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Kronstadt 1921 – Si può tradire una rivoluzione?

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La domanda contenuta nella seconda parte del titolo di questo articolo non è meramente retorica, ma un preciso spunto di discussione a cui voglio arrivare. Originariamente questo articolo sarebbe dovuto essere solo la narrazione dei fatti della rivolta di Kronstadt, ma poco dopo aver pensato a questo argomento mi sono trovato a recuperare alcune mie riflessioni in merito al concetto di rivoluzione e di tradimento della rivoluzione. Così in fine ho deciso di rendere i fatti di Kronstadt uno strumento per giungere a trattare del più ampio tema storico del se la maggior parte delle rivoluzioni, in conclusione, siano state in qualche modo tradite, nei loro ideali, ad opera dei loro stessi leader. Infatti il concetto di tradimento della rivoluzione, inteso come abbandono degli obiettivi e delle speranze che vi erano stati all’origine, è stato, secondo me, spesso abusato. Se ci pensiamo bene non esiste una rivoluzione che, la vulgata o almeno una parte della storiografia, non abbia considerato essere stata in qualche modo tradita: da quella inglese a quella francese, da quella russa a quella iraniana. La decisione di partire dagli eventi di Kronstadt del 1921 deriva dal fatto che questi sono considerati da molti come il tradimento per eccellenza, la fine delle illusioni sorte a seguito della rivoluzione russa, e così sono stati visti non solo dalla maggior parte dei testi di storia delle scuole, ma anche da molti osservatori occidentali che erano a Pietrogrado in quei giorni. Una valutazione questa che non tiene conto, secondo me, né del contesto in cui si verificò l’insurrezione né della natura stessa di un processo rivoluzionario in generale. Detto ciò l’articolo si dividerà in due parti: nella prima ci sarà la narrazione della rivolta del 1921 seguita poi dalla mia riflessione storiografia sul tema rivoluzioni e tradimento delle stesse. Entrambe le parti possono essere lette in maniera indipendente, ma consiglio comunque di leggerle insieme per poter meglio cogliere il senso di alcune affermazioni che farò.

Kronstadt è il nome di una base fortificata che, all’inizio del XVIII secolo, Pietro il Grande volle costruire sull’isola di Kotlin per bloccare eventuali accesso ostili dal mare alla sua nuova capitale. Col tempo l’isola divenne la principale base navale russa nel Baltico ed era composta da tre fortezze principali di pietra armate, ognuna, di tre file di cannoni rivolti sia verso il mare che verso la città, a cui si dovevano aggiungere altre sette fortezze secondarie con tredici batterie di cannoni Krupp piazzati in casematte di cemento e pietra. Ritenuta dalla stampa zarista inespugnabile, questa fortezza avrebbe svolto un ruolo centrale nel crollo del regime a cui era posta a difesa. I marinai e il personale della base viveva infatti in una sorta di micro mondo separata dal resto della città e, agli inizi del ‘900, il loro continuo scontrarsi con i soprusi e i privilegi della Russia zarista, l’esempio più paradossale era il divieto di accedere ai parchi pubblici per non infastidire i bravi cittadini della capitale, li aveva resi facili oggetto della propaganda marxista. Nell’Ottobre 1905, quando il primo vento rivoluzionario si abbatté su Pietroburgo, la guarnigione di Kronstadt tentò di impadronirsi della base dando inizio a uno scontro sulle barricate contro le truppe governative; nove mesi dopo vi fu una seconda insurrezione che si concluse con 36 fucilazioni, 228 esili in Siberia e oltre 1000 incarcerazioni. Questi numeri fanno ben capire l’estensione del sostegno rivoluzionari che vi era tra coloro che era di stanza a Kronstadt e infatti la repressione, invece di stroncare questi sentimenti, riuscì solo a farli nascondere in attesa del momento giusto. Momento che giunse nel Febbraio 1917 quando i marinai, fucilati i loro ufficiali, proclamarono il loro soviet come rappresentante principale della città di Pietroburgo. Da quel momento Kronstadt fu nell’avanguardia di tutti i fatti principali della rivoluzione russa: partecipò attivamente alla caduta del primo governo provvisorio in Aprile, pretese l’arresto del generale Kornilov all’esito del suo fallito tentativo di golpe e nell’Ottobre rosso furono i suoi marinai a guidare l’assalto al palazzo d’inverno. Quegli stessi marinai divennero poi la guardia armata del bolscevismo, usata da Lenin per sopprime l’assemblea costituente, nonché la prima linea dell’armata rossa durante la guerra civile. La natura autonoma del soviet di Kronstadt e il socialismo comunitario dei suoi uomini li portò però ad iniziare a dubitare della direzione presa dalla rivoluzione una volta che i bolscevichi ebbero iniziato a consolidare il loro potere. Contraria alla pace di Brest-Litovsk, perché favorevole invece alla teoria della “guerra rivoluzionaria”, Kronstadt non esitò ad esprimere la sua condanna di fronte alle prime azioni della Ceka contro anarchici e socialisti di sinistra, chiamando poi “ladri” i funzionari di partiti inviati a requisire il grano durante i giorni del comunismo di guerra. Più si avvicinava la fine della guerra civile e più le posizione del governo bolscevico e quelle del soviet di Kronstadt si andavano distanziando; i marinai in particolare erano contrari al processo che Lenin aveva iniziato  di allontanamento dall’originaria democrazia proletaria dei soviet in favore della centralizzazione del potere nelle mani del partito come pretoriano della rivoluzione. Nel 1921 a contribuire poi alla progressiva insofferenza della guarnigione erano un insieme di situazioni figlie della realtà russa degli anni della guerra civile; molte nuove reclute della guarnigione erano di estrazione contadina e quindi erano particolarmente sensibili dalle notizie che giungevano da casa in merito alla carestia e alla  requisizioni del grano. Per la prima volta ci furono dei casi di diserzione e gli oratori inviati per fare propaganda nella base avvertivano che il clima nei loro riguardi era iniziato a divenire freddo, quando non esplicitamente ostile. La stessa Pietogrado, che aveva perso il ruolo di capitale a favore della meglio difendibile Mosca, viveva un periodo non facile con la penuria di molti generi fondamentali come i combustibili e le razioni alimentari. In particolare però il rapido aumento dei prezzi, opposto al contemporaneo crollo dei salari, provocò molta insofferenza presso gli operai delle fabbriche che, infine, scesero in sciopero nel Febbraio 1921 alla notizia della chiusura di molti stabilimenti impossibilitati a portare avanti la produzione per la penuria di carburante. Il soviet di Pietogrado ricorse alla forza per riprendere il controllo delle piazze, provocando l’indignazione di molti esuli di sinistra occidentali come Emma Goldman, e usò le squadre dei comitati di fabbrica per riportare al lavoro i renitenti che non si accontentavano delle promesse del governo di un miglioramento della situazione alimentare. La notizia di ciò che stava avvenendo in città, unita con il perdurare dello scontro tra Trockij, campione della centralizzazione del partito voluta da Lenin e al comando della flotta come commissario alla guerra, e Zinov’ev, sostenitore invece della democrazia interna e capo del partito a Pietrogrado, contribuirono ad esacerbare ulteriormente gli umori della base che stava iniziando a sua volta a soffrire la penuria dei beni primari. Kronstadt si dichiarò per Zinov’ev, sebbene la democrazia sostenuta da questi fosse diversa da quella ambita dai marinai, ma, cosa più importante, lo scontro interno al partito tra l’uomo a capo della flotta e l’uomo alla guida del partito a Pietrogrado, comportò una riduzione del controllo sulla base proprio nel momento in cui il rischio di una rivolta si faceva concreto.

In quegli ultimi giorni di Febbraio del 1921 i ghiacci ancora tenevano la base “collegata” alla terra ferma e bloccavano le due grandi corazzate Petropavlovsk e Sevastopol. Gli equipaggi di queste due unità avevano inviato una loro rappresentanza a Pietrogrado per sapere cosa stesse succedendo esattamente in città. Riuniti in assemblea sulla Petropavlovsk i marinai vennero messi al corrente della situazione e decisero di inviare una precisa serie di richieste politiche al governo bolscevico: libertà d’assemblea, parola e stampa, scarcerazione dei prigionieri politici e degli arrestati a seguito delle proteste contadine e operaie, nuove elezioni di tutti i soviet del paese nonché un immediato aumento delle razioni alimentari per tutti. Si trattava di richieste che, oltre ad andare in contrasto con il comunismo di guerra, recuperavano molti argomenti del socialismo rivoluzionario russo del 1917. Tutte cose dunque difficilmente catalogabili come “controrivoluzionarie”, ma se anche Lenin ormai era deciso ad abbandonare il comunismo di guerra, per il resto si trattava di una sfida all’idea del potere centrale del partito come guardino della rivoluzione. I bolscevichi volevano comunque evitare uno scontro con Kronstadt sia per la sua importanza materiale che per quella simbolica, così decisero di inviare alla base Michail Kalinin perché tenesse un comizio che risollevasse gli animi. Kalinin era un ex-contadino e metalmeccanico che, durante i giorni della guerra civile, era divenuto presidente del comitato esecutivo panrusso; soprattutto però parlava un linguaggio semplice in grado di essere compreso dalle masse il che, unito a un’eccellente oratoria, era stata molto utile per calmare le campagne durante i giorni delle requisizioni o per spronare i proletari di Piterogrado a tenere duro nonostante le privazioni. Ora si sperava che la magia si sarebbe ripetuta a Kronstadt e in effetti in un primo momento l’accoglienza nella Piazza dell’Ancora fu calorosa, ma non appena i marinai della Petropavlovsk ripeterono ciò che avevano constatato in città il clima cambiò. Kalinin tentò di parlare, ma venne subito sommerso da una salva di contestazioni e quando il commissario della flotta Baltica tentò di calmare gli animi ricordando i comuni sacrifici durante la guerra civile gli vennero rinfacciate le decimazioni di soldati dell’Armata Rossa al fronte. Con molto poco senso dell’opportunità il commissario rivendicò quelle morti definendo i fucilati “traditori della causa”. Reazione diametralmente opposta la ebbe la pubblica lettura di una risoluzione adottata dai marinai durante il comizio sulla Petropavlovsk che venne approvata con sedicimila vota a favore e solo tre contrari (Kalinin, il commissario della flotta e il presidente del soviet di Kronstadt). Già il 1 Marzo tra Kronstadt e le truppe di stanza a Pietrogrado si andò a un passo dallo scontro perché era girata voce che a Kalinin fosse stato impedito di rientrare in città, ma Emma Goldman riferì invece che questi venne congedato ancora una volta con tutti gli onori. Il primo gesto di rottura venne comunque dal governo bolscevico di Pietrogrado che fece arrestare una nuova delegazione giunta in città dalla base; la vera frattura però si ebbe quando i rappresentati marinai si riunirono in assemblea per eleggere un nuovo soviet della base. La decisione che venne presa era che per garantire un’elezione libera e segreta andassero subito messi agli arresti il commissario della flotta baltica e l’attuale presidente del soviet. Presa la strada della contrapposizione frontale Kronstadt trovò la sua guida in Stepan Petricenko, un marinaio ucraino, nella flotta dal 1912, che incarnava tutti quegli ideali di democrazia collettiva e egualitaria che la base esprimeva. Il 2 Marzo la notizia che quindici camion di truppe del partito si stavano dirigendo verso Kronstadt per schiacciare l’assemblea spinse Petricenko a chiedere la creazione di un Comitato rivoluzionario provvisorio che proclamò il fallimento del governo del partito bolscevico nel garantire alla popolazione russa i beni fondamentali per vivere chiedendo il ritorno del potere ai soviet in quanto veri rappresentati dei lavoratori. Mentre i bolscevichi rimasti a Kronstadt iniziavano a fuggire alla chetichella versa Pietrogrado, i marinai rendevano la Petropavlovsk il loro quartier generale invitando l’intera base a collaborare con loro per garantire le condizioni per eleggere un nuovo soviet. Per il governo bolscevico la vicenda si presentava come una difficile gatta da pelare; infatti se non vi era dubbio che le rivendicazioni di Kronstadt, lette alla luce del nuovo corso dato dal partito alla rivoluzione, fosse da considerarsi “controrivoluzionarie”, non si poteva negare che questi marinai fossero ancora dei rivoluzionari socialisti oltre ad essere stati la prima linea dell’insurrezione d’ottobre. Kronstadt di fatto esprimeva il desiderio, comune a molte rivoluzioni della storia, di un ondata finale che spazzasse via, in questo caso, la “commissariocrazia” bolscevica  in favore di un governo dei soviet. “Tutto il potere ai Soviet, non ai partiti politici! Abbasso la controrivoluzione di destra e di sinistra! Il potere dei soviet libera i contadini dal giogo comunista! Vittoria o morte!” questo era il proclama di Kronstadt lanciato come un guanto di sfida ai bolscevichi. Il governo rispose definendo i marinai “strumenti di ex generali zaristi che, in comunella coi traditori, socialisti rivoluzionari, hanno messo in piedi una cospirazione controrivoluzionaria contro la repubblica proletaria.”. Era dunque la rottura bilaterale che faceva da preambolo allo scontro armato come unica soluzione della vicenda. Invano personalità come Berkman, Emma Goldman e Victor Serge, esuli a Pietrogrado e sconvolti da ciò che stava succedendo, tentarono di farsi mediatori; il 5 Marzo Trockij giunse in città inviando un secco ultimatum ai suoi ex-compagni di lotta: resa incondizionata o annientamento. Anche Zinov’ev, per non farsi scavalcare in fermezza dal suo avversario interno, fece inviare dal comitato di difesa di Pietrogrado una richiesta di resa degli insorti entro ventiquattr’ore minacciando, in caso contrario, l’arresto delle loro famiglie. Ovviamente tutti questi gesti di sfida non fecero altro che aumentare ulteriormente la determinazione dei marinai di Kronstadt che riposero per le rime e si prepararono alla difesa ad oltranza. I numeri erano nettamente contro di loro, quindicimila uomini contro l’intera Armata Rossa, ma i marinai confidavano nella potenza delle fortificazione della base. Certo c’era penuria sia di munizioni che di cibo, ma se si fosse riusciti a respingere gli attacchi sino al disgelo i bolscevichi si sarebbero trovati nell’impossibilità di assediare un’isola mentre i ribelli, sfruttando le navi della flotta baltica, avrebbero potuto rifornirsi dal mare. L’uomo incaricato dal governo di riconquistare Kronstadt era, ovviamente, Michail Tuchacevskij, l’eroe della guerra civile e del conflitto con la Polonia, che però si trovava davanti a un compito non facile. I soldati dell’armata rossa avrebbero infatti dovuto percorrere tra gli 8 e i 25 Km allo scoperto, sul ghiaccio, sotto il fuoco delle mitragliatrici e bombardati da un’artiglieria che ne avrebbe fatti sprofondare molti nelle gelide acque del golfo di Finlandia. Non essendo però possibile alcuna particolare sottigliezza tattica la strategia adottata fu estremamente semplice: in prima linea ci sarebbero stati i battaglioni di kursanty, i cadetti ufficiali fanaticamente comunisti, seguiti dalle migliori truppe regolari e, infine, dalle mitragliatrici della CEKA con il duplice incarico di fornire fuoco di copertura e sparare su chiunque si fosse rifiutato di avanzare.

Alle 18.45 del 7 Marzo l’artiglieria di Tuchacevskij aprì il fuoco contro Kronstadt ben presto seguita dal tiro di controbatteria dei cannoni della base e delle corazzate. Berkman ed Emma Goldman ci hanno lasciato la loro testimonianza del senso di smarrimento e depressione che il suono di quei colpi creò non solo in loro, ma anche in tutta la popolazione di Pietrogrado. Nella notte di quel primo giorno si levò una violentissima tempesta di neve che portò la visibilità dei difensori di Kronstadt a zero; Tuchacevskij decise di provare ad approfittare di tali condizioni meteo per lanciare subito l’attacco. I reparti partiti da Sostroeck riuscirono, occultandosi nella tormenta con le loro mimetiche bianche, a raggiungere la base, ma vennero respinti dal contrattacco dei difensori mentre fu un completo disastro l’attacco lanciato da sud. Qui il fuoco dei cannoni e delle mitragliatrici falciò i reparti di kursanty e, nonostante il coraggio degli ufficiali che riuscirono anche a far conquistare alcune postazioni di mitragliatrici, verso mezzogiorno l’attacco venne richiamato. La conta delle perdite diede 500 morti e 2000 feriti. I difensori di Kronstadt poterono così celebrare l’8 Marzo, non solo giornata della donna, ma anche anniversario della rivoluzione di Febbraio, con una vittoria sulla commissariocrazia. Un clima di entusiasmo simile a quello del 1917 iniziò a pervadere la base e il giornale ufficiale del comitato rivoluzionario, Izvestija (notizia), lanciava la parola d’ordine “Vittoria o morte!” e “Il potere dei soviet libera i contadini lavoratori dal giogo dei comunisti”. Nel fronte avverso si apriva negli stessi giorni a Mosca il X Congresso del partito bolscevico in un clima di costante generale imbarazzo per ciò che stava avvenendo a Pietrogrado. In un  primo momento Lenin aveva tentato di ridurre la vicenda a una cosa di poco conto, ma, dopo il fallimento del primo attacco, 320 delegati si offrirono volontari per andare a combattere i “controrivoluzionari” e così Lenin cambiò registro affermando che “Questo è Termidoro, ma non ci rassegneremo a farci ghigliottinare.”. Tuchacevskij intanto ere alle prese con problemi di non facile soluzione; il disgelo si avvicinava e con esso l’impossibilità di poter attaccare l’isola, ma era anche sempre più difficile convincere gli uomini a lanciarsi all’attacco allo scoperto, contro il fuoco delle mitragliatrici, per uccidere quelli che molti sentivano ancora come dei compagni. Il generale dell’armata rossa iniziò quindi a chiedere sempre più non solo munizioni e viveri, ma soprattutto kursanty e giovani membri del partito che dessero l’esempio al resto delle truppe. Queste truppe giungevano cantando “l’internazionale” convinte, com’era stato detto durante il Congresso, che “era con loro una sorta di grande forza “sacra”.”. Stando a uno studio statistico, citato da W. Bruce Lincoln in “I bianchi e i rossi”, a Kronstadt vi fu la più alta percentuale di iscritti al partito rispetto a tutta la guerra civile: dal 15% al 30% in alcune unità, fino al 70% in altre. Intanto il 15 marzo, a Mosca, Lenin calava l’asso e cioè l’annuncio delle prime misure che avrebbero portato alla fine del comunismo di guerra; in particolare venne data ampia diffusione alla notizia della fine delle requisizione forzosa dei cereali sostituita con una tassa in natura e la possibilità per i contadini di vendere la restante parte del loro prodotto  sul mercato. Si diffuse l’idea, o la speranza, generale che alla fine di tante sofferenze finalmente le promesse della rivoluzione stavano per essere realizzate. Ovviamente fu facile per gli oratori bolscevichi additare i ribelli di Kronstadt come dei pericolosi “controrivoluzionari” che volevano cancellare il lavoro di tre anni proprio nel momento in cui si era a un passo dal traguardo. I primi passi verso quella che sarebbe stata chiamata la Nuova Politica Economica servirono non solo a rinsaldare il morale delle truppe al fronte di Kronstadt, ma soprattutto ad agire da estintore sulle campagne, da dove venivano buona parte dei marinai ribelli, evitando che l’insurrezione potesse estendersi. I difensori di Kronstadt avevano sognato che il loro fosse solo il segnale d’inizio per una terza rivoluzione russa che si sarebbe diffusa a macchia d’olio in tutto in paese, ma le speranza create dalle parole di Lenin, unite con lo sfinimento generale per oltre tre anni di guerra civile e di terrore bianco/rosso, fecero in modo che le campagne rimanessero apatiche di fronte agli eventi di Pietrogrado. Sul “fronte” intanto, siamo ormai a metà Marzo, Tuchacevskij aveva ammassato 45.000 uomini, appoggiati da cannoni ed aerei, per l’assalto finale. L’ordine d’attacco venne diffuso nelle ultime ore della notte del 15 Marzo ed iniziava con la laconica frase “La notte tra il 16-17 Marzo, la fortezza di Kronstadt dovrà essere presa con un assalto frontale.”. Alle 14.20 del 16 Marzo l’artiglieria dell’Armata Rossa iniziò il cannoneggiamento provocando danni soprattutto alla Petropavlovsk e alla Sevastopol. Notti insonni in attesa di un attacco avevano iniziato a minare il morale dei difensori e così, quando l’assalto finalmente giunse, la resistenza fu meno efficace delle volte precedenti. Tuchacevskij aveva deciso per un attacco concentrico da tre lati: da nord, obiettivo i forti tra l’isola e la terraferma, e da sud lungo due direttrici. La mattina del 17 Marzo le truppe dell’Armata Rossa iniziarono ad avanzare su un ghiaccio che, in alcuni punti, iniziava ad assottigliarsi causa il disgelo. In prima linea c’erano ancora una volta i kursanty e, in un primo momento, la nebbia riuscì a coprire i movimenti finché non iniziarono a serrare sotto i forti. A questo punto i riflettori e i bengala segnalarono chiaramente ai nidi di mitragliatrici dove sparare, ma, contrariamente a ciò che era successo in precedenza, stavolta il violento fuoco non provocò lo sbandamento degli attaccanti. Nonostante le perdite pesantissime, un battaglione rimase con soli 18 uomini, i soldati dell’armata rossa a forza di bombe a mano iniziarono ad aprirsi i primi varchi nelle difese dei ribelli e, verso mezzogiorno, l’avanzata ormai era divenuta costante su tutto il fronte. I primi a varcare le mura della fortezza furono gli uomini del Gruppo meridionale, cui Tuchacevskij inviò subito l’artiglieria per mettere a tacere la resistenza dei franchi tiratori lungo le strade, e nel tardo pomeriggio anche il Gruppo Settentrionale riuscì a passare; le due forze iniziarono così a convergere verso il centro dell’abitato per riunirsi. Verso mezzanotte la Petropavlovsk e la Sevastopol vennero prese dai kursanty, mentre le ultime sacche di resistenza vennero soffocate il 18 Marzo 1921 che molti notarono essere il cinquantenario della Comune di Parigi di cui tanto i Bolscevichi che i ribelli di Kronstadt si dichiaravano discendenti. Quello stesso pomeriggio Tuchacevskij annunciò il cessate il fuoco dei cannoni. La rivolta di Kronstadt era finita.

“Quelle note che un tempo erano risuonare liete alle mie orecchie, ora parevano un rintocco funebre che segnavano la fine dell’infiammata speranza dell’umanità.” queste parole vennero pronunciare da Emma Goldman nel sentire alcune delle truppe vittoriose cantare l’Internazionale per le strade di Pietrogrado. 8000 difensori di Kronstadt, tra cui Petricenko e la gran parte del comitato rivoluzionario, riuscirono a sgusciare via dalla fortezza raggiungendo la Finlandia; in seguito la falsa promessa di un’amnistia ne avrebbe riportati molti in Russia solo per finire nell’arcipelago Gulag dove già erano andati molti dei loro compagni arrestati quanto la fortezza era caduta. Per distruggere lo spirito di Kronstadt, lo stesso che aveva contribuito ad innescare la rivoluzione del 1917, i bolscevichi dispersero 15.000 marinai della flotta baltica tra tutte le flotte russe. Con la soppressione della rivolta e il contemporaneo concludersi del X Congresso del Partito Comunista Russo segarono il definitivo passaggio verso la formazione della nuova Repubblica sotto l’egemonia assoluta dell’apparato bolscevico.

Sull’ultimo numero della “Izvestija”, stampato nelle ore finale della rivolta, comparve quello che alcuni storici definirono l’epitaffio sulla rivoluzione russa “Per tre anni, i lavoratori della Russia sovietica hanno urlato nelle camere di tortura della CEKA. I contadini sono stati trasformati nelle più umili versioni dei braccianti e l’operaio è divenuto un semplice schiavo del salario nella fabbrica di stato. L’intellighenzia della classe lavoratrice è stata nullificata… E’ divenuto impossibile respirare.. Tutta la Russia sovietica è stata trasformata in una colonia penale panrussa.”. Ma questo fu l’epitaffio della rivoluzione russa o di una rivoluzione russa? Fu la rivoluzione russa ad essere tradita dai bolscevichi oppure fu la rivoluzione di Kronstadt ad essere sconfitta dalla rivoluzione bolscevica dopo che le due avevano condiviso una parte di strada? E’ soprattutto la storiografica di cultura anglosassone ad usare il concetto di tradimento della rivoluzione per indicare non solo gli eventi di Kronstadt, ma più in generale l’esito della stragrande maggioranza delle rivoluzioni della storia: la dittatura di Cromwell fu il tradimento della rivoluzione inglese, il 18 brumaio di Napoleone fu il tradimento di quella francese, Kronstadt il tradimento della rivoluzione russa e via dicendo. Probabilmente non amanti degli sconvolgimenti violenti del sistema, gli anglosassoni tendono a giudicare con particolare severità le fasi conclusive dei processi rivoluzionari in quanto non in grado di dare piena applicazione alle “promesse iniziali”. Sarà per questo motivo che continuano a indicare come rivoluzioni la guerra d’indipendenza americana e la gloriosa rivoluzione britannica, che fu nei fatti un colpo di stato dall’alto, in quanto “sollevazioni” non traumatiche e in grado di raggiungere gli obiettivi prefissati. Questa lettura però, secondo me, tradisce una non completa comprensione del fenomeno rivoluzionario e della sua evoluzione. Ritengo infatti che ogni rivoluzione possa essere ridotta a tre fasi fondamentali: una fase iniziale “distruttiva”, in cui tutte le opposizione al regime vigente si uniscono con l’unico scopo di demolire l’ordine costituito, una seconda fase “di sperimentazione”, in cui si dà libero sfogo agli ideali e ai sogni per la nuova società che dovrà sorgere dalle macerie di quella vecchia, e una fase finale “costruttiva” in cui si deve passare dai sogni alla realtà procedendo a creare un sistema in grado di reggere non per il breve spazio di mattino. E’ di solito nel passaggio tra la seconda e la terza fase che si pone il presunto “tradimento” della rivoluzione, ma allora è un tradimento o il semplice fare i conti con una realtà che richiede anche il compromesso? Rendiamocene conto l’unico moto rivoluzionario permanente che questo mondo può permettersi è quello intorno al sole (la battuta non è mia, ma è estremamente efficace in questo caso). Nessuna rivoluzione può essere “sperimentativa” in eterno pena il rischio di autodistruggersi. La fase “di sperimentazione” è infatti sicuramente quella più romantica, ma è allo stesso tempo il caos legalizzato;  ciò, nel breve periodo, risulta accettabile per favorire il superamento del passato regime, ma sul lungo periodo può portare a un’incertezza in grado di far disinnamorare la popolazione per la rivoluzione favorendo così il Termidoro. In tutte le rivoluzioni arriva un momento in cui è necessario tirare le somme e verificare ciò che è fattibile e ciò che non lo è; in quel momento alcuni ideali o sogni dovranno essere necessariamente sacrificati per garantire la sopravvivenza del nuovo ordine. Va inoltre tenuto conto che tutte le rivoluzioni hanno in se varie anime che tendono ad unirsi quando bisogna distruggere, ma di dividono nel momento della costruzione in ragione delle loro diverse agende. La fase costruttiva di solito segna il momento di vittoria di una corrente rivoluzionaria sulle altre, ma ciò non implica che questa abbia tradito la rivoluzione bensì che sia riuscita a far trionfare il suo modello di rivoluzione. La rivoluzione sognata dei moderati sarà infatti diversa da quella sognata dai progressisti e dai radicali e di solito sono sempre questi ultimi a uscire sconfitti, spesso con la forza, dalla lotta finale. Livellatori e zappatori nella rivoluzione inglese, hébertisti e arrabbiati in quella francese, anarchici e sovietisti in quella russa, sansepolcristi in quella fascista e via dicendo furono le ali estreme dei movimenti rivoluzionari tese a un sovvertimento completo della società. Tutte queste correnti finirono per scontrarsi violentemente con le frange moderate o progressiste che invece giungevano a ritenere realizzabile solo una riforma della società. Di solito quello scontro viene identificato come il momento del tradimento della rivoluzione. Senza però questo presunto tradimento si avallerebbe un regime d’incertezza sine die che, inevitabilmente, finirebbe per stancare la popolazione la quale, dopo l’ebrezza del nuovo, chiederà sempre una stabilità definitiva. Nel 1921 Lenin aveva davanti a se due precedenti storici ben chiari: il Termidoro francese del 1794, quando i giacobini persero il potere perché non in grado di comprendere che le ragioni che avevano reso accettabile il terrore erano superate, e il governo provvisorio russo di Kerenskij del 1917 che, non essendo ne carne ne pesce, venne facilmente scalzato proprio dai bolscevichi. I bolscevichi erano portatori di un modello rivoluzionario fondato sull’idea che la prima fase della dittatura del proletariato dovesse vedere in prima linea il partito come avanguardia della rivoluzione e non fecero altro che perseguire questo obiettivo da loro inteso come l’unico che potesse garantire la sopravvivenza della rivoluzione. Nel 1921 Lenin era già entrato nella fase costruttiva e lo dimostra la scelta di abbandonare il sogno del comunismo di guerra a favore della NEP, sicuramente meno in linea con il suo pensiero. In tal senso per lui Kronstadt era il tentativo di portare ulteriormente avanti la fase sperimentativa, un tentativo però che andava stroncato per evitare che divorasse dall’interno la giovane URSS da per lui già indirizzata sui giusti binari. Andiamo infatti a vedere gli esiti dei presunti tradimenti rivoluzionari: la dittatura di Cromwell demolì definitivamente in Gran Bretagna l’idea di una monarchia autonoma dal parlamento e rese vana la restaurazione degli Stuart, il 18 Brumaio di Napoleone salvò gli ideali della rivoluzione francese dal tradimento del Direttorio traghettandoli nel XIX secolo, la soppressione di Kronstadt garantì lo stabilizzarsi del nuovo stato sovietico mentre la normalizzazione voluta da Mussolini dopo la marcia su Roma assicurò un ventennio di dominio fascista sull’Italia interrotto solo dal più grande evento della guerra mondiale. L’esempio migliore però resta, secondo me, quello fatto da Benedetto Croce nel suo “Vite di avventure, di fede e di passione” in merito alla decisione presa da Calvino di mandare al rogo Michele Serveto per il suo rifiuto della trinità. Da un punto di vista semplicistico questo potrebbe essere intesa come un tradimento della “rivoluzione” calvinista che si fondava sulla libertà di coscienza e di interpretazione delle sacre scritture da parte del credente, ma Croce fa osservare come questo tradimento fosse necessario per stabilizzare le conquiste culturali del calvinismo. La dottrina di Calvino era già una deviazione rispetto a quella di Lutero, che già si era moderata riconoscendo il ruolo secolare dei principi tedeschi, e consentire ulteriori deviazioni al suo interno, come appunto il pensiero di Serveto, avrebbe comportato il rischio di una frantumazione del calvinismo nella sua fase iniziale. Per Croce Calvino aveva davanti a sé la fine fatta da altri movimenti riformati che, a seguito delle continue scissioni interne, erano infine implosi o finiti in un cono d’ombra. Con il suo tradimento verso Serveto Calvino salvò la nuova fede che avrebbe, in seguito, fornito la base culturale per la Repubblica delle Province Unite, la rivoluzione inglese e i padri pellegrini americani. Potrei fare altri esempio, dovendo però entrare molto più in profondità e con alcuni distinguo, in merito alla rivoluzione iraniana, a quella messicana e al nazismo dopo il 1933, ma ritengo di aver sufficientemente spiegato il punto. Certo se tutti questi tradimenti vengono letti da un punto di vista etico o morale non si può che giungere a un giudizio di netta condanna, ma come ho già più volte affermato ritengo che l’etica e la morale nulla abbiano a che vedere col giudizio storico teso unicamente a verificare il prodotto che l’evento ha avuto sul divenire storico.

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