Sign up with your email address to be the first to know about new products, VIP offers, blog features & more.

Il processo di Verona: il necessario battesimo della RSI

Questo articolo necessita di una premessa perché, al contrario dei precedenti in cui mi sono concentrato sul racconto degli eventi, sarà un mio personale ragionamento su ciò che è stato il processo di Verona e quindi ritengo giusto fornire a chi legge alcuni informazioni sul metodo da me seguito. Ho sempre ritenuto che uno dei più gravi errori della storiografia italiana sia stato ritenere che il fascismo, prima di De Felice, non dovesse essere studiato, ma condannato. Metto le mani avanti dicendo che personalmente  mi ritengo un antifascista, ma da amante della storia non posso che affermare che non ci si può omettere di analizzare un ventennio do storia, bello o brutto che sia, senza pregiudizi etici e morali con l’obiettivo di capirlo e non di emettere una sentenza di condanna o di assoluzione. Lo stesso ovviamente vale, e varrà quando li affronterò, per lo stalinismo, il nazismo, l’inquisizione spagnola e chi più ne ha più ne metta. Partendo da ciò capirete perché ho sempre disprezzato chi, facendo la storia della RSI, si adagiasse nell’immagine della repubblichina schiava dei tedeschi quando, secondo me, essa merita una lucidità critica anche maggiore del ventennio. Mi sono dilungato, ma ritenevo questa introduzione necessaria per rendere chiaro quale è, e sarà sempre, il mio metro di lavoro accettando sin da ora che non lo si possa condividere e dichiarandomi sempre pronto a confrontarmi con chi ne vuole discutere senza partito preso.

Sarebbe facile rappresentare il processo di Verona come un Crono che divora i suoi figli o peggio come la dimostrazione della spietatezza senza limiti del fascismo di Salò verso tutto e tutti, personalmente ritengo invece che quel processo fu un tragico passaggio necessario che gli elementi meno radicali della Repubblica Sociale, tra i quali Mussolini stesso, accettarono di avallare in nome della ragion di stato.

Va subito detto che da un punto strettamente giuridico il processo di Verona è un abominio in quanto si fonda sulla plateale violazione del fondamentale principio di diritto per cui “Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali”! La norma che istituiva il reato tradimento vero il fascismo per coloro che, la notta tra il 24 e il 25 Luglio, votarono a favore dell’ordine del giorno Grandi era infatti successiva al fatto e quindi contrasta platealmente con l’idea stessa dell’irretroattività della legge penale. Di questo erano consapevoli tutti, Mussolini incluso, e infatti il ministro della giustizia di Salò non si fece scrupoli ad andare dal Duce per dirgli che, in punta di diritto, quel processo non aveva senso e se si ragione di questo evento in una logica strettamente giuridica non si può che rimanerne scandalizzati, ma bisogna invece entrare nella logica che quello non fu un processo penale bensì un processo politico e come tale va studiato. Il carattere eminentemente politico del processo non fu nascosto da nessuno: Pavolini garantì ai tedeschi che i giudici erano stati scelti in funzione del loro cieco fanatismo fascista perché nulla si frapponesse a una sentenza di morte e il pubblico ministero Fortunato, quando la difesa tentò di ricordare che essendo alcuni degli imputati dei militari in tempo di guerra avrebbero dovuto essere deferiti alla corte marziale, disse “Da questo banco parte un monito per la difesa: che essa sia all’altezza dell’ora. Non è sollevando questioni pregiudiziali che si aiuta la causa della Patria e della Storia”. Lo stesso Mussolini, almeno stando al prefetto Dolfin, avrebbe risposto al suo ministro della giustizia, che gli era venuto a presentare alcune ipotesi su come evitare quella mostruosità giuridica, che “Voi vedete nel processo il solo lato giuridico. Io devo vederlo sotto il profilo politico. Le ragioni di stato sommergono ogni altra considerazione, ormai bisogna andare fino in fondo.”  Va detto che lo stesso ministro ha lasciato un resoconto diverso di questo colloquio con  un Mussolini che, seppur apparentemente rassegnato, gli avrebbe dato il permesso di provare. Ma quali erano queste irrinunciabili ragioni politiche? A lungo, e forse anche per scaricarsi la coscienza, l’indice è stato puntato contro i tedeschi visto il loro ruolo di reali padroni dell’Italia. Che Hitler volesse il sangue dei traditori è assodato, che il tedeschi non abbiano mai fatto mistero di quale giudizio sarebbe stato di loro gradimento è altrettanto certo, ma resta il fatto che i documenti dicono chiaramente che l’ordine arrivato da Ribbentrop era di evitare “ogni pressione a favore di una condanna.” La verità è che la ragione politica era eminentemente interna al partito e riguardava la sopravvivenza stessa della neonata Repubblica Sociale Italiana nell’assetto che si stava dando. Mussolini non voleva questo processo sia perché avrebbe preferito mettere una pietra sopra il Gran Consiglio per timore che prima o poi qualcuno venisse a chiedere conto anche della sua condotta in quella serata, sia perché, non essendo caratterialmente un sanguinario  al contrario del suo collega tedesca, non gradiva troppo l’idea di mandare a morte amici e parenti che “sono stati trascinati in un gioco che non hanno capito.” Su questa linea erano anche i fascisti moderati che avevano aderito alla RSI, come appunto il ministro della giustizia Pisenti o il senatore Rolando Ricci, ma purtroppo a comandare non erano loro bensì quello squadrismo duro e inflessibile che di Salò era l’anima e che voleva il processo per punire due tradimenti: quello contro il Duce del 24-25 Luglio e quello contro di sé dopo la marcia su Roma. Durante il ventennio infatti la parte più rivoluzionaria, avventuristica e violenta del fascismo era stata progressivamente emarginata a favore di una “borghesizzazione” del movimento e così mentre perdevano quota i capi dello squadrismo che chiedevano la seconda ondata come Farinacci e Arpinati salivano di grado coloro che volevano istituzionalizzare il fascismo come Grandi o Costanzo Ciano; paradossalmente le leggi fascistissime, volute per stroncare le opposizioni, servirono anche per mettere in riga le teste calde del PNF che poterono riemergere dall’ombra solo dopo il 24-25 Luglio quando, prima ancora della liberazione di Mussolini da parte dei tedeschi, costituirono il primo embrione del nuovo stato. Forte di questo primato lo squadrismo pretese la sua vendetta nei confronti di coloro che, dal suo punto di vista, avevano fatto deragliare la rivoluzione fasciata e che li aveva dileggiati per tutto il ventennio; il processo di Verona diventava così, insieme al congresso di poche settimane prima, l’imprescindibile passaggio attraverso il quale il fascismo poteva tornare alla sua purezza originaria rimuovendo le scorie che avevano fatto naufragare il regime e il simbolo stesso di tutto questo cattivo fascismo borghese, speculatore ed indolente era Galeazzo Ciano.

Il processo di Verona in effetti fu in verità il processo Ciano con gli altri imputati nel  ruolo di comparse (parole di Edda Ciano), sebbene alcuni di loro come De Bono fossero stati personalità di primo piano del ventennio. Era di Ciano che Rivelli aveva preteso la testa già da radio Monaco e lo stesso avevano fatto le varie sezioni del nuovo Partito Fascista Repubblicano con messaggi inviati al Congresso di Verona durante il quale si era esplicitamente gridato “morte a Ciano”. Ovviamente però per mantenere una parvenza di legalità e di equità non si poteva processare solo Ciano perché era Ciano, o meglio per ciò che rappresentava, per cui si dovevano processare insieme a lui tutti quelli che avevano votato per l’ordine del giorno Grandi anche se così finivano nel carnaio anche persone come Gottardi, che secondo i più era più il tempo in cui era ubriaco di quelli in cui era sobrio, o Marinelli che, per ammissione stessa di uno dei giudici del processo, era quasi completamente sordo e di ciò che era successo in Gran Consiglio aveva capito poco o niente. In effetti alcuni dei giudici, per nella loro fanatica fede nel fascismo, ebbero dei moti di coscienza e provarono a sollevare delle obiezioni per i casi più patetici come appunti Marinelli o De Bono, ma ogni volta la risposta era che ciò avrebbe significato rinviare il processo cosa assolutamente impossibile dato il clima che si respirava con l’aula costantemente presidiata dalla milizia e il Ras di Verona Cosmin che promette di fare giustizia da solo se “quelli”, cioè i giudici, non vi provvederanno. La differenza tra Ciano e gli altri imputati emerge poi platealmente dalla seconda votazione tenuta dai giudici per decidere se concedere o meno agli imputati le attenuanti generiche che avrebbero fatto la differenza tra il plotone di esecuzione e una condanna all’ergastolo che, causa andamento della guerra, nessuno si faceva illusioni potesse durare più di qualche mese. Nessuno dei giudici votò per concederle a Ciano mentre per Marinelli, De Bono, Pareschi e Gottardi la morte fu decisa con una maggioranza di cinque a quattro, e mi sono fatto l’idea che si decise così perché prevalse l’idea che non si poteva fucilare Ciano da solo senza dare l’idea che tutto fosse stato null’altro che una farsa per poter mandare al patibolo il genero del Duce; unico a salvarsi fu Cianetti che ebbe l’ergastolo con la medesima divisione di voti in forza della lettera a Mussolini con cui, subito dopo il Gran Consiglio, aveva rinnegato la sfiducia.

Il fatto che però, secondo me, mette più di tutte gli altri in evidenza come la vita dei cinque imputati fu sacrificata sull’altare della ragion di stato è la vicenda delle domande di grazia. Come si sa queste domande di grazia non giunsero mai sul tavolo di Mussolini restando nelle mani di Pavolini che passa la nottata girando tra gli uffici del governo di Salò alla ricerca di qualcuno che si prendesse la responsabilità di rifiutarle ricevendo però sempre la stessa risposta: solo il Duce può farlo. Alla fine fu precettato il console Vianini, in ragione di un arzigogolato ragionamento giuridico, che obtorto collo le rigettò, ma bisogna interrogarsi sul perché Pavolini si intestardì sulla linea che Mussolini andava lasciato fuori. Il motivo è presto detto: è probabile che se messo davanti a quei fogli il Duce alla fine avrebbe concesso la grazia perché, nonostante la dichiarazioni sull’importanza storica e politica del processo, non aveva fatto mistero che “Ciano non è tutta l’Italia né il maggior colpevole. I grandi colpevoli sono assenti. Tutto questo clamore è comodo per far dimenticare la guerra.” Ma perché Pavolini temeva tanto la possibilità di una grazia all’ultima ora da parte del Duce? La storiografia del primo dopoguerra, nel suo antifascismo militante, volle vedere in questo comportamento la prova della rabbiosa sete di sangue dei “repubblichini”, Pavolini voleva vedere i traditori morti e quindi si mise in tasca le domande di grazia così da garantire il risultato. Questa tesi non fa giustizia al personaggio Pavolini sicuramente fascista integralista, ma anche persona sufficientemente intelligente da capire la profonda ingiustizia della fucilazione di un Marinelli o un Gottardi. Giorgio Bocca ha ritenuto che in ultimo a sottrarsi fu lo stesso Mussolini il ché, probabilmente, è in parte giusto perché è difficile credere che il Duce fosse all’oscuro dell’esistenza di quei documenti e che abbia deciso di fare il Pilato della situazione, ma credo che sia solo una metà del quadro che può essere completata solo da una ricostruzione che ho trovato in una biografia dello stesso Pavolini a cui collaborò anche Sabatucci: Pavolini decise di tenere fuori Mussolini per proteggerlo. Il segretario del partito temeva infatti che, qualora il Duce avesse accolto le domande di grazia, questo avrebbe fatto esplodere la rivolta dello squadrismo che avrebbe provveduto da sé a fare piazza pulita non solo degli imputati, ma anche di tutti coloro che erano considerati troppo morbidi. Era insomma in gioco la stabilità stessa della nuova Repubblica Sociale Italiana in cui si doveva trovare un compromesso tra l’anima nerissima del fascismo più intransigente e la necessità di dare un minimo di ordine e autorità a un governo che già era costantemente umiliato dall’alleato tedesco; dopotutto il Mussolini di Salò non fu che una pallida copia di quello del ventennio prigioniero sia dei tedeschi che di quei fascisti che volevano la lotta ad oltranza per concludere il tutto in un epica Gotterdammerung finale. Credo che questi fossero i pensieri che mossero le azioni di Pavolini in quella nottata nella quale decise nella speranza che le condanne a morte avrebbero messo una pietra sopra alle divisioni interne in favore di una nuova, almeno apparente, unità attorno alla figura del Duce del fascismo. E, in effetti, ottenuto il sangue di Ciano i propositi di epurazione interna dei fanatici si quietarono e gli altri processi, eccezion fatta per a quello agli ammiragli appartenenti all’infida marina che ha ceduto senza combattere Pantelleria, si concluderanno tutti in un nulla di fatto con assoluzioni di comodo o non luoghi a procedere perché tanto l’obiettivo politico ormai si era raggiunto e la nessuno aveva interesse ad andare a rivangare oltre nel sommerso del ventennio da dove avrebbero potuto sbucare fuori scheletri pericolosi anche per gli epuratori stessi.

Ancora nessun commento. Commenta per primo...

Cosa ne pensi? Commenta!

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *