Sono le 2:30 del mattino del 25 Luglio 1943 quando, dopo dieci ore di discussione, la maggioranza del Gran Consiglio del Fascismo vota l’ordine del giorno Grandi aprendo la crisi del regime, come secondo alcune ricostruzione lo stesso Mussolini avrebbe detto a chiusura della seduta; alle 17:30 dello stesso giorno il Duce sarebbe stato arrestato subito dopo essere uscito dall’incontro con Vittorio Emanuele III nel quale il re gli aveva comunicato che lo aveva sostituito alla guida del governo con il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Quasi ventiquattro ore al termine delle quali il regime che per vent’anni aveva guidato l’Italia si sciolse come neve al sole e non per merito delle opposizioni esterne, ma per collasso statico interno. Ancora oggi la ricostruzione di quegli eventi è uno dei più complessi e affascinanti ambiti di studio della storiografia sul fascismo. Quello che andrò a fare con questo articolo non sarà un’arida cronologia degli eventi, anche perché come vedremo è sostanzialmente impossibile ricostruire ciò che avvenne minuto per minuto nella sala del pappagallo di Palazzo di Venezia, ma un tentativo di ricostruire cosa fu la CLXXXVII riunione del Gran Consiglio: un bieco tradimento? l’estrema ratio per cercare di salvare l’Italia dalla catastrofe? la resa di un Mussolina fisicamente stanco e moralmente sconfitto dagli eventi? o forse il disperato tentativo di salvare il salvabile del fascismo?
Premessa fondamentale è mettere in chiaro cos’era il Gran Consiglio del Fascismo. Ebbene subito dopo la presa del potere con la Marcia su Roma, Mussolini ideò questo organo supremo del Partito Nazionale Fascista, il quale entrò ufficialmente in funzione con la sua prima seduta il 15 Dicembre 1922 al Grand Hotel dove il Duce alloggiava. Con legge del 9 Dicembre 1928 si ebbe l’elevazione ad organo costituzionale del Gran Consiglio che veniva definito come “organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del Regime sorto dalla Rivoluzione dell’Ottobre 1922. Esso ha funzione deliberativa nei casi stabiliti dalla legge, e dà, inoltre, parere su ogni altra questione politica, economica o sociale di interesse nazionale, sulla quale sia interrogato dal Capo del governo”. La legge sulla costituzionalizzazione del Gran Consiglio segna il punto d’arrivo della distruzione della stato liberale post-unitario con l’inserimento di un organo di partito all’interno della struttura amministrativa dello Stato; si crea dunque quell’osmosi tra Stato e Partito che sarà il marchio di fabbrica di tutti i totalitarismi. Apparentemente il Gran Consiglio era titolato a occuparsi di molte ed importanti materie: deliberare sulle liste dei deputati, sugli statuti, sugli ordinamenti e le direttive politiche del partito fascista; sulla nomina e la revoca del segretario, vicesegretario, segretario amministrativo e degli altri membri del direttorio del Partito; inoltre il suo parere doveva essere raccolto sulle questioni a carattere costituzionale ( tra le quali anche la successione al trono e le prerogative della corona), sui rapporti con la Santa Sede e sui trattati internazionali che impongono variazioni al territorio nazionale o delle colonie. Teoricamente infine avrebbe anche dovuto di stilare la lista dei nomi da presentare alla corona in caso di vacanza del Capo del governo, Primo Ministro Segretario di Stato (insomma il successore di Mussolini), ma sembra che questa lista non venne mai realizzata. A fare parte di questo consesso era in primo luogo ovviamente il Capo del governo, che “lo convoca quando lo ritiene necessario e ne fissa l’ordine del giorno”, veniva poi il Segretario del Partito, all’epoca Carlo Scorza, che ne era il segretario e poteva fare le veci del Capo del governo in sua assenza; poi ne erano membri permanenti di diritto i quadrumviri della rivoluzione e cioè nel 1943 Emilio De Bono e Cesare Maria de Vecchi dato che sia Italo Balbo che Michele Bianchi erano all’epoca già morti. Venivano poi i membri non permanenti in ragione della loro carica quali Ministri, Presidente del Senato e della Camera dei Fasci e delle Corporazioni (dunque Giacomo Suardo e Dino Grandi), il Comandante della MVSN, il Presidente del Tribunale speciale, dell’Opera Nazionale Balilla, delle corporazioni e degli enti riconosciuti, dell’Accademia d’Italia e i membri del direttorio del PNF. Infine c’erano coloro che potevano essere nominati per tre anni per meriti speciali e in quel Luglio 1943 a rientrare in questo gruppo erano: Alberto De Stefani, Galeazzo Ciano, Edmondo Rossoni, Giuseppe Bottai, Giovanni Marinelli, Dino Alfieri, Roberto Farinacci e Guido Buffarini Guidi. Ho detto che il Gran Consiglio si occupava apparentemente di materie centrali perché, nonostante l’importanza di essere stato elevato ad organo costituzionale ed il calibro delle personalità coinvolte nelle sue sedute (praticamente tutti gli alti papaveri del regime), in realtà di fatto il Gran Consiglio fu, almeno fino a quell’ultima seduta, un organo meramente consultivo il cui ruolo di fatto era di confermare con voto unanime le decisioni già assunte da Mussolini; infatti al termine delle sedute non si dava un resoconto accurato della stessa, ma semplicemente il “Foglio d’ordine” del partito e la stampa riportavano un comunicato preconfezionato nel quale si indicavano i presenti, si esponeva per sommi capi quale era stato l’argomento della discussione e infine si annunciava il voto unanime sull’unico ordine del giorno del Partito. Tutte le principali decisioni del ventennio passarono attraverso la vidimazione del voto unanime del Gran Consiglio: la Carta del Lavoro, la proclamazione dell’Impero, le leggi razziali e la non belligeranza; 186 riunioni prima di quell’ultima decisiva tenutesi con sufficiente regolarità dal Gennaio 1922 al Dicembre 1939; poi però quasi quattro anni di silenzio, durante tutto il periodo della guerra mai una volta il Gran Consiglio venne chiamato a controfirmare le decisioni mussoliniane nella gestione del conflitto (dalla dichiarazione di guerra a Francia e Gran Bretagna, all’invasione della Grecia, all’invio di forze in Russia fino alla dichiarazione di guerra agli Stati Uniti). Ciò fu perfettamente in linea con quella politica di accentramento nella persona del Duce della gestione del conflitto, preannunciata già nel 1938 con il discorso sulle forze armate pronunciato in Senato, con la conseguente praticamente totale messa in mora di tutti gli organi e costituzionali e del partito che provocò profondi malumori tra i gerarchi, in quanto punto di arrivo di quel modello sempre più personalistico della gestione del potere avviato da Mussolini già dagli inizi degli anni trenta.
Prima di addentrarci nelle vicende del 25 Luglio ’43 è necessario metter e in chiaro un punto fondamentale: quando si afferma che il Gran Consiglio sfiduciò Mussolini si commette un errore e ciò sia perché il Gran Consiglio non poteva sfiduciare il Capo del governo (non era tra le sue funzioni data la natura consultiva dello stesso), sia perché l’ordine del giorno Grandi non era una mozione di sfiducia, come vedremo infatti non si chiedeva in nessun punto le dimissioni di Mussolini. Il senso profondo del voto di quella notte non fu tanto il cosa venne votato, in quanto un ordine del giorno votato dal Gran Consiglio per legge non poteva impegnare nessuno tanto meno il Duce, ma il fatto che la maggioranza dei gerarchi votò un ordine del giorno che non era espressione del Partito e non aveva l’appoggio di Mussolini , il quale dunque perdeva quel consenso unanime fino ad allora raccolto all’interno del consesso, certificando così per la prima volta una spaccatura all’interno del vertice politico del regime.
Questo voto fu però solo il punto di arrivo di una serie di peculiarità che resero quella riunione un unicum in tutta l’esperienza dello Stato fascista. In primis già il fatto stesso che fossero stati presentati tre ordini del giorno, quando come detto l’ordine del giorno era sempre stato uno espressione del PNF, era qualcosa di assolutamente fuori dall’ordinario; inoltre le convocazioni del Gran Consiglio erano caratterizzate da un preciso rituale che però quella volta non venne seguito: niente gagliardetto del partito esposto al balcone di Palazzo Venezia, obbligo per i gerarchi di parcheggiare le loro autovetture dentro l’edificio e non fuori come si faceva di solito ed infine il mistero sulla presenza dei moschettieri del Duce, una sorta di guardia d’onore, per alcuni dei partecipanti presente per altri assente. Insomma sembrava quasi che non si volesse dare troppo risalto a questa prima convocazione del Gran Consiglio dopo tre anni; forse era legato a una scelta di segretezza data la situazione militare, ma certamente si trattò di una peculiarità da tenere a mente. Nessuna stranezza invece per l’assenza di uno stenografo e di un verbale della seduta. Su questo punto su cui si è discusso a lungo, sembra che alla fine la storiografia sia giunta a una linea concorde e cioé che l’assenza di uno stenografo, chiesto apparentemente da alcuni dei gerarchi e dal Segretario Scorza ma rifiutato da Mussolini, non sia un fatto peculiare in quanto tutte le sedute del Gran Consiglio si erano svolte senza la presenza di uno stenografo che verbalizzasse quanto si diceva. La ragione era che Mussolini non voleva che restassero tracce di eventuali battibecchi, discussioni o posizioni contrarie alla sua linea; l’unica cosa che doveva trasparire all’esterno era l’unanimità con cui il consesso aveva concluso la seduta. Per questo motivo non esiste un verbale ufficiale della seduta del 25 Luglio ed è dunque di fatto impossibile ricostruire uno per uno i vari interventi; dei verbali ufficiosi, sebbene fosse vietato anche prendere appunti, vennero redatti da alcuni dei presenti (De Marsico, Federzoni, Biggini, Polverelli forse lo stesso Mussolini prese appunti), ma la loro affidabilità va presa con le pinze dato che furono oggetto di trascrizioni e rimaneggiamenti e non ebbero diffusione pubblica se non dopo la fine della guerra (quindi in un momento in cui i redattori erano interessati a dare una versione a loro favorevole di ciò che avvenne).
Ma dunque come si giunse alla convocazione del Gran Consiglio? Come abbiamo visto l’organo era convocato a discrezionalità dal Capo del Governo che non aveva esercitato questa facoltà per tre anni e non pareva intenzionato a farlo neanche adesso che il momento pareva sempre più drammatico. Il 9 luglio gli Alleati erano sbarcato in Sicilia dove, anche per il contributo della Mafia, molte unità si erano liquefatte in poche ore e la popolazione aveva accolto festosamente quelli che erano già i liberatori; ma la Sicilia era solo l’ultimo atto della catastrofe militare italiana: pochi mesi prima vi era stata la resa senza combattere di Pantelleria, prima ancora poi la perdita dell’Africa, l’ecatombe dell’ARMIR in Russia e ancora l’umiliazione greca. Soprattutto però c’era l’evidente consapevolezza che le fantasia della guerra italiana parallela a quella tedesca erano state messe da parte e che la Germania trattava ormai l’Italia come un satellite, seppur usando per quanto possibile i guanti di velluto in ragione dell’affetto che Hitler continuava a provare per Mussolini. In questa situazione solo pochi mesi prima Mussolini aveva cambiato il terzo segretario del Partito in quattro anni: dopo infatti Ettore Muti, che nel Novembre 1939 aveva spodestato Starace dalla più lunga segreteria della storia del PNF, seguì Adelchi Serena (1940-1941), Aldo Vidussoni (1941-1943) e appunto Carlo Scorza. Già questa giostra di segretari di partito è significativa in quanto dimostra una incapacità di Mussolini di trovare l’uomo giusto che fosse in grado di ravvivare il PNF. Starace, il “cretino ubbidiente” come da definizione dello stesso Mussolini, era stato perfetto per lo scopo desiderato dal Duce e cioé trasformare il PNF in un organo acefalo che fungesse da mera cinghia di trasmissione tra il paese e il Duce; quando però la guerra ebbe inizio e iniziarono anche le difficoltà a Mussolini un partito del genere non serviva, serviva un’entità viva che mobilitasse gli italiani e condividesse un po’ del peso delle responsabilità dell’andamento sempre meno favorevole degli eventi. Scorza apparteneva a quella “corrente” che, pur nella fedeltà a Mussolini, riconosceva che la situazione era grave e che era necessario dare una scossa agli organi istituzionali dello Stato, Partito in testa rimuovendo la corruzione e “l’elefantiasi generale”, in modo tale che questi divenissero strumento per una “trasformazione e riorganizzazione… imponendo a tutti uno stile e un metodo di vita consoni al grave destino che incombe sulla Nazione”. A tal fine Scorza voleva che i gerarchi prendessero parte a delle “adunate regionali” per ridare slancio al fascismo presso le masse, ma non appena la cosa venne annunciata alcuni gerarchi dissero semplicemente che non vi avrebbero partecipato, altri chiesero un incontro con il segretario per capire cosa dovevano dire a un a paese scoraggiato e ormai convinto che la vittoria sarebbe stata degli altri, tedeschi o alleati, ma non certamente dell’Italia. Il 16 Luglio si tenne questo incontro che, come ebbe a dire Bottai, fu un preambolo del Gran Consiglio in quanto ben presto la discussione si trasformò in una contestazione generale al Duce e “all’isolamento in cui si è chiuso”; venne particolarmente attaccata la scelta del Capo di accentrare sulla sua persona un gran numero di dicasteri in particolare quello degli Interni e tutti quelli militari. A conclusione di questa specie di rivolta si chiese a Scorza di convincere il Duce a ricevere i presenti per potergli dire di persona cosa pensavano della situazione. Davanti a Mussolini il copione fu lo stesso con Farinacci che attaccò frontalmente lo Stato Maggiore e Bottai che illustrò una linea non tanto di superamento del fascismo, ma di rinnovamento del fascismo stesso con una rimessa in funzione degli organi del regime e delle leggi dello Stato che “Prevedono che tu sia il “primo”, non il solo, dei ministri: il primo dunque in un consiglio dei Ministri realmente esistente in ogni settore “. Mussolini, che probabilmente non si aspettava questo pronunciamento come lo ebbe a definire lui stesso (e che forse gli ricordò quando il 31 Dicembre 1924, nel pieno della crisi per il delitto Matteotti, un gruppo di consoli della Milizia fece irruzione nel suo ufficio minacciandolo di prendere loro in mano la situazione se lui avesse continuato con la sua tattica attendista), per un po’ tentò di resistere alla gragnuola di critiche, per poi infine capitolare dicendo “Ebbene, radunerò il Gran Consiglio. Si dirà in campo nemico che s’è radunato per discutere la capitolazione. Ma l’adunerò.”.
Se il malumore dei gerarchi si esprime ancora, bene o male, all’interno delle strutture del partito, ci sono però altri soggetti in Italia che guardano a loro volta con profonda insoddisfazione alla gestione mussoliniana delle cose e che si preparano a prendere in mano la situazione. Non è molto ricordato infatti che negli stessi giorni in cui si verificano gli eventi che condurranno al Gran Consiglio, i militari sono ormai pronti al colpo di stato per rimuovere Mussolini. Il piano realizzato dal Ministro della Real Casa insieme con il nuovo Capo di Stato Maggiore Ambrosio prevedeva l’arresto o l’eliminazione del Duce, il blocco dei centralini telefonici della Presidenza del Consiglio e del Ministero degli Interno, l’incorporazione della milizia nel Regio Esercito, lo scioglimento del PNF e la militarizzazione delle guardie di pubblica sicurezza. In realtà i militari erano già pronti al colpo di mano nel 1942, ma allora era mancato l’assenso di Vittorio Emanuele III che però anche in quel Luglio 1943 fu fino all’ultimo una sfinge sulle sue intenzioni. Probabilmente anche il re ormai aveva maturato da un anno l’idea che l’uscita di scena di Mussolini fosse necessaria per poter mettere in atto lo sganciamento dalla Germania in modo tale da salvare il salvabile, in particolare la dinastia. A riprova di ciò vi è una frase sibillina che Vittorio Emanuele pronunciò al suo aiutante di campo Puntoni allorché si sparse la voce che Mussolini aveva intenzione di scendere nella Sicilia invasa per verificare la situazione, in sostanza il re disse che sarebbe stato un peccato se per questa iniziativa Mussolini fosse stato fatto prigioniero, o peggio ucciso, “anche se ciò faciliterebbe il chiarimento della situazione generale”. Interpretare i pensieri di Vittorio Emanuele, uomo freddo , intelligente, ma gretto e per nulla con il senso del pubblico è difficile; a Dino Grandi, che in quei mesi spesso si recò da lui per avere un imprimatur ad agire all’interno delle istituzioni per provocare un qualche “fatto nuovo”, si limitava sempre a dire la stessa frase “Abbia fiducia nel suo re.”. I motivi per cui il Savoia attese fino all’ultimo prima di decidersi ad agire possono essere vari: sopravvalutazione della risposta che sarebbe potuta venire dai fascisti in caso di esautorazione violenta di Mussolini, timore della reazione tedesca, ricerca di garanzie da parte Alleata in merito alla sopravvivenza della monarchia ed infine, non è da escludere, gli ultimi barlumi di ammirazione per quell’uomo che, anche dopo averlo fatto arrestare, affermerà “ha la più grande testa che io abbia mai conosciuto”. Probabilmente a spingerlo a rompere gli indugi fu il rapido susseguirsi di tre eventi: la convocazione del Gran Consiglio, il bombardamento di Roma del 19 Luglio e l’esito dei colloqui tra Mussolini e Hitler a Feltre. Il Duce si era recato a questo incontro ufficialmente con lo scopo di ottenere dal Fuhrer o ingenti rinforzi per il fronte italiano o l’autorizzazione ad uno sganciamento unilaterale dell’Italia dall’Asse; alla fine della fiera però il tutto si risolse nell’ennesimo monologo hitleriano. Rientrato a Roma Mussolini riferì del fiasco al re che, stando a quanto riferì sempre Puntoni, di fatto chiese al Duce di lasciare il governo “ma è stato come parlare al vento” in quanto Mussolini o non capì o non volle capire (“Ho tentato di far capire al Duce che ormai soltanto la sua persona, bersaglio della propaganda nemica e preso di mira dall’opinione pubblica, ostacola la ripresa interna e si frappone a una definizione netta della nostra situazione militare. Non ha capito o non ha voluto capire. E’ come se avessi parlato al vento.”). Questo è un punto interessante e cioè in quei giorni Mussolini era davvero convinto di avere ancora la monarchia al suo fianco o aveva compreso che anche il re lo aveva scaricato? Non è facile dare un risposta e dal quel che sembra fino all’ultimo il Duce non si avvide che il re aveva deciso di sbarazzarsi di lui. Oltre infatti a questo aneddoto sulla penultima conversazione tre il re e il capo del governo, vi è il racconto di Enzo Emilio Galbiati, comandante della MVSN, che vide Mussolini poco prima che questi andasse all’incontro al termine del quale sarebbe stato arrestato, il quale chiedendo al Duce se era sicuro di avere ancora l’appoggio del re si vide rispondere ” Non ho mai fatto nulla senza il suo pieno assenso. In oltre vent’anni sono andato da Lui una e anche due volte a settimana, e mi sono consultato con Lui su ogni questione di Stato e anche su cose private. Egli è sempre stato solidale con me.”. Onestamente mi è sempre parsa una risposta eccessivamente ingenua da persona che non ha la ben che minima memoria degli screzi che si erano iniziati a manifestare nella diarchia dalla seconda metà degli anni trenta. Certo se davvero l’animo di Mussolini era questo allora è possibile spiegare il suo comportamento durante il Gran Consiglio, su cui torneremo, con la convinzione che comunque il re gli avrebbe rinnovato la fiducia. Se invece Mussolini fosse stato conscio che Casa Reale l’aveva abbandonato l’unica spiegazione razionale alla sua completa mancanza d’iniziativa è che il Duce volesse essere dimissionato, ma come detto torneremo in seguito su questa centralissima questione. Per adesso ciò che importa è che l’aver messo in luce l’esistenza di una congiura militare parallela al Gran Consiglio permette di aggiungere un’ulteriore quesito necessario per la comprensione degli eventi del 25 Luglio ’43: vi fu mai una saldatura tra la rivolta dei gerarchi e la congiura militare? Vi fu insomma quel complotto gerarchi traditori – militari – Casa Reale che fu poi la tesi del processo di Verona? La risposta passa dalla messa a fuoco dei protagonisti di quella storica ultima seduta del Gran Consiglio.
Come visto dei tre artefici della mozione che avrebbe aperto la crisi del regime, solo Bottai ebbe un ruolo di primo piano nella convocazione del Gran Consiglio. Tanto Grandi quanto Federzoni entrarono infatti in scena solo dopo l’annuncio della convocazione del supremo organo del fascismo; il primo infatti era da mesi in ritiro a Bologna da dove non si mosse neanche quando Scorza lo precettò per le adunate regionali, Federzoni invece espresse personalmente a Scorza le sue riserve per le adunate, non partecipando però neanche lui agli eventi del 19 Luglio in quanto a sua volta nel capoluogo emiliano. In seguito Grandi tenterà di ricostruire di sé l’immagine del gran manovratore che guidò con fine istinto politico gli eventi che condussero al voto del Gran Consiglio, ma la realtà che appare dall’analisi incrociata di memorie, diari e testimonianze dei protagonisti del tempo è quella di un Presidente della Camera che, fino all’annuncio di Scorza della convocazione dell’assemblea, non avesse alcun piano per produrre quel “fatto nuovo” che potesse spingere il re a prendere l’iniziativa.
Tanto Grandi quanto Federzoni sin dalle ore successive al collasso del fascismo tentarono di riscrivere la loro storia politica affermando di non aver mai soggiaciuto al carisma del Duce, pur ammirando la persona, a cui rimasero fedeli pur non mancando di essere “frequentemente contro di lui”. In realtà basta solo rievocare la biografia dei due come ha fatto Emilio Gentile nella sua opera “25 luglio 1943” per rendersi conto che se tale opposizione davvero vi fu, fu meramente interna al loro animo e ben nascosta all’esterno da eccellenti doti attoriali. Grandi in particolare aveva attraversato tutte le fasi principali della storia del fascismo: Ras ai tempi dello squadrismo, aveva capitanato la rivolta contro Mussolini quando questi aveva tentato d’imporre alle squadre d’azione il patto di pacificazione con i socialisti; contrario alla marcia su Roma, dopo la presa del potere aveva incarnato quell’ala del fascismo che, contrariamente alle aspirazioni da seconda ondata di Farinacci, propugnava una borghesizzazione del movimento. In seguito era stato l’artefice della politica estera che metteva l’Italia come ago della bilancia tra il sistema di Versailles e i paesi revisionisti, contrastando l’aggressività della Germania dopo l’ascesa di Hitler e per questo attirandosi l’odio di Berlino, e aveva continuato a rivestire incarichi di primo piano prima come Ministro della Giustizia e poi come Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni avallando tutte le politiche del regime, anche ad esempio le leggi razziali. Grandi sostenne che però già dal 1932 aveva iniziato a guardare con fastidio alla svolta sempre più personalistica imposta da Mussolini al regime, decidendo però di continuare a svolgere la sua attività politica per spirito di servizio alla Nazione, eppure i suoi malumori in tal senso paio iniziare a manifestarsi solo verso la fine degli anni trenta (celebre la sua frase che Mussolini era ormai diventato “un monumento a sé stesso”) ed essere poi sempre più espliciti con il peggioramento della situazione bellica (“non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista durante vent’anni” avrebbe detto nel Gennaio 1942 stando al diario di Ciano) seppur senza mai far mancare a parole attestati di stima e fiducia al Duce (e anche mielose richieste d’intercessione per questioni personali come il conferimento del Collare dell’Annunziata). Per Federzoni è possibile ripetere quasi le stesse cose, pur venendo originariamente dagli ambienti dell’Associazione Nazionalista Italiana di Corradini divenne rapidamente un gerarca di primo piano svolgendo gli incarichi di Ministro degli Interni e delle Colonie per poi divenire Presidente del Senato, dove nonostante l’inseguito affermata avversione al regime totalitario si produsse in una campagna per spingere i senatori ad iscriversi al PNF, ed infine Presidente dell’Accademia d’Italia. Durante tutto questo periodo magnificò costantemente Mussolini sia in pubblico che in privato continuando a farlo finché, anche nel suo caso, il drammatico peggioramento della situazione bellica non lo portò ad iniziare a parlare apertamente della possibile necessità di sostituire Mussolini alla guida del governo.
Tutta questa ambiguità che caratterizza questi due protagonisti del 25 Luglio, rende non poco difficile comprendere quali fossero le loro reali intenzioni e i propositi nel presentare l’ordine del giorno che in seguito sarebbe stato votato in Gran Consiglio. Recuperando il quesito introdotto prima è molto improbabile che le loro azioni vadano inserite all’interno di un piano unitario che coinvolgeva Casa Reale e militari. Infatti non solo non sono mai emerse evidenze storiche in tal senso, ma neanche nessuno dei due sembra fosse in confidenza tale con il Quirinale e o lo Stato Maggiore per essere messo a parte di un progetto che mirava a smantellare quel regime di cui loro stessi erano i gerarchi. Va detto che Grandi da mesi affermava in realtà di raccogliere costantemente dichiarazioni di fiducia e stima da parte del re il quale si tratteneva spesso a conversare con lui, ma sembra che il Presidente della Camera o millantasse o sopravvalutasse questo rapporto. Nel diario di Cina infatti si riferisce di come il generale Puntoni abbia negato di questa frequentazione al di fuori delle necessità istituzionali e nel diario dello stesso Puntoni si trova un giudizio molto tagliente su Grandi da parte dello stesso Vittorio Emanuele “Quell’uomo non mi soddisfa troppo. Non è un elemento sicuro, non ha schiena e con Mussolini recita una doppia parte.”. Infine Grandi attese fino all’ultimo per informare il Quirinale dei suoi progetti, per mezzo di una lettera contenente il testo del suo ordine del giorno consegnata proprio a Puntoni con l’impegno di girarla al re solo a Gran Consiglio iniziato. Escludendo dunque un’azione congiunta tra gerarchi e opposizioni “esterna” al Duce, l’ipotesi che mi sembra più probabile è che Grandi e Federzoni puntassero ad un’uscita di scena soft di Mussolini, magari con un suo rimanere in scena come “padre nobile” senza però veri poteri, per avviare una transizione interna che non smantellasse il regime, ma ne smussasse gli angoli per renderlo agli occhi degli Alleati un negoziatore accettabile di qualcosa di diverso dalla resa incondizionata; ovviamente credo che tanto Grandi quanto Federzoni intendessero candidarsi alla gestione di questa nuova fase. Quella di un possibile spiraglio per una qualche trattativa con gli alleati una volta uscita di scena la figura ingombrante del Duce non deve essere considerata un’illusione isolata, di fondo anche Badoglio avviò i contatti gli anglo-americani con questa speranza, e negli ultimi giorni di guerra tanto Goering che Himmler cercarono di accreditarsi come rappresentanti della Germania presso gli Alleati convinti che a per questi fosse sufficiente che la controparte con cui negoziare non fosse Hitler. Ovviamente è difficile dire quanta componente di ambizione personale e quanta di sincera preoccupazione per i destini del paese vi fosse alla base dell’iniziativa dei due gerarchi, ma mi sento di dire che nessuno dei due aveva in progetto di determinare il crollo del regime; certo è possibile che se contatti con Casa Reale e con lo Stato Maggiore vi siano stati i due possano essere stati ingannati in merito all’esito delle loro azioni, ma mi sembra una ricostruzione troppo macchinosa ad oggi non supportata da alcun elemento.
Per quanto riguarda Bottai, l’ultimo appartenente al triunvirato da cui ebbe la primogenitura l’ordine del giorno Grandi, la sua figura appare molto più cristallina rispetto a quella dei suoi due compari. Mentre infatti questi in seguito si diedero un gran da fare per spogliarsi della camicia nera, Bottai non rinnegò mai la sua fede nel fascismo e nell’aver creduto in Mussolini e per questo riservò giudizi durissimi tanto a Grandi quanto a Federzoni. In Bottai vi è tutto il dramma di una generazione che aveva davvero creduto che il fascismo e Mussolini sarebbero stati in grado di rinnovare l’Italia e per questo, nonostante la disillusione, non era pronto a gettare via tutto ciò che il fascismo era stato. Tra i gerarchi lui era uno dei pochi che, pur muovendo critiche serrate al Duce, riteneva che non fossero tutte sue le colpe della situazione e che anzi vi era una responsabilità unitaria di tutti coloro che avevano preso parte al ventennio se il fascismo non era riuscito a trasformare in meglio il popolo italiano. Il suo desiderio era che il Gran Consiglio non rappresentasse la fine, ma invece la riscossa del fascismo, ma quando poi ragionava con realismo ammetteva che Mussolini e fascismo ormai erano divenuti sinonimi e il secondo non era in grado di esistere senza il primo; nei suoi diari vi sono riflessioni pessimiste e disilluse rispetto alla fantasia di chi si illudeva che, una volta sostituito Mussolini, fosse possibile negoziare una pace non umiliante magari anche con l’assenso dei tedeschi. La sintesi del personaggio per me traspare da queste parole vergate sul suo diario la mattina del 24 Luglio “Il nostro dovere ci ha messo a un bivio, tra Paese e Partito, tra Italia e Regime, tra Re e Capo.”. Non è un caso che, dopo il collasso del regime, mentre gli altri gerarchi che votarono l’ordine del giorno Grandi fuggirono all’estero o si nascosero, lui solo si arruolò nella Legione straniera sentendosi in dovere di espiare la colpa “di non aver saputo fermare in tempo la degenerazione fasciata”. Montanelli scrisse che queste parole, unito al fatto che Grandi (così almeno lui raccontò in seguito) si recò in Gran Consiglio con due bombe a mano nella borsa nel caso le cose fossero andate male, quantomeno elevano la congiura dei gerarchi a un livello morale superiore rispetto al complotto regio-militare.
Veniamo adesso a uno dei punti fondamentali dell’analisi della vicenda del 25 Luglio 1943 e cioè l’esame degli ordini del giorni. Ne furono presentati tre, uno a firma Grandi, uno a firma Farinacci e uno a firma Scorza a nome del Partito, e come detto già questa era una cosa eccezionale in quanto la prassi era che solo il segretario del PNF presentasse un ordine del giorno espressione della posizione del Duce.
Iniziamo con l’ordine del giorno Grandi che poi fu l’unico ad essere effettivamente votato. Già la sua primogenitura è poco chiara in quanto Grandi in seguito affermerà di averlo abbozzato nelle trincee dell’Epiro, durante il suo periodo di servizio al fronte durante la guerra di Grecia, conferme in tal senso però non ve ne sono in quanto non si hanno notizie dell’esistenza di questo testo prima del 20 Luglio 1043, data del rientro a Roma del Presidente della Camera a seguito della convocazione del Gran Consiglio. Inoltre è certo che quella che venne infine presentata era la terza rielaborazione del testo originario redatto da Grandi, passata attraverso un processo anche di radicale ristrutturazione ad opera dello stesso Presidente della Camera e di Bottai. La stesura definitiva affermava: “Il Gran Consiglio del Fascismo, riunendosi in questi giorni di supremo cimento, volge innanzi tutto il suo pensiero agli eroici combattenti d’ogni arme che, fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia in cui più alta risplende l’univoca fede del popolo italiano, rinnovano la nobile tradizione di strenuo valore e d’indomita spirito di sacrificio delle nostre gloriose Forze Armate. Esaminata la situazione interna ed internazionale e la condotta politica e militare della guerra: proclama il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, l’indipendenza, la libertà della Patria, i frutti dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in quest’ora grave e decisiva per i destini della Patria; dichiara che tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie e costituzionali; Invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore della Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia.“. Rispetto alla bozza originale Grandi già nella seconda stesura aveva infine optato per un approccio più soft eliminando il punto in cui si chiedeva esplicitamente lo smantellamento del regime totalitario (“sia abolito il regime totalitario e data a tutti i partiti politici libertà di svolgere la loro attività nell’orbita delle nostre leggi costituzionali”) e riaffermando la necessità del sistema a partito unico (“indispensabile” e “insostituibile” come organizzazione dedita “all’educazione politica del popolo e alla formazione e alla preparazione della classe dirigente alla vita dello Stato”) , ma anche la seconda stesura passò attraverso un’opera di correzione e di limatura per mano di Bottai che inserì il primo paragrafo con l’omaggio alle forze armate e al popolo siciliano, chiarì meglio l’ultimo e più importante paragrafo e inserì una riaffermazione del ruolo del Gran Consiglio che invece nella versione di Grandi si sarebbe dovuto eliminare (Bottai non era contrario a prescindere a ciò, ma riteneva non fosse opportuno affermarlo mentre si chiedeva allo stesso Gran Consiglio una presa di posizione così risolutiva). Come detto il punto centrale dell’ordine del giorno Grandi, che come si vede non era una mozione di sfiducia rivolta a Mussolini, era l’ultimo paragrafo dove si affermava “Invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore della Nazione, affinché Egli voglia per l’onore e per la salvezza della Patria assumere con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state in tutta la nostra storia nazionale il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia.“, per capire l’importanza di tali parole bisogna leggere il testo dell’articolo 5 dello Statuto Albertino “Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il capo supremo dello Stato; comanda tutte le forze di terra e di mare, dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato lo permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune. I trattati che importassero un onere per le finanze o variazioni di territorio dello Stato, non avranno effetto se non dopo ottenuto l’assenso delle Camere.”. Ciò a cui dunque punta davvero l’ordine del giorno Grandi, dietro la copertura della restituzione al Re del comando supremo delle forze armate (punto ampiamente condiviso in quei giorni dalla stragrande maggioranza dei gerarchi), era la restaurazione del potere esecutivo della monarchia, che l’art. 5 dello Statuto legava in un tutt’uno con il comando delle forze armate, con conseguente ridimensionamento di Mussolini le cui competenze sarebbero state ricondotte a quelle di Capo del Governo come fissate dallo Statuto e dalla Legge del 24 Dicembre 1925. Non dunque una demolizione del regime fascista, a cui per altro abbiamo detto lo stesso Bottai non era favorevole, ma certamente la messa in possibilità che il re, restaurato nei suoi poteri statutari, potesse dimissionare il Capo del governo. Si trattava insomma di un attacco di fino la cui portata, come vedremo, non fu colta da molti partecipanti alla seduta.
Una precisazione aggiuntiva va fatta rispetto all’ordine del giorno Grandi al fine di dimostrare la fallacia della tesi del tradimento, ancora oggi portata avanti in ambienti nostalgici e neofascisti. Questo infatti non fu un documento segreto tirato fuori con un coup de theatre in pieno Gran Consiglio, ma anzi il Presidente della camera si attenne a tutte le procedure di legge per la sua presentazione. Il testo venne fatto girare tra tutti i membri del Gran consiglio nei giorni che precedettero l’assemblea, venne regolarmente presentato al segretario del partito, che sembra in un primo momento si dichiarò disposto a sostenerlo previa alcune modifiche, venne anche consegnato allo stesso Mussolini (che avrebbe potuto respingerlo dato che la legge istitutiva del Gran Consiglio gli assegnava il potere di fissarne l’ordine del giorno) dopo che il suo contenuto gli era stato anticipato da Grandi in persona durante un incontro a Palazzo Venezia che i due ebbero il 22 Luglio. Durante questo incontro Mussolini contestò la posizione del Presidente della camera, ma di fatto né tentò di imporgli di ritirare l’ordine del giorno né cercò una mediazione o una sintesi su un testo a lui accettabile. Insomma ben difficile parlare di tradimento se il tradito era ben conscio del complotto ai suoi danni e non esercitò nessuno degli ampi poteri di cui ancora disponeva per ostacolarlo.
La devastante sottigliezza giuridica del contenuto dell’ordine del giorno Grandi appare ancor più chiaro se lo si confronta con l’ordine del giorno Farinacci, il cui testo era: “Il Gran Consiglio del fascismo, udita la situazione interna ed internazionale e la condotta politico-militare della guerra sui fronti dell’Asse, rivolge il suo fiero e riconoscente saluto alle eroiche Forze Armate italiane e a quelle alleate, unite nello sforzo e nel sacrificio per la difesa della civiltà europea, alle genti della Sicilia invasa, oggi più che mai vicina al cuore delle nostre genti, alle masse lavoratrici dell’industria e dell’agricoltura che potenziano col lavoro la Patria in armi, alle camice nere ed ai fascisti di tutta Italia che si serrano nei ranghi con immutata fedeltà al regime; afferma il dovere sacro per tutti gli italiani di difendere fino all’estremo il sacro suolo della Patria, rimanendo fermi nell’osservanza delle alleanze concluse; dichiara che a tale scopo è necessario e urgente il ripristino integrale di tutte le funzioni statali, attribuendo al re, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, al Partito, alle corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dal nostro Statuto e dalle nostre legislazioni; invita il Capo del Governo a chiedere alla Maestà del re, verso il quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore della nazione, perché voglia assumere l’effettivo comando di tutte le Forze Armate e dimostrare così al mondo intero che tutto il popolo italiano combatte serrato ai suoi ordini, per la salvezza e la dignità d’Italia.“. A una prima occhiata può sembrare che l’ordine del giorno Farinacci riaffermi il contenuto dell’ordine del giorno Grandi, in realtà in due sono radicalmente diversi. In primis l’ordine del giorno Farinacci ribadisce con forza il dovere della fedeltà all’alleanza con la Germania, richiamo completamente e volutamente omesso nel testo di Grandi, e non poteva essere altrimenti essendo Farinacci il più filo-tedesco all’interno del Gran Consiglio. Montanelli dirà che il 25 Luglio il ras di Cremona fu il difensore d’ufficio della Germania, a mio parere è una definizione un po’ semplicistica Farinacci rappresentava quell’anima del fascismo che riteneva che la rivoluzione fascista fosse scaduta in una mera reazione piccolo borghese e per questo aveva guardato con ammirazione ai risultati invece conseguiti dal nazionalsocialismo. Anche lui chiedeva la restituzione al re del comando supremo delle forze armate, ma non accompagnava la cosa con il richiamo all’art. 5 dello Statuto e alla riassunzione delle altre prerogative che la legge fondamentale riconosceva al sovrano; l’obbiettivo di Farinacci era, come disse lui stesso, “stanare la monarchia” e costringerla ad assumersi la coresponsabilità nella gestione del conflitto, fino a quel momento ricaduta interamente sul regime. Il ras cremonese aveva avuto costanti contatti con Grandi e Bottai nei giorni che precedettero il Gran Consiglio, ma letto il loro ordine del giorno aveva dichiarato di condividerlo in linea di massima tranne per il punto del conferimento alla monarchia di poteri ulteriori a quelli del mero comando delle Forze Armate in quanto, con grande preveggenza, riteneva che ciò avrebbe permesso al re non solo di licenziare Mussolini, ma anche di smantellare il regime. In linea con le speranze di Bottai anche per Farinacci il Gran Consiglio non avrebbe dovuto rappresentare la tomba del ventennio, ma bensì l’occasione per dare rinnovato vigore alla rivoluzione fascista costringendo Mussolini al scendere dal suo piedistallo.
Veniamo infine all’ordine del giorno presentato da Scorza a nome del PNF “Il Gran Consiglio del fascismo, convocato mentre il nemico, imbaldanzito dai successi e reso tracotante dalle sue ricchezze, calpesta la terra di Sicilia e dal cielo e dall’aria minaccia la penisola, afferma solennemente la vitale e incontrovertibile necessità della resistenza ad ogni costo. Certo che tutti gli istituti ed i cittadini, nella piena e consapevole responsabilità dell’ora, sapranno compiere il loro dovere sino all’estremo sacrificio, chiama a raccolta tutte le forze spirituali e materiali della nazione per la difesa dell’unità, dell’indipendenza e della libertà della Patria. Il Gran Consiglio del fascismo, in piedi: saluta le città straziate dalla furia nemica e la loro popolazione che in Roma, madre del cattolicesimo, culla e depositaria delle più alte civiltà, trovano l’espressione più nobile della loro fermezza e della loro disciplina; rivolge il pensiero con fiera commozione alla memoria del caduti e alla loro famiglia che trasformano il dolore in volontà di resistenza e di combattimento; saluta nella Maestà il re e della dinastia sabauda il simbolo e la forza della continuità della nazione e l’espressione della virtù di tutte le Forze Armate, che, insieme con i valorosi soldati germanici, difendono la Patria in terra, in mare, in cielo; si unisce reverente al cordoglio del pontefice per la distruzione di tanti insigni monumenti dedicati da secoli al culto della religione e dell’arte. Il Gran Consiglio del fascismo è convinto che la nuova situazione creata dagli eventi bellici debba essere affrontata con metodi e mezzi nuovi. Proclama pertanto la urgente necessità di attuare quelle riforme ed innovazioni nel Governo, nel Comando Supremo, nella vita interna del paese, le quali, nella piena funzionalità degli organi costituzionali del regime, possano rendere vittorioso l’ultimo sforzo unitario del popolo italiano.“. Per essere l’ordine del giorno che doveva rappresentare la posizione del Duce si trattava di un testo debole, ad alto tasso di retorica e che nella sostanza non andava a rispondere a nessuna delle preoccupazioni dei gerarchi. Nessun accenno infatti alla remissione da parte di Mussolini del comando supremo, punto su cui un po’ tutti nel Gran Consiglio concordavano anche solo per proteggere la figura del Duce eliminando quel filo diretto che si era affermato nella mente degli italiani tra essa e la situazione militare. Neanche il riferimento finale alle riforme fortemente volute da Scorza poteva dirsi sufficiente in quanto, per il modo in cui era stato espresso, il tutto pareva ridursi a null’altro che una dichiarazione d’intenti che trovava il tempo che trovava.
A fronte di questi tre ordini del giorno i restanti ventitré membri del Gran Consiglio si posso dividere in tre gruppi. Da una parte i fedelissimi del Duce come Galbiati e Polverelli (Ministro della cultura popolare) che, pur magari condividendo in linea di massima le critiche e le preoccupazioni degli altri gerarchi, semplicemente non contemplavano la possibilità di votare in disaccordo con Mussolini. Dall’altra parte vi erano quelli che, pur non avendo partecipato alla stesura dell’ordine del giorno Grandi, lo approvarono sin da subito e si misero a fare campagna in suo favore; tra questi vi erano De Marsico, Ciano (odiato da Grandi e per questo tenuto inizialmente in disparte che aderì seppure in un primo momento si disse dubbioso non tanto sull’obiettivo da conseguire, ma sull’utilità del mezzo Gran Consiglio), Acerbo e De Stefani. Infine vi era il gruppo degli incerti cioè tutti coloro che ritenevano fosse necessario fare qualcosa e che in linea di massima diedero il loro assenso all’ordine del giorno Grandi, ma che fino all’ultimo sperarono che Mussolini in Gran Consiglio avesse un colpo di coda che fugasse i loro dubbi. Certamente una buona parte dei diciannove che infine votarono a favore dell’ordine del giorno Grandi non ne comprese appieno la portata, probabilmente nessuno di loro si aspettava che l’effetto ultimo di quel voto sarebbe stato l’arresto di Mussolini e lo smantellamento del regime. Alcuni di loro furono ingannati, come Canetti che fino all’ultimo dubbioso chiese rassicurazioni che l’approvazione dell’ordine del giorno non avrebbe determinato le dimissioni del Duce (pentitosi del suo sì scriverà il mattino del 25 Luglio una lettera di ritrattazione che gli avrebbe salvato la vita durante il processo di Verona), altri non erano in condizione di partecipare alla seduta come Marinelli che era quasi sordo e, come ammisero gli stessi giudici veronesi, non aveva capito quasi nulla di ciò che si disse, altri infine erano troppo “giovani” ed inesperti e si trovarono in mezzo a qualcosa di molto più grande di loro come Balella, Pareschi e Gottardo che erano alla loro prima partecipazione al Gran Consiglio ed erano fondamentalmente dei tecnici prestati alla politica.
Ultima questione da affrontare è quella forse più decisiva per tentare di decifrare ciò che fu il 25 Luglio e cioè l’atteggiamento tenuto da Mussolini durante tutta la seduta del Gran Consiglio. Come abbiamo visto la convocazione dell’massimo organo del fascismo era stata imposta al Duce che vi si era piegato senza opporre grosse resistenze. Sebbene fosse rimasto profondamente irritato dal comportamento dei gerarchi, si limitò ad esternare questa irritazione con lamentele sterili che finirono soltanto per accentuare lo sconforto di chi ancora sperava di vedere una sua reazione d’orgoglio; Cianetti racconta che il 21 Luglio, incontrando Galbiati, questi gli riferì che Mussolini si era risentito del fatto che “Sono venuti da me un gruppo di signori malvestiti per farmi un pronunciamento. Chi indossava la divisa fascista, chi quella ministeriale, chi l’abito civile. Alcuni avevano i pantaloni bianchi, altri bleu, altri ancora gli stivali…” al che Cianetti, che come detto rimase comunque fino all’ultimo uno dei più dubbiosi verso l’ordine del giorno Grandi, “si sentì cadere le braccia dallo sconforto” nell’apprendere che la maggior preoccupazione del Duce in quel momento era il modo in cui erano vestiti i gerarchi. Con la testa probabilmente all’incontro di Feltre con Hitler, Mussolini si occupò poco o nulla della preparazione del Gran Consiglio limitandosi ad alcuni incontri abbastanza sterili e lasciando di fatto tutto nelle mani di Scorza. Durante le dieci ore dell’assemblea Mussolini parlò quattro volte, ma due furono i momenti probabilmente più importanti e più carichi di conseguenze nell’orientare il voto dei presenti. In primis l’esposizione iniziale della situazione che per i più incerti sul da farsi era il momento tanto atteso, quello in cui il capo avrebbe tirato nuovamente fuori il piglio dei giorni migliori fugando i loro dubbi e rinnovando la fede invece…. invece quello che si ebbe fu un discorso scialbo, autoassolutorio, menzognero e vuoto di contenuto. L’uomo che era Capo del governo, Ministro degli Interni, Ministro della guerra, Ministro della Marina e Ministro dell’aviazione, colui che il 30 Marzo 1938 aveva proclamato in Senato “In Italia la guerra, come lo fu in Africa, sarà guidata, agli ordini del re, da uno solo: da chi vi parla…” negava adesso di aver voluto il Comando Supremo e di aver assunto la direzione delle operazioni militari (dimenticando l’ordine dato nel 1940 a Badoglio di iniziare un offensiva contro la Francia, a Graziani nello stesso anno di attaccare l’Egitto ed infine l’imposizione agli alti comandi della guerra alla Grecia). La colpa dell’attuale situazione militare era di tutti fuorché sua: era dei generali, era dei comandi tedeschi, era dei soldati “che non avevano animo di combattere e si sono sbandati”, era del popolo siciliano “che ha accolto gli invasori” e più in generali degli italiani “che non si sono battuti granché bene in questa guerra”. Lui però non aveva colpe in quanto “soltanto il Maresciallo Stalin o il Mikado sono obbediti se ordinano di morire sul posto”, la guerra era impopolare perché tutte le guerre sono impopolari e perché “ha ragioni e caratteri che non possono essere facilmente compresi dal popolo”. Persino Scorza, sulla cui fedeltà al Capo non potevano esserci dubbi, dopo aver sentito l’esposizione mussoliniana fu invaso “da un’ondata di amarezza… direi di sconforto” anche perché il Duce non aveva fatto il minimo accenno alla riforma del Partito e al rinnovamento del governo della cui necessità il Segretario del PNF pensava di averlo convinto. Durante tutta la seduta Mussolini non diede mai un’indicazione precisa sui possibili modi in cui si sarebbe potuta rovesciare la situazione militare, solo sul finale se ne uscì con un sibillino riferimento “a una grande notizia relativa ad un importantissimo fatto che capovolgerà la situazione della guerra a favore dell’Asse. Ma preferisco non dirvela per ora.”; questa affermazione ebbe l’unico effetto di scontentare ancor più l’uditorio in quanto venne pronunciata con tono “infastidito e dispettoso”. Ancora oggi non si sa se questo fatto in grado di capovolgere la guerra fosse una boutade o l’accenno a qualche autentica speranza, qualcuno ha pensato alle famose armi segrete di Hitler o ancora a trattative di pace tra Germania e URSS che da tempo Mussolini propagandava presso il Fuhrer. Dei vari interventi dei gerarchi i più importanti furono certamente quelli di Bottai e Grandi che spostarono il discorso dal problema militare a quello politico, “C’è oggi una frattura tra il nostro Partito e la Nazione. Oggi il popolo si trova in uno sciopero bianco.” disse Bottai, e esposero l’ordine del giorno stando bene attenti a ribadire in ogni modo che non era contro il Duce o il Partito (tesi ribadita con forza anche da Ciano). Poco prima delle 23:00 Mussolini propose di aggiornare l’assemblea, ma Grandi protestò vivamente e il Duce lasciò cadere la proposta. Questo per me rappresenta il momento della resa di Mussolini, la piena accondiscendenza a portare avanti una riunione che evidentemente stava già andando in suo sfavore, senza neanche un rimbrotto di qualche tipo al Presidente della camera per il tono perentorio con cui ne aveva preteso la continuazione, mostra un Duce completamente passivo di fronte agli eventi. C’è però a questo punto un mezzo mistero e cioè se Mussolini prima di aprire la votazione sull’ordine del giorno Grandi abbia o meno pronunciato la frase “Signori attenzione! L’ordine del giorno Grandi può mettere in gioco l’esistenza del regime.”. Se fosse vera si sarebbe trattato del più deciso intervento del Duce durante la nottata, in grado forse di scuotere la posizione dei più incerti. Come detto non esiste un verbale stenografico del Gran Consiglio, ma l’esistenza di questa frase viene per la prima volta affermata dallo stesso Mussolini allorché, in periodo di Salò, ricostruì in una serie di articoli sul “Corriere della Sera” gli eventi del 25 Luglio; conferma che la stessa venne pronunciata viene da Grandi mentre Scorza in un primo momento confermò mentre successivamente disse che la frase c’era stata ma molto meno perentoria in quanto non si sarebbe parlato della sopravvivenza del regime bensì “può avere imprevedibili conseguenze”. Molti altri dei presenti però negano questa frase, tra questi Cianetti, Alfieri, Bastianini, Bottai, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni e Galbiati mentre Polverelli afferma che Mussolini fece riferimento alla sua personale posizione di fronte all’atteggiamento che avrebbe tenuto il re se l’ordine del giorno fosse passato. Gli storici, tra i quali De Felice, per lungo tempo sono stati della convinzione che questa frase, insieme a “Voi avete provocato la crisi del regime! La seduta è tolta.” pronunciata subito dopo il voto, sia stata effettivamente pronunciata a conferma che Mussolini aveva pienamente inteso le implicazioni dell’ordine del giorno Grandi. Più recentemente però alcuni autori, ad esempio Emilio Gentile, hanno sposato la tesi negativa facendo osservare come la ricostruzione degli eventi da parte di Grandi sia ormai da tempo riconosciuta come deficitaria, se non fantasia in alcuni punti, e la ricostruzione dello stesso Mussolini non è affidabile in quanto il Duce in epoca RSI aveva interesse a dare una visione a lui favorevole degli eventi del Gran Consiglio; mentre vi è una nutrita schiera di testimoni che hanno negato che le due frasi incriminate siano mai state pronunciate.
L’ultimo atto del Gran Consiglio fu la messa ai voti degli ordini del giorno, richiesta dallo steso Mussolini che indicò quello di Grandi come il primo. Anche questa scelta è significativa, Mussolini (che fino all’ultimo si era astenuto dal presentare un suo ordine del giorno che fosse una sintesi degli altri tre per tentare di rovesciare il tavolo) non fece mettere ai voti prima l’ordine del giorno del Partito, quello che ufficialmente esprimeva la sua posizione, per sfidare i meno sicuri a votargli esplicitamente contro, ma diede campo libero all’ordine del giorno Grandi che ormai era chiaro avere la maggioranza.
Come interpretare dunque il comportamento mussoliniano? Qualcuno ha provato a spiegare la sua passività concentrandosi sulla debilitazione del suo fisico a causa dell’ulcera, ma si tratta di una spiegazione eccessivamente semplicistica a mio parere. Mussolini infatti aveva, sia prima che durante la seduta, tutti i mezzi legali, anche violenti, per domare la rivolta dei gerarchi, ma non ne mise in campo nessuno lasciando di fatto che le cose facessero il loro corso. Anche nella giornata del 25 Luglio, quando Galbiati gli chiese l’autorizzazione a far arrestare chi aveva votato l’ordine del giorno Grandi (cosa per altro illegale dato che i membri del Gran Consiglio erano immuni all’arresto), il Duce rispose “Si tratta di ministri e sottosegretari che non possono cambiare senza l’assenso del sovrano. Ci sono poi i Collari dell’Annunziata che non posso trattare alla stregua di qualsiasi cittadino.”. Il campo delle spiegazioni si riduce secondo me a due possibilità. La prima, già anticipata, Mussolini era convinto di avere ancora dalla sua il re e che quindi, nonostante il voto, la sua posizione fosse ancora forte; forse riteneva che bastasse dare qualche contentino ai gerarchi come cedere il comando supremo, nominare dei tecnici ai dicasteri militari e inserire alcuni dei “ribelli” nel governo (in effetti durante tutta la mattinata del 25 Luglio fece cercare Grandi per riferirgli che intendeva nominarlo ministro degli esteri) per superare il momento. Seconda possibilità Mussolini voleva essere messo in minoranza così da far sembrare che fosse stato costretto a cedere alcuni dei suoi poteri; spieghiamo meglio la situazione militare era drammatica il che metteva in una posizione scomoda chi, come lui, deteneva un potere quasi assoluto. Tanto più i lutti e le distruzioni fossero aumentati tanto più la rabbia del popolo si sarebbe diretta verso colui che per anni era stato dipinto dalla propaganda come l’uomo senza il cui assenso in Italia non si muoveva foglia; uscire dunque dal centro della scena per un po’ di tempo era forse vista da Mussolini come l’opzione più sicura per far decantare la situazione, nella consapevolezza che gli italiani sono spietati nella rabbia del momento, ma con la memoria corta sul lungo termine. Dare l’impressione che la suo non fosse una ritirata volontaria, ma l’esito di vile complotto giocava poi a favore del suo prestigio personale. Quasi certamente non credeva che il re l’avrebbe fatto arrestare, ma anche dopo di ciò tutto fu tranne che scalpitante dal desiderio di tornare in azione ed è ben noto che accolse con ben poco entusiasmo la vista degli alianti tedeschi giunti a liberarlo da Campo Imperatore. Questa seconda ipotesi mi appare come quella più probabile anche perché ho sempre avuto l’impressione che era da tempo che Mussolini, resosi conto della direzione in cui stava andando il conflitto, preparava la sua difesa per il momento in cui fosse stata necessaria; in tal senso ho sempre trovato interessante questa appunto di Ciano nel suo diario in data 6 Novembre 1942, il giorno dopo lo sfondamento inglese ad El Alamein, “Mussolini mi ha chiesto se tenevo in ordine il diario. Alla risposta affermativa, ha detto che ciò servirà a documentare come i tedeschi, in campo militare e politico hanno sempre agito a sua insaputa. Ma cosa nasconde veramente questa sua strana domanda?”.
Prima di concludere questo articolo vorrei affrontare un ultimo punto che mi è sovvenuto mentre scrivevo il tutto e cioè: perché c’è stato il 25 Luglio? Mi spiego meglio dei tre regimi totalitari che affrontarono il secondo conflitto mondiale solo quello fascista crollò per cedimento interno sebbene tutti e tre si trovarono ad affrontare fasi drammatiche del conflitto; in URSS la posizione di Stalin non venne mai messa in discussione, neanche nelle fasi iniziali più drammatiche dell’operazione Barbarossa, mentre in Germania solo i militari tentarono di rovesciare Hitler con il complotto del luglio 1944 invece il NSDAP rimase sempre compatto attorno al suo Fuhrer e solo nelle ultime ore del Reich Goering e Himmler fecero dei patetici tentativi di ritagliarsi un ruolo. Dunque perché il fascismo si suicidò? Secondo me posso essere individuati due elementi che posso aiutare a dare una spiegazione. In primo luogo la presenza in Italia di istituzioni esterne al regime, Vaticano e monarchia, che lo resero un totalitarismo imperfetto in quanto non in grado di sovrapporre integralmente il Partito allo Stato come avvenne invece in Unione Sovietica e in Germania; questa forze autonome al fascismo, se erano assolutamente impotenti di fronte ad un regime solido e sostenuto dal consenso delle masse, acquisivano invece ampi poteri di manovra nel momento in cui il regime fosse entrato in fibrillazione. In secondo luogo va tenuto conto del rapporto sussistente tra Mussolini e il fascismo. In Unione Sovietica Stalin aveva un controllo assoluto sul PCUS, falcidiato dei suoi oppositori tramite le purghe degli anni ’30, e il timore di poter essere vittime di una nuova ondata repressiva scoraggiava l’organizzazione di complotti finalizzati a rovesciarlo. Inoltre dal momento dell’attacco tedesco l’URSS si trovò ad affrontare una lotta all’ultimo sangue per la sopravvivenza e nessuno all’interno del Partito poteva dire di avere il prestigio e l’autorità per poter guidare il paese al posto di Stalin. In Germania invece l’identificazione tra NSDAP e Hitler si ebbe sin dalle origini del nazionalsocialismo e il culto del Fuhrer si diffuse nei quadri interni del Partito in modi che non ebbero eguali in Italia con il culto del Duce (forse solo Goering ne rimase realmente immune); inoltre non bisogna sottovalutare la mentalità tedesca rigidamente strutturata su un’obbedienza assoluta al proprio superiore, se già per i militari (che comunque in gran parte dal 1943 in poi furono contrari alla conduzione hitleriana della guerra) l’idea di complottare contro il governo era quasi inconcepibile (famosa la frase di Von Manstein “Un Feldmaresciallo prussiano non fa ammutinamenti”) per un membro del NSDAP si era al livello dell’eresia. In Italia invece il controllo mussoliniano sul PNF si stabilizzerà solo con l’arrivo di Augusto Turati alla Segreteria per poi divenire assoluto solo negli anni ’30 con la segreteria di Starace. Molti dei gerarchi che venivano dallo squadrismo (Farinacci, Balbo, Grandi, Arpinati, Scorza e Bottai) avevano accettato Mussolini quale Duce del fascismo, con vari e in vario modo autentici livelli di devozione, senza però accettare mai una piena e completa sottomissione al Capo. Persino uno Scorza, sulla cui fedeltà al Duce non c’erano dubbi, sarebbe stato considerato troppo critico in Germania o in URSS. Non è un caso che la rivolta interna al Partito non provenne dalle nuove leve, ma dalla vecchia guardia che aveva vissuto tutte le fasi dell’ascesa mussoliniana e ricordava quanto il Duce fosse stato debole quando lo squadrismo gli si era opposto in blocco. Molti di loro dopo la marcia su Roma avevano accettato un matrimonio d’interessi tra la fedeltà al Capo e un posto nel regime, dovendo però poi subire quando il potere mussoliniano sul paese si fece assoluto, ma di fronte alla crisi interna, alla disfatta militare e al venir meno dell’autorità di Mussolini il compromesso su cui si era retto l’equilibrio interno al PNF, messo in crisi già dalla metà degli anni ’30 dall’accentramento dei poteri da parte del Duce, saltò definitivamente.
Bibliografia:
- Emilio Gentile, 25 Luglio 1943
- Indro Montanelli e Mario Cervi, L’Italia della disfatta
- Pier Luigi Vercesi, la notte in cui Mussolini perse la testa
- Galeazzo Ciano, Diari
- Giuseppe Bottai, Diario
- Renzo De Felice, Mussolini l’alleato – Vol. II
Frank
15 Maggio 2021Penso che alla fine sia esattamente come avete scritto. E che tutto si è svolto così repentinamente da rimanere spiazzati nel momento delle decisioni da che parte stare. Nessuno si aspettava l’arresto di Mussolini e che ci si aspettava un modo più soft e meno drammatico e scioccante nel passaggio dei poteri. Si è giocato molto sulla ambiguita anche nel modo di staccarsi dai tedeschi e la tracotanza degli alleati non ha certo contribuito a evitare tutta la tragedia che ne è seguita.