60, esso vide una definitiva scissione tra l’ala socialista e quella di ispirazione irachena che si rifaceva a concetti fascisti. Dopo la morte di Nasser, Presidente dell’Egitto ed ideatore della Repubblica Araba Unita (Siria ed Egitto), nel paese dei faraoni ed in altre parti del Medio Oriente ci si indirizzò verso un’apertura al mondo occidentale, facendosi così risucchiare nel sistema capitalista e consegnando la gestione del potere ad una élite sempre più occidentalizzata. L’ideologia islamista, dunque, prese piede in quanto unica forma di resistenza contro l’occidentalizzazione e la privatizzazione delle nazioni arabe. I fatti di sangue che gli Stati Uniti e l’Europa hanno vissuto non devono dunque essere ricollegati unicamente ad una sorta di follia insensata, ma piuttosto ad un clima di disperazione e totale avversione verso una politica che ha devastato intere aree, a scapito di intere popoli.
L’ISLAMOFOBIA E I MUSULMANI IN ITALIA
La presenza musulmana, in Italia, è relativamente alta; più di un milione e trecentomila persone e il numero è in costante aumento. Il 2% della popolazione italiana complessiva. Bisogna comunque considerare i convertiti, i naturalizzati e la quota di irregolari presenti nel territorio. Come ci dice Stefano Allevi nel suo “I Musulmani e la società italiana”: La presenza islamica, anche organizzata, ovvero con propri luoghi di culto, per quanto spesso piccoli e precari, in Italia, è significativa anche nelle città medie e piccole, e in ambiente rurale. L’Islam “italiano”, dunque, non ha una uniformità organizzativa ma presenta una forte frammentarietà. Una delle specificità della presenza islamica in Italia, rispetto ad altri paesi europei, è proprio la diversificazione dei paesi di provenienza, che impedisce di identificarlo con un paese in particolare. Questo, legato alla scarsità di un legame con le ex colonie, porta di fatto alla presenza, nel nostro territorio, di una unica identità nazionale musulmana. Da un punto di vista organizzativo, poi, sempre Allevi ci aiuta a comprendere meglio la situazione complessiva presente in Italia: L’articolazione interna, in termini associativi, è frammentata e divisa, talvolta attraversata da contrapposizione anche profonde. L’organizzazione principale è l’UCOII (Unione delle Comunità e delle Organizzazioni islamiche in Italia), costituita nel 1990, promossa dall’USMI (Unione degli Studenti Musulmani in Italia, una delle più antiche presenze islamiche nel nostro paese, risalente già al 1971). L’USMI, oggi di peso modesto, è a sua volta la sezione italiana dell’IIESO, la federazione internazionale delle organizzazioni studentesche legata ai Fratelli Musulmani. Altre organizzazioni vanno poi a comporre il grosso puzzle associativo islamico, tra cui il Centro Islamico Culturale d’Italia, ovvero la Moschea di Roma e L’UMI (Unione Musulmani d’Italia), di minor rilievo. Tutto ciò ci permette di comprendere il tentativo della comunità islamica di rappresentarsi all’interno di un territorio come quello italiano, realtà importanti in quanto centri interlocutori anche se, non bisogna sottovalutarlo, non gli unici in quanto sono tanti i musulmani frequentatori di moschee che non si riconoscono in nessuna di queste organizzazioni. Altro aspetto importante è quello riguardante la donna musulmana. L’Occidente si è preso “la briga” se così vogliamo dire, di imporre alla figura femminile il proprio stile, così da salvarla dalla sua tragica condizione di donna islamica. Esaminare realmente ed in maniera obiettiva il suo vero ruolo all’interno della religione musulmana, sembrasse essere diventata cosa assai ardua. L’Islam primordiale miglioró in un certo qual modo, inizialmente, la condizione della donna, limitando i casi di ripudio e frenando la poligamia. Certo, il patriarcato rimase la struttura familiare e sociale predominante, così come lo era all’interno dell’Impero bizantino; proprio l’influenza che l’Islam ricevette dalle altre religioni monoteiste, il loro modo di fare e agire, lo allontanò dai propri concetti base tra cui, appunto, il rispetto dei sessi. Anche qui, dunque, si andò determinando la disuguaglianza tra uomini e donne. Che l’influenza delle altri religioni sia stata determinante, è dimostrato dalle parole di San Paolo: “L’uomo è a capo della famiglia; la donna gli deve ubbidienza e ne riceverà, in quanto essere fragile, protezione”. Tornando alla figura femminile musulmana in Occidente, essa, dunque,subisce una imposizione di un modello che punta alla mercificazione della donna, intesa come “libertà”. E non deve stupire se molte donne islamiche, scelgano come forma di resistenza, proprio il velo, lo hijab, per contrastare questa forzatura e mantenere la propria identità. Concludendo, oggi, la comunità musulmana si ritrova a dover affrontare pregiudizi occidentali che, di fatto, impediscono una concreta e matura integrazione; d’altronde, il fenomeno migratorio, incentivato dal capitalismo, sfrutta al massimo la sofferenza dei popoli con il solo fine di cedere forza lavoro sottopagata e sfruttata, impedendo di fatto, con il beneplacito dei governi ormai ridotti a meri strumenti capitalistici, la creazione di società multiculturali sane e proficue.
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