Indice: 1. La risoluzione NSC-68 – 2. La questione del riarmo tedesco e l’avvio del progetto europeista – 3. La NATO e la cornice mediterranea dell’alleanza atlantica – 4. Il fallimento della CED e l’Unione Europea Occidentale – 5. Le nuove prospettive geopolitiche della Presidenza Eisenhower – 6. La morte di Stalin e la politica estera della direzione collegiale: l’avvio della distensione con l’occidente – 7. I primi accenni della destalinizzazione e la formazione del Patto di Varsavia.
1. La risoluzione NSC-68
La perdita del monopolio atomico e la immediatamente successiva vittoria comunista nella guerra civile cinese produssero una profonda impressione negli Stati Uniti. In particolare gli eventi in estremo oriente accesero un feroce dibattito politico interno, con l’opposizione repubblicana che accusò l’amministrazione Truman di aver “perso la Cina” a causa di una strategia eccessivamente morbida di contrasto dell’avanzata del comunismo su scala internazionale. La conseguenza immediata di tali avvenimenti fu un ripensamento dell’approccio geopolitico statunitense e della dottrina del contenimento. Già a fine 1949 Truman aveva approvato la risoluzione NSC-48/2, che estendeva la politica del contenimento all’Asia, ma la svolta si ebbe con la risoluzione NSC-68 – Obiettivi e programmi statunitensi per la sicurezza nazionale, redatta da un gruppo di lavoro guidato da Paul H. Nitze, che aveva sostituito George Kennan alla direzione del Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato, e presentata alla Casa Bianca nell’Aprile 1950. Unanimemente considerata insieme al lungo telegramma di Kennan il fondamento della strategia geopolitica americana durante la guerra fredda, la risoluzione NSC – 68 si muoveva ancora nella logica della dottrina del contenimento, ma assumendo una prospettiva completamente nuova dell’atteggiamento sovietico e della conseguente risposta che gli Stati Uniti doveva mettere in campo su scala internazionale. Le premesse erano infatti le stesse di Kennan: l’Unione Sovietica era animata da una “fede nuova e fanatica che la spinge ad imporre la sua autorità su tutto il resto del mondo”; obiettivo finale di Mosca era “il dominio della massa euroasiatica” e “la totale sottomissione dei popoli posti sotto il suo controllo” poiché “il campo di concentramento era il prototipo della società che questa politica mirava a realizzare, una società nella quale la personalità dell’individuo veniva frantumata e corrotta sino al punto di rendere l’individuo persuaso partecipe della propria degradazione”. Lì dove però Kennan, da profondo conoscitore delle reali capacità materiali sovietiche nell’immediato secondo dopoguerra, riteneva che l’approccio di Mosca fosse calcolato e metodico, teso non a colpire direttamente l’occidente bensì ad approfittare di ogni situazione di caos socio-politico per guadagnare posizioni, la risoluzione NSC-68 dipingeva una dirigenza sovietica spregiudicata, militante ed aggressiva. Per Nitze e il suo gruppo il Cremlino era il vertice di “un movimento rivoluzionario mondiale, poiché esso era l’erede dell’imperialismo russo, e poiché esso era una dittatura totalitaria”; per Mosca l’esistenza stessa degli Stati Uniti era una minaccia intollerabile in quanto “l’esistenza e la persistenza dell’idea di libertà costituisce una minaccia permanente e continua alle fondamenta di una società schiavista”, per questo motivo la competizione su scala mondiale con l’Unione Sovietica doveva rappresentare per Washington “una sfida mortale”. A fronte di tale diagnosi il rimedio, secondo gli estensori della NSC-68, era la necessità che gli Stati Uniti si impegnassero in un ampio programma di riarmo, sia nucleare che convenzionale, per riportare le capacità belliche del paese a quelle della seconda guerra mondiale. Washington impegnava solo il 6-7% del suo PIL in armamenti, mentre l’Unione Sovietica vi riversava il 13,8%, ma le capacità dell’economia americana consentivano investimenti molto più massicci, fino al 20% del PIL, poiché “l’economia americana, quando opera a livelli che si avvicinano alla piena efficienza, può fornire risorse enormi per obiettivi altri dal consumo civile, garantendo al contempo standard di vita più alti”. Proprio la guerra contro l’Asse aveva dimostrato che, contrariamente alle teorie più rigoriste in materia fiscale, grandi investimenti nel campo degli armamenti invece che ridurre le risorse a disposizione dello Stato, avrebbe stimolato l’economia con ricadute positive anche sulla società civile. Oltre a ciò una proiezione di potenza che desse credibilità all’impegno statunitense di contrasto all’Unione Sovietica su scala mondiale era necessario per ragioni simboliche: avrebbe infatti rassicurato gli alleati, impressionato i paesi terzi e scoraggiato Mosca. Il contenuto della risoluzione NSC-68 aprì un ampio dibattito nell’amministrazione americana. Alcuni come l’ex Segretario di Stato e futuro Segretario alla Difesa Robert Lovett la esaltarono, in quanto metteva in evidenza come gli Stati Uniti fossero impegnati “in una guerra peggiore di qualsiasi altra guerra che abbiamo mai affrontato” in cui l’unica differenza con i conflitti precedenti era che “la morte arriva più lentamente e in modo differente”. Altri però, con in testa proprio George Kennan, criticarono i toni eccessivamente allarmistici del documento, affermando (giustamente) che si andavano ad esagerare le capacità effettive dell’Unione Sovietica e che la strada indicata avrebbe portato ad una corsa agli armamenti in grado solo di esacerbare la situazione. Il 1950 era però anno di elezioni di medio termine negli Stati Uniti e il rischio per la Casa Bianca di perdere il Congresso e molti seggi di governatore a favore dei repubblicani era concreto, serviva dunque dare un segnale, non solo in funzione di politica estera, ma anche interna, di maggior risolutezza nell’affrontare i sovietici dopo il doppio colpo della seconda metà del 1949. Le conclusioni della NSC-68 vennero dunque integralmente accolte dall’amministrazione Truman con una serie di immediate conseguenze. Intanto scegliere la via dell’intervento diretto quando a Giugno esploderà la guerra di Corea, fatto questo che contribuirà a disarmare ogni opposizione nel Congresso all’aumento delle spese militari che già nel 1951 salirono a 22,3 miliardi di dollari, per poi lievitare a 44 miliardi nel 1952 e a 50,4 miliardi nel 1953. Ancora, al fine di mantenere il primato nell’ambito degli armamenti nucleari, si diede maggior impulso agli studi per l’acquisizione della bomba all’idrogeno, di cui Truman aveva già autorizzato la costruzione il 30 Gennaio 1950, e dei missili vettori necessari al suo trasporto. Inascoltate rimasero così i moniti di scienziati, in primis Robert Oppenheimer e James Conant che pur avevano lavorato al progetto Manhattan, i quali palesarono il rischio che una decisione del genere avrebbe portato a una competizione nucleare con l’Unione Sovietica per l’acquisizione di armi non può idonee ad un uso tattico, bensì strategico e dunque destinate a provocare la morte di un ingente numero di popolazione civile con gravi rischi per l’esistenza stessa delle specie umana. Infine, in prospettiva internazionale, gli argomenti portati dalla NSC-68 contribuirono a mettere in agenda l’evoluzione del Patto Atlantico con l’inserimento al suo interno, ed il conseguente riarmo, della Repubblica Federale Tedesca, fatto che apriva la strada alla militarizzazione dei blocchi contrapposti un Europa.
2. La questione del riarmo tedesco e l’avvio del progetto europeista
La nascita della Repubblica Federale Tedesca (BRD) il 7 Settembre 1949, riconosciuta il 21 dello stesso mese della autorità militari alleate che mettevano così fine al regime di occupazione della trizona, non segnò la fine della questione tedesca. Non solo infatti era da vedere come i sovietici avrebbero reagito a tale evento nella amministrazione della loro zona di occupazione, ma permanevano nello stesso campo occidentale controversie in ordine tanto al qantum di autonomia economico-politica da accordare al nuovo stato quanto, soprattutto, alla possibilità di autorizzare un suo riarmo in un ottica di inserimento della Repubblica Federale nel campo atlantico. Per quanto riguarda i sovietici ancora oggi non vi è uniformità di vedute in merito a quale sia stata l’evoluzione dei piani del Cremlino per l’assetto della Germania nel dopo guerra. Secondo alcuni, come lo storico della guerra fredda Vladislav Zubok, Mosca non ebbe mai intenzione di ritirare le sue forze della Germania orientale, considerandola come la sua prima linea di difesa in caso di invasione occidentale, altri invece fanno osservare come la politica seguita dai sovietici nella loro zona di occupazione, fintanto che vi fu uno spazio per conseguire l’obiettivo di un trattato di pace che restaurasse uno stato tedesco unitario neutrale e demilitarizzato, fu diversa rispetto a quella tenuta negli altri paesi che divennero parte del blocco orientale. A parte infatti imporre l’unificazione del partito comunista con quello social-democratico nel nuovo Partito Socialista Unificato di Germania (SED), Stalin non autorizzò la leadership dei comunisti tedeschi, guidata da Wilhelm Pieck e Walter Ulbricht, a compiere passi nella direzione della creazione di uno Stato dai caratteri sovietici nella Germania orientale in quanto ciò avrebbe ancor più aperto la strada alla cristallizzazione della situazione di divisione in due del paese. Nell’ottobre del 1946 si svolsero elezione per la ricostruzione delle assemblee dei cinque lander della zona di occupazione sovietica, che si tennero in un contesto abbastanza regolare ed infatti videro un’affermazione della SED (con una media del 47% dei voti) che però non conseguì la maggioranza assoluta dei voti da nessuna parte a fronte comunque di buoni risultati tanto dei liberali che dei cristiano-democratici (entrambi intorno al 25%). Il cambio di passo lo si ebbe con il blocco di Berlino, a Novembre del ’48 nel pieno del confronto i sovietici trasferirono molte funzioni amministrative alla Commissione economica tedesca controllata dalla SED, per poi subire un’accelerazione agli inizi del 1949 con il fallimento della prova di forza e la conseguente presa d’atto da parte del Cremlino della inevitabilità della costituzione della Repubblica Federale Tedesca nella trizona. Mosca decise così di far cadere ogni veto ai progetti dei comunisti tedeschi, che ormai mordevano il freno, e così il 15-16 Maggio del ’49, tre giorni dopo la fine del blocco di Berlino, si tennero le elezioni nella zona di occupazione sovietica per la convocazione di un’assemblea costituente, elezioni nelle quali per la prima volta tutti i partiti erano raggruppati in una coalizione unica (il Blocco Democratico, rinominato l’anno dopo Fronte Nazionale) dominata dalla SED. Il 7 Ottobre, cinque mesi dopo la proclamazione della BRD, venne formato il primo governo provvisorio della Repubblica Democratica Tedesca (DDR) e il 9 il quartier generale dall’Amministrazione militare sovietica in Germania fu ritirato da Berlino Est con trasferimento al nuovo Stato di tutte le funzioni precedentemente esercitate da questo organo, che venne sostituito dalla Commissione di controllo sovietica in Germania. I paesi occidentali, sebbene ovviamente non riconobbero la DDR facendo proprio il principio della rappresentanza unica del popolo tedesco proclamato il 21 Ottobre da Adenauer (cosiddetta dottrina Hallstein dal nome del sottosegretario agli esteri tedesco Walter Hallstein che la elaborò), presero atto del fatto compiuto quale inevitabile prezzo della parallela quiescenza di Mosca allo stabilimento della Repubblica Federale. La partizione della Germania nelle due repubbliche se da un lato contribuiva a chiarire la situazione europea e a restaurare una forma di normalità dopo le vicende dell’immediato dopo guerra, dall’altro lasciva aperte una serie di problematiche attinenti la situazione tedesca potenzialmente molto pericolose per i rapporti tra i blocchi contrapposti. Intanto restava incerto lo status di Berlino Ovest; come condizione per la rimozione del blocco della città e della quiescenza sovietica alla nascita della Repubblica Federale, gli alleati occidentali avevano accettato che le loro zone di occupazione della ex-capitale tedesca non fossero pienamente integrate nella BRD, che infatti dovette porre la sua capitale a Bonn, e quindi la città rimaneva di fatto soggetta ad un regime di occupazione e di comunicazione tra le due zone regolato in base agli accordi presi dalle potenze vincitrici dell’Asse a guerra conclusa. Si andava dunque a creare all’interno del blocco orientale questa enclave atlantica, con truppe americane, francesi e inglesi di guarnigione nonché, almeno per il momento, la libertà per cittadini e soldati di muoversi tra le due zone della città. In secondo luogo c’era la questione della impossibilità di siglare un trattato di pace con la Germania che andasse a definire le materie delle riparazioni di guerra e dei nuovi confini dello stato tedesco. Gli accordi di Potsdam avevano infatti statuito che un accordo di pace avrebbe dovuto essere accettato da un “governo della Germania quando si fosse stabilito un governo adeguato allo scopo”, orbene il cristallizzarsi della situazione di fatto della partizione rendeva impossibile avere un governo tedesco unico avente autorità su tutta la Germania che si potesse far carico della firma del trattato. Certo tanto gli alleati occidentali quanto i sovietici avrebbero potuto firmare una pace con l’entità statale tedesca da loro riconosciuta, ma si sarebbe trattato di una mossa che il fronte opposto avrebbe accolto come una intollerabile provocazione, senza contare il problema che sarebbe sorto di come imporre l’integrazione delle clausole dell’accordo a quella parte di Germania controllata dal governo non riconosciuto; insomma l’unico risultato sarebbe stato un esacerbare i rapporti tra i due blocchi. I problemi correlati a questa ambiguità della situazione non tardarono ad emergere; già nel Luglio 1950 la DDR e la Polonia siglavano il trattato di Zgorelec con il quale Berlino Est riconosceva la linea Oder-Neiße quale nuovo confine tra i due paesi, rinunciando quindi ad ogni rivendicazione sulla Slesia, la Pomerania Orientale e la Prussia Orientale (inclusa implicitamente anche Konigsberg/Kaliningrad a favore dei sovietici). La reazione di Bonn fu una netta presa di posizione nel senso di dichiarare la linea Oder-Neiße come un confine inaccettabile e che, anche in caso di riunificazione della Germania, si sarebbe dovuto tornare al confini esistenti al 1 Gennaio 1937. Il 16% della popolazione della BRD era composta da esuli delle province orientali quindi Adenaur non solo non voleva, ma non poteva neanche politicamente accettare anche solo in fatto di principio la rinuncia a rivendicare i territori ceduti ai polacchi (sebbene all’estero si facesse osservare come fosse paradossale rivendicare il confine di Versailles che tanto la Repubblica di Weimar quanto il Terzo Reich avevano a loro volta considerato inaccettabile). Tale posizione metteva in grosso imbarazzo gli alleati occidentali che, da un lato, non potevano prendere le distanze dalla Repubblica Federale senza delegittimarla nella fase delicata del suo inserimento nel sistema atlantico, dall’alto però avevano messo la loro firma su quel nuovo confine tanto a Yalta quanto a Potsdam e non potevano rimangiarselo pena il rischio di perdere la sponda dei nazionalisti polacchi, tanto anti-tedeschi quanto anti-sovietici. Inoltre a Washington, forse con un eccesso di ottimismo, si sperava che personalità come Gomulka, in quel momento estromesso dal governo di Varsavia perché considerato “reazionario” data la sua linea per una via polacca al comunismo, potessero in futuro faro in Polonia ciò che Tito aveva fatto in Jugoslavia, ed in tal contesto cercare un contatto con questi ambienti presentandosi come sostenitori delle rivendicazioni tedesche non era certo il miglior biglietto da visita.
Venendo adesso alle problematiche che la situazione tedesca creava all’interno del campo atlantico, qui la questione ruotava tutta intorno alle resistenze e ai dubbi che la Francia continuava ad esprimere alla piena reintegrazione del nuovo stato tedesca nella sua autonomia. Nel 1948 Parigi aveva fatto cadere molte delle sue obiezioni alla nascita della Repubblica Federale per il ruolo centrale che la ripresa della produzione tedesca aveva per il successo del piano Marshall e per l’esacerbarsi dello scontro con i sovietici culminato con il blocco di Berlino, ciò però non voleva dire che fossero venuti meno gli attriti o che la Francia fosse pronta a dare semaforo vedere alla completa restaurazione economica e militare di chi, fino a pochi anni prima, era stato il suo più mortale nemico. Tre in particolare era le materie del contenere che dividevano tanto Parigi e Bonn quanto Parigi e gli altri alleati atlantici. In primo luogo il destino della Saar, regione già parte della zona d’occupazione francese, e poi dal 1947 unita da un punto di vista economico e amministrativo a Parigi nella forma di un protettorato denominato “Unione economica tra Francia e Saar”. I francesi, riesumando progetti già avanzati al termine della Grande Guerra, non facevano mistero del loro obiettivo di mantenere questo territorio separato dal nuovo stato tedesco e sotto l’influenza di Parigi, allo stesso tempo per Bonn non era in discussione il fatto che la Saar dovesse ricongiungersi alla nuova Repubblica Federale. C’era poi la questione della ripresa della produzione siderurgica nel bacino della Ruhr, vitale tanto per la rinascita dell’economia della BRD quanto per il suo riarmo. La Francia considerava la ragione della Ruhr come il cuore della potenza tedesca, e dunque per il governo francese mantenere una forma di controllo sull’area voleva dire tanto poter vigilare sulla direzione che avrebbe preso la ricostruzione della Germania, quanto assumere la leadership della produzione siderurgica europea. Il progetto iniziale di Parigi, al quale aveva subordinato il suo assenso alla nascita della Repubblica Federale Tedesca nel 1948, era quello di una internazionalizzazione della regione, ma lo sviluppo degli eventi nel biennio 1949-1950 rese via via questa soluzione politicamente e diplomaticamente sempre meno ottimale. Infine la materia più problematica: il riarmo della BRD. Gli Stati Uniti ebbero sempre ben chiara l’idea della imprescindibilità del coinvolgimento della nuova Germania nel progetto atlantico, ma consapevoli di quanto Parigi fosse suscettibile riguardo alla ricostruzione dell’esercito tedesco scelsero di approcciare la tematica per gradi, partendo dal garantire ai francesi che il Patto Atlantico era anche uno strumento di controllo della rinascita di quel paese. Di nuovo fu lo sviluppo della situazione internazionale tra la fine del 1949 e l’inizio del 1950 a determinare un cambio di prospettiva. I nuovi rapporti di forza tra Est ed Ovest, conseguenti all’acquisizione da parte sovietica dell’arma atomica, spinsero gli europei a richiedere un maggior impegno americano sul continente, nonché una revisione dei piani di guerra fino ad allora elaborati (che prevedevano una iniziale resistenza sul Reno per poi puntare a conservare una serie di teste di sbarco in attesa dei rinforzi da oltre oceano) avanzando la linea d’ingaggio sull’Elba. Da parte sua Washington, sia per le nuove prospettive della NSC-68, sia per le affinità che la situazione tedesca aveva con quella coreana, ritennero ancor più urgente un rapido inserimento della Repubblica Federale nell’alleanza atlantica. Le carte vennero messe in tavola al Consiglio Atlantico di New York dell’Aprile 1950: gli Stati Uniti accettavano di aumentare la loro presenza militare in Europa e di assumere la guida di una forza atlantica integrata, ma la condizione per tutto ciò era che gli europei dessero il loro assenso a che dieci divisioni tedesche partecipassero a questa forza. Parigi si trovò isolata in quanto era l’unico paese che, tanto per ambizioni geopolitiche in Europa quanto per tenuta di politica interna, non poteva dare il suo assenso ad un incondizionato riarmo della Germania. Fu in questo contesto che gli aneliti europeisti, già da tempo manifestati in ambienti intellettuali e che stavano iniziando a trovare delle sponde politiche, furono accolti come l’uovo di Colombo in grado di coniugare gli opposti interessi. A fronte infatti del costante rafforzamento della special relationship tra Stati Uniti e Regno Unito, che derubricava il ruolo dell’entente anglo-francese nata ad inizio secolo, a Parigi si iniziò a ragionare che fosse meglio evitare di mantenere una posizione oltranzista nei confronti della Germania, con il rischio di spingere anche Bonn verso un rapporto preferenziale con gli Stati Uniti che avrebbe lasciato la Francia isolata, scegliendo invece la via della conciliazione. La necessità di superare il conflitto franco-tedesco, che aveva portato a un secolo di guerre in Europa, fu dunque la spinta propulsiva sul piano diplomatico per intraprendere la strada di una forma di integrazione europea, che spostasse dal piano dello scontro a quello della cooperazione i rapporti tra le due più importanti entità politiche dell’Europa continentale. La dichiarazione del ministro degli esteri francese Robert Schuman del 9 Maggio 1950, con la quale si proponeva ai tedeschi la costituzione di un’alta autorità carbosiderurgica ai fini della risoluzione del problema della Ruhr, fu dunque parte di questo riorientamento del pensiero del Quai d’Orsay. Il progetto, al quale in un secondo tempo aderirono anche l’Italia e i paesi de Benelux, intendeva costituire un’organizzazione sovranazionale, con ampi poteri assegnati ad organi esecutivi come l’Alta Autorità o la Corte di Giustizia, che regolasse un mercato comune dell’industria carbosiderurgica impedendo la nascita di cartelli industriali e gestendo le quote di produzione. Adenaur si mostrò subito favorevole alla proposta, anche perché ciò faceva tramontare l’ipotesi di un controllo internazionale della Ruhr in favore di sistema sovranazionale all’interno del quale la Repubblica Federale avrebbe avuto un maggior peso, ed eguale supporto all’operazione giunse sia da Stati Uniti e Regno Unito, in quel momento favorevoli ad ogni progetto europeista che incoraggiasse la solidarietà atlantica. Fu così che a Giugno 1950 presero avvio i negoziati che si sarebbero conclusi con la firma il 18 Aprile 1851 del trattato di Parigi che istituiva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), ufficialmente stabilita poi il 25 Aprile 1952 con Jean Monnet come primo presidente dell’Alta Autorità. Proprio il generale positivo accoglimento che ebbe la dichiarazione di Schuman, portò Parigi a credere che la cornice europeista fosse perfetta per dare una forma accettabile al riarmo tedesco. Fu ancora Jean Monnet che a Settembre del ’50 avanzò l’idea che il riarmo della Germania fosse inserito all’interno della “creazione di un esercito europeo riallacciato alle istituzioni politiche di un’Europa unita”. Il governo francese, partendo dallo schema che si stava delineando per la CECA, elaborò così un progetto, che prese il nome di piano Pleven dal nome del Presidente del Consiglio René Pleven, che venne approvato dall’Assemblea nazionale francese il 21 Ottobre 1950: si sarebbe venuto a creare un ministero europeo della difesa alle cui dipendenze vi sarebbe stato un esercito europeo di sei divisioni non nazionali, ma internazionali, integrate da unità delle varie nazionalità e poste sotto il comando americano. In tal mondo la Germania non avrebbe avuto un esercito suo proprio, ma solo unità singole inserite all’interno di questo esercito europeo. Contrariamente alla CECA questa proposta non raccolse grandi entusiasmi: non piaceva ai tedeschi, che si sentivano discriminati, non piaceva agli inglesi, perché non interessati a partecipare a un progetto dal carattere sovranazionale, e non piaceva agli americani, che la consideravano una soluzione bizantina e inutilmente complessa. Gli stessi francesi la consideravano una brutta soluzione al problema del riarmo tedesco, ma era l’unica in grado di raccogliere sufficiente supporto tra le forze politiche interne data la radicale opposizione ad ogni concessione da parte di socialisti e comunisti. Al Consiglio Atlantico di Bruxelles del Dicembre ’50 fu subito evidente che le trattative per l’adozione del piano Pleven sarebbero state lunghe e faticose, per cui si decise proceduto subito alla costituzione in Europa dell’esercito atlantico integrato al comando del generale Eisenhower quale Comandante Supremo degli Alleati in Europa (SACEUR), ma di subordinare la questione della partecipazione della BRD allo stesso a un compromesso: in linea di principio si ammetteva la ricostituzione di forze armate tedesche, ma sul piano pratico ciò sarebbe avvenuto solo in seguito alla definizione della dimensione delle divisioni internazionali dell’esercito europeo che avrebbero dovuto essere inserite nei combat teams dell’esercito atlantico. Seguiremo nel prossimo capitolo il lungo travaglio dell’esercito europeo, per intanto però è importante mettere in luce la conseguenza immediata e più duratura della decisione di creare in Europa un esercito atlantico permanente in tempo di pace, e cioè l’aver posto le premessa per la costituzione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico o NATO.
3. La NATO e la cornice mediterranea dell’alleanza atlantica
Sebbene spesso usati come sinonimi nel linguaggio comune, il Patto Atlantico e la NATO sono due cose diverse: il primo è un tratto internazionale che istituisce un obbligo di reciproca assistenza e consultazione tra gli Stati contraenti in caso di minaccia all’integrità territoriale o di attacco da parte di paesi terzi, la seconda invece è una organizzazione internazionale, costituita sulla base dell’art. 9 del Patto, diretta a coordinare anche in tempo di pace le sfere politica, economica e militare dei paesi aderenti. E’ fondamentale mettere in luce sin da ora come l’adesione al Patto Atlantico non comporti automaticamente anche l’adesione alla NATO, potendo un paese scegliere di associarsi all’alleanza, senza però prendere parte alla struttura permanente di coordinamento. La NATO rappresentò una novità storica nel panorama delle relazioni internazionali, in precedenza vi erano state forma di coordinamento e consultazione continuata tra i membri di un alleanza militare (come nel caso della Triplice, dell’alleanza franco-russa o del Patto d’Acciaio), ma mai si era previsto di affiancare all’accordo un sistema di organismi internazionali con autorità decisionale ed un esercito di stanza permanente anche per il tempo di pace. Già subito dopo l’entrata in vigore dell’alleanza nell’Agosto del ’49 si era proceduto a dare esecuzione all’art. 9 della stessa, che prevedeva l’istituzione del consiglio permanente di rappresentanti dei singoli Stati membri (Consiglio Atlantico). A sua volta tale Consiglio avrebbe dovuto procedere alla creazione di tutti gli ulteriori organi sussidiari di cui si valutava la necessità, ma questi rimasero in sospeso finché il deliberare in favore della creazione dell’esercito atlantico non rese imprescindibile creare anche le strutte indispensabili al suo funzionamento. Ciò avvenne alla riunione del Consiglio Atlantico di Ottawa del Settembre 1951, durante il quale vennero istituiti il Comitato di difesa economico-finanziario, il Comitato di difesa, il Comitato militare (con ruolo assistenziale del secondo) e lo Standing Group cioè un comitato d’emergenza composto solo da Stati Uniti, Francia e Regno Unito. Lo stesso Consiglio Atlantico vide un ampliamento dei suoi poteri decisionali in modo da poter meglio coordinare i settori di politica estera, dell’economia e militare dell’organizzazione. Allo stesso tempo Eisenhower e il suo staff procedettero a dividere lo scacchiere europeo in quattro gruppi regionali: Allied Forces Northern Europe (Scandinavia, Regno Unito e Mare del Nord), Allied Forces Central Europe (Francia, Benelux e, in prospettiva, Germania Occidentale), Allied Forces Southern Europe (Italia e Mar Mediterraneo) e Allied Forces Mediterranean (per le operazioni navali nel Mediterraneo ed incentrata sul ruolo della Mediterranean Fleet inglese). Nel Febbraio 1952 tale struttura venne completata con l’insediamento a Parigi del Comando Supremo delle Potenze Alleate in Europa (SHAPE) e dell’apparto amministrativo della NATO.
Contemporaneamente gli Stati Uniti stavano lavorando all’estensione del perimetro del contenimento sul fronte mediterraneo. Abbiamo già detto come, all’epoca dei negoziati sul Patto Atlantico, si era discussa della possibilità di affiancare a questo un patto mediterraneo per superare i dubbi avanzati dai paesi scandinavi all’adesione dell’Italia alla nuova alleanza. Alla fine la presa di posizione di Francia e Stati Uniti a favore di Roma aveva avuto la meglio, ma lo stesso non fu per la Spagna. Se infatti l’Italia, pur a fronte del suo recente passato fascista, poteva quanto meno presentare un regime democratico (per quanto giovane e acerbo) coerente con i principi di difesa della democrazia alla base del Patto Atlantico, la Spagna franchista era visto come un paria dalla maggior parte dei paesi europei. In tale posizione c’era una quota d’ipocrisia, perché simili problematiche non erano state sollevate per il Portogallo di Salazar, che certo non era un’esempio di democrazia, ma su Madrid pesava la memoria ancora troppo recente della guerra civile (con tutto il retroterra culturale di Guernica, Per chi suona la campana e via dicendo) e della condotta ambigua tenuta da Franco durante il conflitto mondiale. Per questo Washington, pur non condividendola, decise nel Dicembre 1946 di votare a favore della risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite per la condanna e la rottura delle relazioni diplomatiche con il regime franchista proposta dalla Polonia, ma sostenuta con forza anche da Francia e paesi nordici. Franco non si scompose e rimase in attesa che il deteriorarsi della situazione tra i due blocchi rendesse le necessità della geopolitica più rilevanti dei principi democratici. Fu una scommessa vincente perché già negli anni ’50 molti paesi dell’Europa occidentale iniziarono, in maniera seppur informale, a riprendere in rapporti diplomatici con Madrid aprendo così la strada per una qualche forma di integrazione del paese iberico nel blocco anti-sovietico. Se un ingresso nel Patto Atlantico rimaneva fuori discussione, troppo politicamente indigesto per i governi scandinavi, un compromesso accettabile era quello di un accordo bilaterale tra Stati Uniti e Spagna. Il 26 settembre 1953, con la benedizione di Regno Unito e Francia, Washington e Madrid firmavano un accordo decennale rinnovabile in base al quale a Franco sarebbero giunti aiuti economici e militari (cinquecento milioni di dollari già solo tra il ’54 e il ’61) in cambio della concessione agli americani di quattro basi militari, oltre alla possibilità di usare impianti portuali se ammodernati a spese degli Stati Uniti. La cornice mediterranea del blocco occidentale si era comunque già rafforzata nel Febbraio del 1952 quando al Consiglio Atlantico di Lisbona era stato deliberato l’ingresso nel Patto Atlantico di Turchia e Grecia. Si è detto di come la dottrina Truman già aveva attributo grande importanza alla tenuta dei due paesi al fine di evitare che Mosca acquisisse una posizione di forza nel Mediterraneo orientale; quando però era stato il momento di trattare la nascita del Patto Atlantico né Atene né Ankara vennero prese in considerazione e, nonostante le rassicurazioni di Washington in merito al loro inserimento nel campo occidentale e alle garanzie sulla tutela della loro indipendenza, la cosa produsse un certo astio. Si contestava infatti che poiché l’Italia era stata ammessa ciò comportava una volontà dell’alleanza di estendere la sua area di copertura, e dunque di confronto con l’Unione Sovietica, anche al bacino del Mediterraneo, senza però allo stesso tempo inserire nei meccanismi di tutela preveduti dal Patto i due paesi che nell’area erano i più esposti facendo da tappo alle ambizioni di Mosca di proiettarsi al di fuori del Mar Nero. Anche per questo motivo il processo di adesione, a seguito della domanda avanzata nel 1951, su estremamente celere. Da non sottovalutare poi il fatto che i due paesi vennero fatti entrare nel Patto in contemporanea, infatti, nonostante il comune timore per la prossimità alla sfera d’influenza sovietica, permanevano tra Grecia e Turchia antiche animosità reciproche che non vennero meno neanche dopo l’ingresso all’alleanza atlantica, era dunque essenziali non dare l’impressione di favorire uno dei due offrendogli una corsia privilegiata per l’adesione. Infine gli Stati Uniti tentarono di completare il perimetro mediterraneo provando ad attrarre la Jugoslavia nel blocco orientale. Anche qui abbiamo già visto di come a seguito della rottura tra Tito e Stalin gli inglesi, che durante la guerra mondiale aveva puntato sul leader comunista, convinsero gli americani a non imbarcarsi in velleitari tentativi di provocare la caduta del regime comunista, ma invece di sostenere l’eretico del mondo comunista per inserire un cuneo all’interno della sfera sovietica e incoraggiare ulteriori forme di disubbidienza a Mosca. Belgrado divenne dunque la destinataria di ingenti aiuti economici americani, fondamentali per non far sprofondare nel caos il paese dopo la recisione di ogni supporto da parte dei paesi comunisti, ma Tito recalcitrava a stringere ulteriormente i legali con l’ovest non avendo in alcun modo abdicato alla sua fede comunista. Quando però agli inizi degli anni ’50 venne scoperta una rete di agenti sovietici infiltrati nel paese e si accalcarono le voci di una possibile invasione da parte della Bulgaria, il timore che Mosca fosse ormai pronta a ricondurre all’obbedienza la Jugoslavia convinse Tito della necessità di riammodernare il suo esercito con l’aiuto americano. Così nel 1951 Belgrado aderì al Mutual Defense Assistance Program per ricevere aiuti militari da parte dell’occidente e al Dipartimento di Stato americano si iniziò ad accarezzare l’idea di attrarre stabilmente la Jugoslavia nel proprio campo. Ovviamente un’adesione del paese al Patto Atlantico era semplicemente improponibile, per cui si optò per incoraggiare la nascita di un’alleanza balcanica tra Grecia, Turchia e Jugoslavia indirettamente collegata alla NATO. Tale progetto era però ostacolato dal perdurare della questione triestina, che rendeva complesso fare ulteriori e più esplicite aperture alla Jugoslavia senza indispettire l’Italia, fermante ancorata per quanto riguardava Trieste alle promesse a suo tempo degli alleati. Per questo si decise di procedere a piccoli passi e, mentre si lavorava per trovare una soluzione all’impasse dello status della città adriatica, veniva concluso il 28 febbraio 1953 un patto di amicizia e cooperazione tra Belgrado, Atene ed Ankara. Quando poi l’anno dopo la questione triestina si andrà ad avviare alla sua definizione, l’idea di un’alleanza formale tra i tre paesi tornò sul tavolo e venne infine formalizzata il 9 Agosto 1954 con un accordo ventennale di mutua difesa. Si trattò di un evidente successo della diplomazia americana, ma nei fatti effimero perché il contemporaneo affermarsi a Mosca della leadership di Chruscev avrebbe portato nei mesi successivi a un nuovo rimescolamento delle carte.
4. Il fallimento della CED e l’Unione Europea Occidentale
I negoziati per la traduzione in pratica del piano Pleven, ben presto battezzato ufficialmente come Comunità europea di difesa (CED), si aprirono a Parigi il 15 Febbraio 1951 con la partecipazione di delegati da Francia, Repubblica Federale Tedesca, Italia, Belgio, Lussemburgo e, da Ottobre, Paesi Bassi. Gli attori esterni guardavano alla vicenda con sentimenti contrastanti. Apertamente scettico era il governo laburista inglese; originariamente Londra aveva visto nella formazione dell’esercito atlantico la possibilità di rafforzare la sua posizione di anello di congiunzione tra Stati Uniti ed Europa svolgendo un ruolo preminente nello stesso, invece il progetto della CED, a cui non intendevano partecipare per la sua natura sovranazionale, li poneva ai margini del sistema difensivo continentale. Da oltre oceano invece giungevano esortazioni a fare in fretta, ad Aprile infatti il nuovo Congresso a maggioranza repubblicana aveva accordato a Truman l’invio di quattro nuove divisioni in Europa dietro però condizione di una rapida risoluzione della questione dell’inserimento della BRD nel Patto Atlantico. Washington chiedeva dunque ai suoi alleati di giungere al più presto a una definizione della materia, e la soluzione europeista era fortemente incoraggiata in quanto, apparentemente, in grado di condensare gli opposti interessi. Infine l’Unione Sovietica guardava ovviamente col massimo sfavore a qualsiasi iniziativa che potesse portare ad una adesione della Repubblica Federale all’alleanza atlantica e, notando le difficoltà nelle quali si muoveva la trattativa, provò a gettare sabbia nel meccanismo attraverso l’iniziativa diplomatica che sarebbe passata alla storia come battaglia delle note o note di Stalin sulla Germania. Il 10 Marzo 1952, vedremo a breve cioè nel pieno della fare decisiva dei negoziati, il Cremlino fece pervenire ai governi occidentali una nota nella quale si tornava a proporre la stipula di un trattato di pace con la Germania che avrebbe permesso la creazione di uno Stato tedesco unitario e neutrale; la novità era che per la prima volta Mosca apriva alla possibilità che questa nuova Germania riunificata avesse “delle forze armate nella misura necessaria alla difesa del paese”, oltre alla restituzione dei diritti civili e politici agli ex-ufficiali tedeschi e ai membri del NSDAP purché non avessero subito condanne dai tribunali internazionali. A lungo ci si è interrogati sulla serietà di una proposta che, se formulata prima della rottura definitiva tra sovietici e alleati occidentali, avrebbe potuto essere un accomodamento della situazione tedesca accettabile. La lettura più realistica è che ormai il Cremlino avesse rinunciato alla possibilità di conseguire l’obiettivo di una finlandizzazione della Germania, ed infatti ad Aprile autorizzerà la DDR ad iniziare a trasformare clandestinamente la Bereitschaftspolizei (Polizia d’allerta) in un esercito di fatto con il nome di Kasernierte Volkspolizei (Polizia popolare accasermata), e dunque la nota di Marzo ’52 aveva l’unico scopo di agitare le acque nel campo avversario durante i negoziato per la CED. Sebbene infatti anche nel governo della DDR non vi fosse entusiasmo per una riunificazione che fatalmente avrebbe limitato il potere della SED, ma l’obbligo di fedeltà a Mosca impediva di esternare di ciò, nel campo occidentale il fatto che i sovietici di intestassero la battaglia per l’unità del popolo tedesco era fonte di problemi. Per Adenauer infatti la riunificazione era un obiettivo secondario rispetto all’inserimento stabile della Repubblica Federale nel sistema atlantico, perché una Germania neutrale (sebbene unita) sarebbe stata per lui ostaggio dei ricatti sovietici; nel governo di Bonn però vi erano ministri che invece ritenevano immorale non andare quantomeno a verificare l’onestà della proposta di Mosca, e una crisi di governo in quel momento decisivo dei negoziati per la CED non era ipotizzabile. Il Cancelliere tedesco chiese dunque a Francia, Gran Bretagna de Stati Uniti di opporre alla nota sovietica un rifiuto che non apparisse però come tale. La risposta che venne elaborata fu dunque un’apertura allo scenario ipotizzato dai sovietici, con però la duplice condizione che ogni trattativa per un negoziato di pace fosse preceduta da libere elezioni su tutto il territorio tedesco per la formazione di un governo unitario e rappresentativo dell’intero paese nonché la libertà per la futura Germania unificata di aderire ad alleanze basate sui principi della carta dell’ONU. Si trattava appunto di un rifiuto mascherato, ma i sovietici decisero di stare al gioco replicando a loro volta che era accettabile il principio di libere elezioni, senza però specificare nella pratica come si sarebbero dovuto svolgere e chi avrebbe dovuto supervisionarne la regolarità, ma ribadendo invece il principio della neutralità assoluta e criticando la CED come un’entità ostile all’Unione Sovietica. Lo scambio di note continuò sino a Settembre ’52, ma ormai le due parti erano ancorate sulle opposte posizioni (precedenza la trattato di pace e neutralità assoluta della Germania per i sovietici, precedenza a libere elezioni e possibilità per lo stato tedesco di aderire alla CED per gli alleati occidentali) per cui il tutto divenne un gioco delle parti nel quale il tema della riunificazione venne usato per guadagnare punti presso l’opinione pubblica europea: i sovietici si scagliavano contro “l’atteggiamento aggressivo” dell’occidente, mentre gli alleati occidentali condannavano la sovietizzazione forzata e la limitazione delle libertà in Europa orientale. Venendo adesso allo specifico dello sviluppo dei negoziati per la CED, nel Settembre ’51 venne approvata durante il già citato Consiglio Atlantico di Ottawa la proposta della creazione di una organizzazione che ricalcava in gran parte la CECA, ma nella quale il Commissariato (organo equivalente all’Alta Autorità) aveva molti meno poteri e il carattere sovranazionale era molto più contenuto. Nonostante l’accordo il governo italiano aveva però molte riserve, riteneva infatti che proprio l’annacquamento dell’elemento sovranazionale comportava per gli Stati partecipanti di rimettere il controllo politico sulle proprie forze armate, e i conseguenti costi a bilancio delle stesse, ad un organizzazione al cui vertice vi sarebbe stato l’asse franco-tedesco. Per questo motivo De Gasperi, contando sul supporto di Adenaur e Schuman, avanzò ad Ottobre una controproposta per rendere la CED la genesi di un progetto federalista europeo tramite l’integrazione al suo interno di un’assemblea da eleggere a suffragio universale, con potestà politico-decisionale su alcune materie da sottrarre alla competenza degli stati nazionali e che avrebbe assorbito alcune competenze in quel momento già demandate alla CECA. Vennero così riaperti i negoziati, coinvolgendo appunto anche rappresentanti della CECA, minati però inizialmente dal poco entusiasmo dei paesi del Benelux, atteggiamento questo che però venne meno a seguito del ritorno dei conservatori al governo del Regno Unito. Churchill infatti, favorevole al progetto europeista per l’Europa continentale, fece cadere la tacita opposizione fino a quel momento portata avanti ai laburisti di Attlee. Agli inizi del 1952 sembrò si fosse giunti in vista della chiusura dell’accordo e così, al Consiglio Atlantico di Lisbona di Febbraio che abbiamo già visto sanzionò l’adesione all’alleanza di Grecia e Turchia, si stabilì che la Repubblica Federale Tedesca sarebbe entrata nella NATO non appena fosse stata costituita la CED e previa stipula di una serie di contratti (al posto di un trattato di pace) che regolassero il suo status internazionale nonché la permanenza delle truppe alleate sul suolo tedesco. Stati Uniti e Regno Unito si impegnarono a loro volta a garantire esternamente la CED, legandola così al sistema atlantico. Anche il tema della Saar parve avviarsi ad una risoluzione concordata allorché Adenaur propose una sua internazionalizzazione come “territorio europeo” nel contesto dell’Europa federale, sulla falsa riga del District of Columbia negli Stati Uniti. Si giunse così il 26 Maggio 1952 alla firma a Bonn di questi accordi contrattuali tra Germania e alleati occidentali, e il giorno dopo della stipula a Parigi del trattato istitutivo della Comunità Europea di Difesa come “autorità sovranazionale, comprendente istituzioni comuni e bilancio comune”; vi sarebbe stato un esercito europeo strutturato in gruppi, composti da due divisioni di diverse nazionalità, e la BRD avrebbe avuto per forze armate solo queste divisioni integrate, limitazione non prevista per gli altri Stati membri. Proprio però quando il traguardo sembrò a portata di mano iniziarono i problemi; intanto il governo italiano pretendeva di legare l’adesione alla CED con il rispetto da parte degli alleati occidentali degli impegni assunti riguardo Triste, ma soprattutto a montare era la perplessità francese per qualcosa che era andato molto al di là del piano Pleven. A Parigi infatti la CED aveva pochi sostenitori tra le forze politiche: i comunisti vi erano contrari perché vi era contraria l’URSS, i socialisti e i radicali vi erano contrari perché avevano ancora una pregiudiziale rispetto al riarmo tedesco ed infine i gollisti, pur essendo a favore del riarmo tedesco nel contesto atlantico, erano contrari alla CED perché limitava l’autonomia dell’esercito francese. Ancora il Quai d’Orsay non era contenta del fatto che gli inglesi, anche dopo il ritorno di Churchill al governo, avessero confermato di voler solo dare un supporto esterno alla CED; c’era infatti il timore che senza il contrappeso di Londra, il peso politico della Repubblica Federale Tedesca avrebbe prevalso rispetto a quello di una Francia sempre più assorbita nel conflitto indocinese. Che la ratifica del trattato istitutivo della CED da parte francese sarebbe stato un percorso alquanto incidentato fu subito evidente nei primi mesi del 1953. A Parigi infatti si insediò il nuovo governo del radicale René Mayer, sostenuto dai gollisti, con ministro degli esteri Georges Bidault, piuttosto scettico rispetto al progetto europeista e disposto a sostenere la CED solo se fossero stati apportai dei correttivi che andassero nel senso del riconoscimento del ruolo di grande potenza della Francia. Contemporaneamente mutò il contesto internazionale: a Washington entrò in carica la nuova amministrazione repubblicana con Eisenhower Presidente (al suo posto il comando delle forze atlantiche in Europa venne preso dal Generale Matthew Ridgeway appena richiamato dalla Corea), mentre il 5 Marzo moriva Stalin, sostituito per il momento da una direzione collegiale apparentemente più propensa a riprendere un dialogo costruttivo con l’occidente. Il nuovo Segretario di Stato americano John Foster Dulles, convinto che i negoziati con la nuova dirigenza sovietica dovessero aprirsi con l’occidente in una posizione di forza che solo l’adesione della BRD alla NATO poteva dare, decise di abbandonare la linea attendista tenuta dall’amministrazione Truman, favorevole a lasciare che gli europei risolvessero la questione del riarmo tedesco coi loro tempi, in favore di un approccio diretto e deciso. Dulles mise in chiaro che se il trattato della CED non fosse stato ratificato in tempi brevi gli Stati Uniti avrebbero rivisto le modalità del loro impegno in Europa (agonizing rappraisal cioè “revisione angosciosa” fu la formula usata), inoltre si disse disponibile a venire incontro alla Francia solo in merito all’Indocina, non offrendo invece copertura rispetto alla questione della Saar o al ruolo di Parigi come principale potenza continentale in Europa occidentale. Questo nuovo atteggiamento americano finì solo per far irrigidire ancora di più i francesi, che si sentivano feriti nel loro orgoglio e ingiustamente bistrattati dagli alleati, ma Dulles non fu in grado di leggere lo stato d’animo francese ed anzi a proporre al Primo Ministro belga Spaak di baipassare completamente Parigi ed approvare l’ingresso nel patto atlantico della BRD con il solo supporto di Stati Uniti, Regno Unito e paesi del Benelux (l’Italia veniva esclusa perché ancora sperava di legare la ratifica della CED alla questione triestina). Si giunse così al Giugno 1954 quando, nel pieno della conferenza di Ginevra chiamata a risolvere i conflitti in Corea ed Indocina, venne formato a Parigi il governo del radical-socialista Pierre Mendès France che mise subito in chiaro l’ordine delle priorità: prima trovare una via d’uscita dal Sud-Est asiatico e poi la CED. Questo ha portato a velenose accuse a Mendès France di aver barattato l’affondamento della CED con il supporto dei sovietici a una soluzione del conflitto in Indocina che salvasse l’onore della Francia; in realtà il nuovo Primo Ministro era consapevole che nel parlamento francese non c’era una maggioranza per ratificare il trattato della CED così com’era e dunque era disposto a mettere la faccia del suo governo sulla questione solo se vi fosse stata la certezza di uscirne vincitori. Ad Agosto si giunse alla resa dei conti, Mendeès France mise in chiaro che solo modificando 47 dei 65 punti del trattato sarebbe stato possibile far ratificare il trattato dall’Assemblea Nazionale, ma era un negoziato impossibile anche perché l’atteggiamento sempre più sprezzante di Dulles spingeva i francesi alla rottura. Il 29 Agosto il parlamento francese iniziò il dibattito sulla ratifica e subito il deputato-generale Adolphe Aumeran presentò una mozione pregiudiziale nella quale chiedeva il rigetto del trattato, questa venne approvata il giorno dopo con 319 voti a favore e 264 conto. La CED era ufficialmente morta e sepolta.
Mendès France mise subito in chiaro che il voto riguardava solo la formula della CED e che dunque la Francia non intendeva venir meno agli impegni atlantici, anzi era pronta ad aprire subito un nuovo negoziato per trovare un compromesso accettabile sul riarmo tedesco secondo modalità che garantissero l’autonomia dell’esercito francese, impegnato dopo la perdita dell’Indocina a salvare il salvabile dell’impero in Africa. A farsi avanti per riallacciare le file del dialogo fu il Segretario di Stato inglese Anthony Eden, supportato in ciò da Eisenhower che, comprendendo quanto l’atteggiamento di Dulles fosse stato controproducente, lasciò che fossero gli europei a trovare una soluzione che tenesse conto della sensibilità francese. L’idea fu quella di recuperare la formula del Patto di Bruxelles, stipulato nel Marzo 1948 ufficialmente in funzione anti-tedesca, ma che in realtà che guardava già all’URSS, inserendovi adesso anche la Repubblica Federale Tedesca e l’Italia. Bonn avrebbe contemporaneamente aderito a questo Patto di Bruxelles allargato e all’alleanza atlantica, mentre Londra avrebbe soddisfatto la richiesta francese di un suo maggior impegno continentale sottoscrivendo una dichiarazione con la quale si impegnava a non ritirare le sue truppe dalla Germania occidentale senza il consenso del Comando Supremo Alleato. Per salvare le apparenze dell’europeismo si decise che il tutto non sarebbe stato un mero allargamento dell’alleanza già esistente, ma si sarebbe creata una nuova organizzazione chiamata Unione europea occidentale (UEO) dotata di un esercito comune e diretta da un Consiglio composto dai rappresentanti dei governi (più un parlamento con funzione consultiva ed eletto in via indiretta). I lavori procedettero in maniera spedita e già in un incontro a Parigi del 20-23 Ottobre ’54 si giunse alla stipula del testo definitivo del trattato istitutivo della UEO, il cui processo di ratifica si concluse stavolta senza problemi il 5 Maggio 1955 consentendo così il riarmo tedesco e l’adesione della BRD al Patto Atlantico tre giorni dopo. Restava a questo punto solo da sciogliere il nodo della Saar, nonostante il venir meno della CED la Francia tentò comunque di conservare la formula di una sua internazionalizzazione come “territorio europeo”, ma ovviamente Bonn, cambiato il contesto, non era più favorevole a tale formula. Si decise così di lasciare che fossero gli stessi cittadini del territorio a scegliere del loro destino tramite un referendum che si tenne il 23 Ottobre 1955. La proposta dell’internazionalizzazione venne bocciata con il 67% di voti contrari. A questo punto Parigi valutò che continuare a tirare la corta avrebbe solo comportato il protrarsi di un motivo di conflitto con la BRD anacronistico visto il nuovo contesto europeo; così l’anno dopo, con la stipula del tratto di Lussemburgo, si accordò la riunificazione della Saar con la Repubblica Federale dietro una serie di garanzie a favore della Francia in materia di forniture di carbone e canalizzazione della Mosella. Con l’adesione della Germania federale all’alleanza atlantica il blocco occidentale veniva a trovare la sua forma definitiva, ciò avrà come conseguenza immediata la militarizzazione a sua volta del blocco orientale, cosa che però vedremo non andrà ad intaccare il nuovo corso dei rapporti internazionali aperto dal cambio di leadership tanto a Washington quanto a Mosca.
5. Le nuove prospettive geopolitiche della Presidenza Eisenhower
Il 4 Novembre 1952 dopo vent’anni di presidenza democratica, il Partito Repubblicano riconquistò la Casa Bianca con Dwight Eisenhower che ottenne una vittoria schiacciante sull’avversario Adlai Stevenson (55% di voto popolare e 442 grandi elettori). La vittoria del GOP era nell’aria a fronte di un Partito democratico fortemente screditato sia per la politica interna che per quella estera: nel paese infatti si era nel pieno dell’isteria dovuta alla paura rossa scatenata dalle dichiarazioni del Senatore Joseph McCarthy in merito ad agenti comunisti infiltrati nei più alti ranghi del governo, mentre generalmente criticata era la gestione della guerra di Corea e la decisione da parte di Truman di sollevare MacArthur dal comando. Eisenhower era stato esortato a farsi avanti, mettendo sul piatto il suo indiscusso prestigio, al fine di evitare che il candidato repubblicano fosse il senatore Robert A. Taft esponente di quell’ala del partito, in modo molto semplicistico detta isolazionista, che voleva un ritorno ad una politica estera più in linea con la storia americana e dunque ripensare il contenimento su scala globale di Truman in favore di un focus più centrato sul continente americano, evitando alleanze vincolanti in tempo di pace e riducendo le enormi spese militari che, a loro parere, avrebbero portato a una deriva prussiana degli Stati Uniti con pericolo per le libertà dei cittadini. Si veniva dunque a saldare un’alleanza all’interno del partito tra la componente internazionalista della costa orientale, critica verso il contenimento trumaniano perché considerato troppo passivo e eurocentrico, e quella dell’anti-comunismo viscerale, che aveva in McCarthy il suo uomo di facciata facendo però in realtà riferimento al direttore dell’FBI J. Edgar Hoover, a Richard Nixon (che divenne Vice-Presidente) e al magnate della stampa Henry Luce. Proprio su una delle riviste dell’impero di Luce apparve il 19 Maggio 1952 il più duro attacco alla strategia del contenimento di Truman a firma di John Foster Dulles, che di lì a un paio di mesi sarebbe divenuto il nuovo Segretario di Stato. Dulles, definendo l’approccio di Truman come “negativo, futile e immorale” perché aveva abbandonato “innumerevoli esseri umani al dispotismo”, proponeva una “politica di audacia” che sarebbe stata definita come roll back (spingere indietro). La tesi era che nel confronto con l’Unione Sovietica non ci si poteva accontentare di tenere la posizione ed evitare l’ulteriore espansione della sfera d’influenza del Cremlino, ma si doveva invece passare al contrattacco per liberare i popoli oppressi dal giogo comunista. Ovviamente il roll back era un mero artifizio elettorale buono a fini retorici, ma intraducibile in politica estera senza mettere in preventivo un confronto armato coi sovietici, che non avrebbero permesso alcun arretramento ai confini della loro sfera di sicurezza. All’atto pratico l’approccio della nuova amministrazione fu diretto non tanto a rinnegare il contenimento, che come abbiamo visto e vedremo con riferimento all’estremo oriente fu tutt’alto che una linea di condotta debole e passiva, quanto piuttosto a ricalibrarlo e magari superarlo. Ciò avvenne per mezzo del progetto Solarium, dal nome della stanza della Casa Bianca nel quale si tennero le prime riunioni, un gruppo di studio che da Maggio ad Ottobre del 1953 lavorò alle nuove linee della politica estera americana, infine raccolte nella risoluzione NSC-162/2 e indicate con la definizione di dottrina del New Look. Si partiva dalle medesime premesse della NSC-68 in merito all’esame della natura intima dell’Unione Sovietica e della minaccia che essa rappresentava per la società americana, ma lì dove il documento elaborato dal gruppo di Nitze metteva l’accento sull’aumento alla spesa militare, il New Look aveva il focus sull’espansione dell’arsenale nucleare proprio al fine di contenere i costi del contenimento. Sebbene infatti Eisenhower fosse stato candidato in contrapposizione alla corrente di Taft, l’ex comandante in capo alleato condivideva con questi la preoccupazione dell’effetto corruttivo sulle istituzione democratiche che poteva avere la crescente influenza di quello che lui stesso avrebbe definito come il complesso militare-industriale. Per contrastare ciò, invece del costante aumento del budget della difesa, si doveva puntare, come spiegò lo stesso presidente in un discorso al Council on Foreign Relatons del 12 Gennaio 1954, a sfruttare il vantaggio tecnologico degli Stati Uniti per massimizzare l’armamento atomico così da rendere edotti i sovietici che ogni forma di aggressione avrebbe avuto come risposta una massiccia rappresaglia nucleare (massive retaliation). Anche questa però era una falsa dottrina perché se certamente funzionale in ambito interno agli Stati Uniti e alla NATO a dimostrare la perduranza dell’impegno americano nel contenimento pur a fronte di un minor investimento nelle forze convenzionali, non era opponibile a Mosca in un contesto di sempre più serrata competizione nucleare tra le due superpotenze. Sebbene infatti gli americani conservassero un certo vantaggio, già nel 1952 furono in grado di far detonare una prima bomba all’idrogeno da 10 megatoni a fronte dei sovietici che solo nel 1955 con Sakharov acquisiranno un ordigno termonucleare stabile di soli però 1,6 megatoni, il distacco si andava via via sempre più assottigliando e di lì a breve Mosca avrebbe conseguito un momentaneo primato in fatto di razzi vettori a medio e lungo raggio. A meno che dunque gli Stati Uniti non fossero stati in grado di portare a compimento un first strike nucleare di efficacia tale da ridurre l’avversario nell’impotenza di reagire, qualsiasi ipotesi di rappresaglia massiccia avrebbe avuto per risposta una controrappresaglia con conseguente mutua distruzione assicurata. Il New Look non era però solo espansione dell’armamento nucleare, grande rilievo veniva anche dato al contributo che gli alleati degli Stati Uniti dovevano dare al contenimento su scala globale. In Europa, oltre all’allargamento del perimetro anti-sovietico all’area mediterranea di cui si è già detto, Washington iniziò a chiedere agli aderenti alla NATO un maggior contributo di uomini e mezzi per controbilanciare la contestuale riduzione della presenza di truppe americane sul continente. Nel resto del mondo Dulles fu l’artefice della creazione di una serie di alleanze, la SEATO in Asia, il patto di Baghdad in Medio Oriente e l’ANZUS per il Sud-Pacifico, che fungendo da estensione e completamento della NATO creavano un nuovo cordone sanitario intorno al blocco sovietico per impedirne un’ulteriore espansione. Ancora ulteriore elemento del nuovo approccio americano, sempre in una logica di contenimento della spesa militare, fu l’uso sempre più massiccio delle operazioni clandestine per mezzo delle agenzie d’intelligence sia al fine di rafforzare le forze anticomuniste nei paesi alleati, sia per orientare in senso filo-occidentale quei paesi che o erano ancora neutrali o erano sospettati di avere simpatie per il modello sovietico. In prima linea su questo fronte occulto si pose la Central Intelligence Agency (CIA) alla guida della quale proprio nel 1953 giunse Allen Dulles, fratello del Segretario di Stato John Foster Dulles, sostenitore appunto di un uso dei servizi segreti non solo per raccogliere informazioni, ma anche per interventi diretti negli affari interni sia dei paesi stranieri (alleati o non) sia degli stessi Stati Uniti. La CIA era stata fondata nel 1947 sulle ceneri dell’Office of Strategic Services (OSS), creato nel 1942 allorché ci si rese conto che gli Stati Uniti erano entrati in guerra senza avere un servizio di intelligence in grado di operare su scala mondiale come lo MI6 britannico o l’NKVD sovietico. Dopo la resa del Giappone l’OSS venne smantellato e le sue competenze spartite tra Dipartimento di Stato e Dipartimento della Guerra, ma nel 1947, nonostante la forte resistenza di militari ed FBI che non gradivano la creazione di un’agenzia di intelligence da loro autonoma, il Presidente Truman firmò il National Security Act con il quale nacque appunto la Central Intelligence Agency. Già due anni dopo il Central Intelligence Agency Act permetteva all’Agenzia di dotarsi di fondi segreti e la esonerava dal dover rivelare “l’organizzazione, le funzioni, i funzionari, le cariche, i salari e il numero di personale impiegato“. Va comunque specificato che la CIA non fu l’unico attore che gli Stati Uniti misero in campo nella guerra di spie con Mosca; essa faceva, e fa ancora oggi, parte della United States Intelligence Community, composta da diciassette agenzie federali tra cui anche i servizi d’intelligence delle varie forze armate (esercito, marina, aeronautica, marine), l’NSA-National Security Agency (per la crittografia e la raccolta di comunicazione in codice) e l’FBI (controspionaggio e sicurezza interna). L’aspetto più importante di tale nuovo approccio all’uso dei servizi segreti è che esso testimonia una progressiva radicalizzazione della visione del mondo da parte degli Stati Uniti: nel contesto del confronto con l’Unione Sovietica non è ammesso nessun deviazionismo tra i propri alleati, mentre la neutralità dei paesi terzi è guardata con sospetto, e basta poco per trasformare questo sospetto in certezza di una complicità con il nemico che legittimi soluzioni radicali nonché via via sempre più spregiudicate. Questi dunque gli elementi fondamentali dell’approccio che la nuova amministrazione americana intendeva dare alla politica estera di Washington, un approccio che però all’atto pratico mostrò rapidamente tutte le sue pecche. Scommettere tutta la credibilità dell’impegno americano sul principio della rappresaglia massiccia, in un contesto di corsa agli armamenti atomici, spingeva tanto l’avversario che gli alleati a chiedersi quanto gli Stati Uniti fossero realisticamente pronti a spingersi fino al punto di non ritorno. Inoltre la speranza di Eisenhower che investire sull’espansione dell’arsenale nucleare avrebbe portato a un contenimento delle spese militari andò delusa, infatti tra il 1954 e il 1961 il budget della difesa si attestò intorno al 9-10% del PIL cioè il doppio rispetto al 1950. Tali evidenze contribuiranno a spingere Eisenhower e Dullss, pur senza rinnegare il New Look, a verificare la possibilità di riallacciare una forma di dialogo con Mosca allorché la nuova dirigenza sovietica si mostrerà disponibile a trovare dei compromessi nella logica di una coesistenza a lungo termine dei due blocchi.
6. La morte di Stalin e la politica estera della direzione collegiale: l’avvio della distensione con l’occidente
Nella notte tra il 28 Febbraio e il 1° Marzo 1953 Stalin ebbe un ictus nella sua residenza di Kuncevo fuori Mosca, il ritardo nei primi soccorsi rese sin da subito la situazione molto grave e, nonostante un apparente miglioramento, il Segretario Generale morì all’alba del 5. L’ultimo periodo del suo governo era stato caratterizzato da una recrudescenza delle purghe interne al partito nelle quali rimase coinvolto anche Molotov che, dopo aver assistito impotente all’arresto della moglie con l’accusa di tradimento, venne rimosso da Ministro degli esteri e degradato a mero componente del Presidium del Soviet Supremo senza alcun ruolo di rilievo. L’alta dirigenza sovietica rimase spiazzata dal venir meno del direttore d’orchestra che per trent’anni aveva guidato il paese e si ergeva come il faro del movimento comunista internazionale; non esisteva un successore designato anche perché un titolo del genere, nel contesto della paranoia ormai a livelli parossistici del grande capo (basti vedere la farsa del complotto dei medici), voleva dire attirarsi una perenne spada di Damocle sulla testa. Per questo motivo nell’immediato le varie fazioni del Cremlino optarono per una spartizioni dei poteri tramite la formula della direzione collegiale, nel mentre si sarebbero affilate le lame in vista della resa dei conti. Da una parte vi erano Georgij Malenkov, con la carica di Presidente del Consiglio, e Berija, vice-primo ministro e Ministro degli interni, convinti stalinisti, ma allo stesso tempo favorevoli a una netta sterzata sia in materia di economia che di politica estera. All’estremo opposto si poneva Molotov, riabilitato e richiamato come Ministro degli esteri nonché a sua volta vice-primo ministro, il quale guidava la componente conservatrice fedele alla linea tracciata dal defunto Segretario Generale. In mezzo si ponevano Nikita Chruscev, nuovo Segretario Generale del partito sebbene non molto conosciuto al di fuori dell’Unione Sovietica, Michail Suslov e i vertici delle forze armate rappresentati dal Maresciallo Nikolaj Bulganin, Ministro della difesa e altro vice-primo ministro, e dal Maresciallo Zukov, come vice proprio di Bulganin, tutti favorevoli (tranne Suslov che si aggregò perché inviso a Malenkov) a un superamento graduale dello stalinismo. Nei rapporti con l’occidente questa divisione implicava che Malenkov e Berija erano a favore di una riapertura del dialogo, per reindirizzare risorse dall’industria pesante a quella leggere e all’agricoltura, con rinuncia al dogma della inevitabilità dello scontro tra potenze capitaliste e paesi del socialismo reale, Molotov invece era per continuare con la contrapposizione netta, mentre Chruscev e il suo gruppo puntavano a una distensione dei rapporti, senza però spingersi a fare concessioni effettive che portassero l’Unione Sovietica a indietreggiare rispetto le posizioni acquisite su scala mondiale. Nell’immediato si ebbe un’alleanza tattica tra Malenkov e Chruscev diretta a mandare segnali di disponibilità al campo avverso e contemporaneamente, preso atto che la situazione europea si andava cristallizzando, guardare con maggior interesse al resto del globo, dove la decolonizzazione stava aprendo prospettive geopolitiche completamente nuove. La prima manifestazione di questo nuovo atteggiamento la si ebbe già poche settimane dopo la morte di Stalin quando Malenkov, superando il dogma staliniano della inevitabilità del conflitto tra potenze capitaliste e paesi del socialismo reale, affermò “Attualmente non esistono questioni controverse o in sospeso che non possono essere risolte con metodi pacifici sulla base di accordi reciproci dei paesi interessati. Questo riguarda i nostri rapporti con tutti gli stati, compresi gli Stati Uniti.”. A Giugno dal Cremlino giunse l’indicazione a cinesi e nord coreani di riprendere con spirito propositivo i negoziati di Panmunjon per un armistizio in Corea, mentre ad Agosto l’Unione Sovietica rinunciò ufficialmente a ogni rivendicazione territoriale sulla Turchia e riaprì le relazioni diplomatiche con Grecia e, soprattutto, Jugoslavia. Il passo più significativo si ebbe però nel Gennaio 1954 quando, a margine di una pur inconcludente conferenza delle quattro potenze occupanti della Germania, Molotov propose la convocazione di una conferenza a cinque (Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia, Regno Unito e Repubblica Popolare Cinese) al fine di affrontare tutte le questioni aperte tra i due blocchi in una prospettiva di distensione della tensione internazionale. Non va comunque dimenticato che la politica estera era una componente della lotta per il potere in atto nel paese e dunque così come ogni successo era utile a rafforzare la posizione dei suoi promotori, le sconfitte erano l’occasione per sfrondare i rami dell’albero. Il primo a restare con il cerino in mano fu Berija, troppo odiato e temuto per il suo ruolo di capo del NKVD, che pagò l’aver spinto per un allentamento della sovietizzazione della Repubblica Democratica Tedesca, cosa che avrebbe portato come vedremo all’esplodere della rivolta di Berlino del Giugno ’53. Chruscev e l’esercito colsero la palla al balzo per coalizzargli il partito contro e così il 10 Luglio la Pravda diede notizia del suo arresto con l’accusa di essere un agente al servizio dell’occidente, non si è mai stabilito con certezza se venne effettivamente giustiziato a Dicembre come ufficialmente dichiarato o se la sua morte avvenne nelle ore immediatamente successive alla sua cattura.
La reazione dell’occidente agli approcci dei sovietici furono ambivalenti. Eisenhower, di fronte all’apertura di Malenkov, avrebbe voluto pronunciare un discorso di pace, ma ci volle più di un mese perché si arrivasse ad un testo condiviso il quale, pur affermando che la morte di Stalin apriva nuove prospettive nel rapporto con i sovietici, era necessario che Mosca facesse seguire alle parole i fatti (pace in Corea, quiescenza sulla CED, risoluzione del nodo austriaco e libere elezioni nell’Europa orientale). Tale lunga elaborazione, nonché la lista delle condizioni poste ai sovietici, mostra come a Washington solo il Presidente era favorevole ad un’apertura immediata di credito al Cremlino, mentre il resto dell’amministrazione era più vicina alla posizione del Segretario di Stato. Dulles infatti, pur non essendo pregiudizialmente contrario a negoziati con i sovietici, temeva che questi potessero dar luogo a divisioni nel fronte atlantico proprio nel momento più delicato dei colloqui della CED. Essendo per lui priorità assoluta l’integrazione della Repubblica Federale nella NATO era disposto a mettere a rischio tale risultato solo a fronte di un chiaro e manifesto cambiamento di atteggiamento da parte di Mosca, cambiamento che non poteva essere testimoniato da mere dichiarazioni di principio da parte della nuova dirigenza. In mancanza di una chiara svolta nei comportamenti era invece necessario mantenere viva la pressione, con il fine di provocare questa svolta in un gruppo di persone prive del prestigio e dell’autorità di Stalin. Di diverso avviso i partner europei ed in primis Churchill che, da quando era tornato al governo nell’Ottobre del ’51, si era fatto principale promotore di una ripresa dei negoziati con i sovietici. Dieci anni di guerra fredda avevano convinto il leader conservatore che un contenimento sine die, in attesa dell’autodistruzione del sistema sovietico, non fosse sostenibile sul lungo periodo per le democrazie; l’opinione pubblica occidentale non poteva accettare i sacrifici che tale sistema internazionale richiedeva senza un programma per uscirne diverso dalla mera attesa. Per questo Churchill, rifacendosi alla storia diplomatica britannica, puntava a negoziati che creassero un nuovo equilibrio internazionale basato sulla reciproca coesistenza. L’anziano statista non ebbe mai modi di specificare i caratteri del suo progetto, ma è probabile che avesse gli stessi contorni di quello elaborato nello stesso periodo da George Kennan, altro deluso dallo stallo gravido di tensione che il contenimento aveva prodotto, e dunque: Germania unificata e neutrale con limite dell’alleanza atlantica alla frontiera franco-tedesca in cambio del ritiro delle forze sovietiche alla frontiera russo-polacca e finlandizzazione dei paesi dell’Europa orientale. Il Dipartimento di Stato americano, per il quale negoziati ai massimi livelli del tipo proposto da Churchill rappresentavano una pericolosa concessione a Mosca, ripose con malcelato fastidio alle insistenze del Premier inglese. Neanche Dulles però poteva ininterrottamente sottrarsi all’ipotesi di un dialogo, soprattutto se questo riguardava l’Estremo Oriente dove gli Stati Uniti erano impegnati nel groviglio coreano e gli europei premevano perché si trovasse una via d’uscita dal conflitto in Indocina. Per questo, pur contro voglia, il Segretario di Stato americano accettò la proposta di Molotov per una conferenza che discutesse le principali questioni internazionali nella formula di compromesso di un negoziato di pace sui due conflitti di Corea ed Indocina, in modo che gli Stati Uniti potessero dialogare con i rappresentati cinesi senza passare per il riconoscimento della Repubblica Popolare di Pechino. I lavori si aprirono a Ginevra il 26 Aprile ’54 e, se si conclusero in un nulla di fatto per quanto riguarda un trattato di pace per la Corea, a Luglio venne raggiunto un accordo per l’Indocina. Così un po’ tutti poterono tronare a casa soddisfatti: i cinesi avevano ottenuto un implicito riconoscimento internazionale, i francesi si disimpegnavano dal Sud-Est Asiatico senza essere umiliati, sovietici ed inglesi potevano rivendicare il loro ruolo di mediatori mentre gli americani, restando tendenzialmente ai margini, potevano affermare di non aver fatto concessioni preparandosi a sostituirsi a Parigi in Indocina. La conferenza di Ginevra fu carburante nel motore della distensione perché a margine dei negoziati sull’Asia, sovietici e alleati occidentali riaprirono il discorso del trattato di pace con l’Austria, altro tema rimasto in sospeso dopo la fine della guerra mondiale, sulla base di una neutralità permanente di Vienna. Il 15 Maggio del 1955, dopo che il Cremlino ebbe fatto cadere la precondizione di legare la soluzione della vicenda austriaca a quella tedesca, venne concluso il trattato di Stato austriaco che portò ad Ottobre al ritiro delle forze d’occupazione dal paese. Per la prima volta dal 1945 le quattro potenze che avevano sconfitto il Terzo Reich trovavano un accordo su una grande questione internazionale; sebbene si potesse discutere su quale parte avesse guadagnato di più dal trattato sull’Austria, si trattava comunque di un segnale di buon volontà propedeutico ad ulteriori negoziati dello stesso tipo. Persino Dulles per la prima volta si mostrò possibilità e affermò che il cambio di leadership al Cremlino poteva aprire la strada a un ritorno alla “tradizionale amicizia” tra Unione Sovietica e Stati Uniti. Incoraggiante era anche il fatto che negli stessi giorni in cui si concludeva il trattato di Stato austriaco, si giungeva anche alla definizione dell’adesione della Repubblica Federale alla NATO e per conseguenza alla formazione del Patto di Varsavia, senza che questi eventi andassero ad incidere in alcun modo sui rapporti tra le grandi potenze. A provare a cavalcare il momento furono gli inglesi con Eden che avanzò di nuovo l’idea di un vertice internazionale, sulla falasa riga di quelli del tempo della guerra mondiale, dei leader di Francia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione Sovietica per discutere della questione tedesca e di un rallentamento della corsa agli armamenti nucleari. Di nuovo fu Ginevra la sede scelta per questo vertice ai massimi livelli che si aprì il 18 Luglio e proseguì fino al 21 con la partecipazione di Eisenhower e Dulles per gli americani, Eden e Macmillan per gli inglesi, Faure e Pinay per i francesi e Bulganin, Molotov e Chruscev per i sovietici. L’agenda concordata riguardava quattro temi: questione tedesca, sicurezza europea, disarmo e relazione tra i due blocchi. Eden presentò il progetto inglese per una riunificazione della Germania a seguito di libere elezione, ma previa stipula di una serie di garanzie reciproche tra i quattro paesi per prevenire una rinascita del militarismo tedesco. I sovietici replicarono ribadendo la loro idea di una zona neutrale e demilitarizzata al centro dell’Europa che si interponesse tra i due blocchi e consentisse un ritiro tanto dei russi quanto degli americani dal cuore del continente. Eisenhower illustrò invece un progetto che gli era molto caro e cioè quello degli Open Skies, per consentire a tutti i paesi libere ispezioni aeree reciproche al fine di controllare lo sviluppo degli armamenti nucleari. Infine i francesi avanzarono la proposta per la creazione di un “fondo di sviluppo” internazionale correlato all’idea di rendere pubblici i livelli degli armamenti e delle spese militari delle quattro potenze. Da un punto di vista dei risultati il vertici fu inconcludente in quanto le parti si lasciarono concordando di essere in disaccordo su tutto, ma diversamente dal passato non ci fu alcune rottura con reciproco scambio di accuse. Tanto i sovietici quanto gli americani convennero tacitamente di non essere pronti a fare concessioni su alcuna questione, ma accettavano vicendevolmente lo status quo europeo sulla base del principio che ognuno non avrebbe interferito nella sfera d’influenza dell’altro. L’importanza del vertice di Ginevra non fu dunque tanto in ciò che venne discusso, ma nel modo in cui si discusse: toni civili e impegno a incontrarsi nuovamente per continuare con il dialogo tra le due parti. Si inaugurava così la prassi dei periodici vertici tra i leader dei due blocchi per discutere delle principali questioni internazionali allo scopo di mantenere entro una soglia di guardia il reciproco dissenso. A Dicembre ulteriore segnale della distensione nella relazione tra i due blocchi fu il superamento dei veti incrociati che dal 1945 avevano bloccato l’ingresso alle Nazioni Unite di una serie paesi: in una sola volta ne vennero ammessi sedici tra cui l’Italia, la Spagna, il Portogallo la Romania, l’Albania, l’Ungheria e la Bulgaria. Sembrava davvero che vi fosse un nuovo clima nei rapporti internazionali basato non più sull’attrito del decennio precedente, ma sulla coesistenza nel lungo termine. Ciò di cui però l’occidente non si avvide subito era che, proprio nel periodo in cui si decideva di guardare con ottimismo alle aperture sovietiche, la situazione politica a Mosca si era ulteriormente evoluta in un modo che avrebbe enormemente inciso sulla forma che avrebbe assunto questa coesistenza tra i blocchi. Nell’autunno-inverno del ’54 Malenkov veniva de facto esautorato e l’8 Febbraio ’55 privato di ogni incarico per finire, da lì a un paio di anni, espulso dal partito e rilegato ad un anonimo incarico amministrativo in Kazakistan. La lotta per la successione di Stalin si concludeva con la vittoria di Chruscev che insieme con Bulganin, nuovo Presidente del Consiglio, metteva fine alla fase della direzione collegiale in favore di un nuovo accentramento del potere in un’unica leadership. Come già detto il nuovo duo al comando era favorevole a una “distensione nella forma” cioè sì a un cambiamento dei toni nei rapporti con l’occidente, ma no a qualsiasi concessione che facesse arretrare l’Unione Sovietica dalle posizioni conquistate a seguito della guerra mondiale. Si apriva così una nuova fase della politica estera sovietica incentrata su un intenso attivismo per attrarre a se amici vecchi e nuovi; lì dove Stalin raramente aveva lasciato il paese, Chruscev e Bulganin si dedicarono sin da subito a una serie di viaggi diplomatici in tutto il globo. Già a Settembre del ’54 i due si erano recati in Cina per ravvivare i negoziati con quello che, formalmente, era il più importante alleato di Mosca nel mondo comunista. Nei fatti, come vedremo quando esamineremo la situazione asiatica, nonostante l’alleanza stipulata tra Stalin e Mao nel ’50 tra i due paesi vi erano antiche ruggini che neanche la nuova comune fede marxista era in grado di dissipare. Per intanto però il fermo rifiuto degli Statio Uniti di riconoscere il nuovo regime di Pechino lasciava Mao senza sponde alternative, obbligandolo a cercare di mercanteggiare il miglior accordo con Mosca. L’accordo stipulato il 12 Ottobre 1954 impegnava l’Unione Sovietica a concedere nuovi prestiti a Pechino, sgombrare Port Arthur (Lushunkou) e il distretto di Dalian, fornire assistenza scientifica alla ricerca nucleare cinese e ridurre il suo ruolo all’interno delle compagnie minerarie miste dello Xinjiang. Allo stesso tempo però Chruscev fu categorico sul fatto che i cinesi avrebbero dovuto pagare ogni fornitura di servizi, merci ed equipaggiamento militare sovietico. Altro viaggio, questo sì con una grande valenza sia simbolica che effettiva, venne compiuto il 26 Maggio ’55 allorché Chruscev, Bulganin e il vicepresidente del Consiglio Mikojan si recavano a Belgrado per fare pubblica ammenda della scomunica inflitta nel 1948 da Stalin a Tito. L’obiettivo era quello di ricondurre la Jugoslavia all’ovile accettandone l’autonomia da Mosca sulla base del principio, del tutto nuovo nell’universo comunista, che potevano esistere “diverse forme di sviluppo socialista” anche diverse dal modello sovietico. Apparentemente Tito sembrava accogliere tale invito, assicurando la fedeltà marxista-leninista dei comunisti jugoslavi e affermando che mai Belgrado si sarebbe schierata contro l’Unione Sovietica. Nella realtà però l’astuto Maresciallo non intendeva recidere i proficui legami intessuti con l’occidente e così, pur facendo un passo indietro rispetto all’inserimento della Jugoslavia nella cornice mediterranea della NATO, si apprestò a giocare una spregiudicata partita di equilibrismo tra i due blocchi per riscuotere da entrambi in cambio del suo non pendere troppo a favore né dell’uno, né dell’altro. Infine negli ultimi mesi sempre del 1955 ci fu un tour in Asia meridionale che portò Chruscev e Bulganin in India, Burma e Afghanistan. La mossa però più inaspettata della nuova leadership di Mosca fu l’invito rivolto nel Giugno ’55 ad Adenauer per recarsi a Mosca. Il Cancelliere della BRD rimase per tre mesi incerto sul da farsi, accettare voleva dire rinnegare la dottrina Hallstein, in base alla quale Bonn rifiutava rapporti diplomatici con qualsiasi paese che riconosceva la DDR, ma allo stesso tempo l’Unione Sovietica non era un interlocutore come gli altri. Infine, a fronte della conclusione positiva del vertice ginevrino e dell’assenso giuntogli dai governi alleali, la visita ebbe luogo tra l’8 e il 13 Settembre di quell’anno. I sovietici puntavano all’apertura di un negoziato diretto tra le due germanie come premessa per la riunificazione, mentre Adenauer era disposto solo a specificare le garanzie che una Germania unificata avrebbe dato a Mosca e voleva discutere la questione dei prigionieri di guerra tedeschi ancora detenuti in Unione Sovietica. L’accordo infine raggiunto fu che si sarebbero avviate regolari relazioni diplomatiche tra Mosca e Bonn quale condizione per il rimpatrio dei prigionieri di guerra; sebbene la dottrina Hallstein veniva così palesemente contraddetta Adenauer poteva giustificare la deroga in forza dello specifico ruolo internazionale dell’Unione Sovietica, rivendicando inoltre il risultato di aver riaperto la questione dei prigionieri di guerra e aver dato prova della libertà d’azione di Bonn rispetto agli altri governi occidentali.
7. I primi accenni della destalinizzazione e la formazione del Patto di Varsavia
L’improvvisa morte di Stalin non segnò solo il momento per un cambio di passo nei rapporti dell’Unione Sovietica con il blocco occidentale, ma anche per i rapporti tra Mosca e i suoi satelliti nell’Europa Orientale. Abbiamo visto nel precedente capitolo come, a seguito della nascita del COMINFORM, tutte le dirigenze comuniste est europee, incarnate da uomini di sicura fede staliniana, si erano impegnate in un’opera di sovietizzazione dei loro paesi che si traduceva: sul piano socio-politico nell’istaurazione di un regime dominato dal locale Partito Comunista, spesso dietro la facciata di un pluralismo incarnato dai Fronti Popolari, mentre su quello economico dall’adozione del sistema dei piani quinquennali e della collettivizzazione forzata. Le popolazioni locali recepivano però queste politiche, in particolare quelle economiche, in modo molto sfavorevole e per questo indistintamente Malenkov, Berija e Chruscev furono sin da subito convinti nella necessità di imporre un cambio di rotta prima che il malessere potesse prorompere in contestazione aperta. L’idea era che, pur preservando quei regimi la cui esistenza era la miglior garanzia della tenuta della sfera di influenza sovietica, bisognasse spingere ad un rallentamento della sovietizzazione dell’economia, accompagnato da una svolta sul piano politico rappresentato dalla fine della commistione dei ruoli di capo del governo e capo del partito. A fare da esempio per tutti gli altri fu l’Ungheria. Appena tre mesi dopo la morte di Stalin una delegazione ungherese guidata da Rakosi e Erno Gero, plenipotenziario per le questioni economiche a Budapest, si recò a Mosca e qui il leader dei comunisti ungheresi ricevette una dura lavata di capo da parte della nuova direzione collegiale sovietica per il modo in cui governava il suo paese. Rakosi venne obbligato a rinunciare alla carica di capo del governo, restando primo segretario del partito, dovendo accettare obtorto collo che il ruolo di primo ministro fosse occupata da uno dei dirigenti comunisti a lui meno graditi: Imre Nagy. Nagy era un comunista di vecchia data che come tutti aveva qualche scheletro nell’armadio, riparato infatti negli anni venti in Unione Sovietica aveva accettato nel periodo della grandi purghe di lavorare come informatore del NKVD denunciando varie persone. Dopo la liberazione/occupazione dell’Ungheria da parte dell’Armata Rossa era rientrato da Budapest, dove aveva assunto l’incarico di Ministro dell’Agricoltura, occupandosi di liquidare il latifondo, ed in seguito era stato anche Ministro degli interni. Nel 1949 espresse però critiche al processo di collettivizzazione delle campagne e per questo venne progressivamente relegato a incarichi tecnici, ma non epurato perché godeva della protezione di Malenkov e Berija. La coabitazione al potere tra Nagy e Rakosi mostrò sin da subito di non poter funzionare: il nuovo primo ministro condannò apertamente al Politburo la precedente gestione di governo e promise riforme effettive, Rakosi da par suo non lesinò sforzi per ostacolare questo nuovo corso incoraggiando l’aperto boicottaggio dei provvedimenti del governo da parte dei funzionari del partito. Si andò avanti così fino alla primavera del 1955 quando la caduta di Malenkov privò Nagy del suo protettore a Mosca, approfittando del momento Rakosi lo accusò di “aver sottovalutato il ruolo del partito” e di essere un deviazionista di destra. Messo in minoranza Nagy non accettò di farsi da parte spontaneamente e così a Novembre venne espulso dal partito. Il suo periodo di governo aveva però fatto sorgere speranze nel popolo ungherese di un vero cambiamento, speranze che, frustrato dal ritorno allo stalinismo di Rakosi, rischiavano adesso di esplodere con violenza nel caso del giusto innesco. Nel resto dell’Europa Orientale l’esempio ungherese convinse le dirigenze locali ad adeguarsi alle nuove indicazioni di Mosca senza troppo clamore. Ciò fu particolarmente facile in Cecoslovacchia, dove Gottwald era morto solo pochi giorni dopo Stalin permettendo anche qui la fine della commistione degli incarichi: il ruolo di Presidente della Repubblica e Primo Ministro venne infatti assunto da Antonin Zapotocky mentre alla direzione del partito giunse Antonin Novotny, che divenne di fatto il nuovo uomo forte del paese. In un primo momento Novotny ritenne di poter limitare le riforme al campo della politica monetaria, ma lo spontaneo diffondersi di un’ondata di scioperi nel paese lo costrinse a promettere cambiamenti sostanziali. Nei fatti non si andò mai oltre le dichiarazioni di intenti e le discussioni pro forma, ma per il momento tanto bastò a calmare la popolazione. In Bulgaria lo staliniano Valko Cervenkov (anche lui sia segretario del partito che capo del governo) tentò in una prima fase di mantenere la sua posizione, limitandosi a fare pubbliche relazione con gesti come la riabilitazione di alcuni dirigenti giustiziati nel 1949 con l’accusa di titoismo. Nel 1954 dovette però rinunciare alla guida del partito che andò ad un altro staliniani, Todor Zivkov, il quale però, fiutando il nuovo clima, fu abile a riciclarsi come favorevole alle riforme e a coltivare ottimi rapporti con Mosca in attesa dell’occasione buona per mettere fine al duopolio in suo favore. Anche in Polonia gli eventi seguirono il medesimo percorso sin qui illustrato: nel 1954 Boleslaw Bierut, pur conservando la segreteria del partito, dovette rinunciare alla Presidenza del Consiglio e della Repubblica in favore dell’ex-socialista di sinistra Jozef Ctrankiewicz; ad Agosto venne poi concessa una vasta amnistia che portò fuori dal carcere tra gli altri l’ex segretario del partito comunista Wladislaw Gomulka, arrestato nel 1951 per deviazionismo di destra e nazionalismo.
Drammatici invece furono gli sviluppi nella Repubblica Democratica Tedesca. Abbiamo visto come qui il processo di sovietizzazione della società e dell’economia era iniziato solo a seguito della formazione della BRD e che comunque Stalin, fintanto che ritenne vi fosse spazio per conseguire il risultato di una Germania unita e neutrale, non autorizzò Ulbricht a provvedimenti radicali. Fu così che solo nel 1952 vennero avviati piani per la collettivizzazione dell’economia della Germania orientale, immediatamente accolti con grande sfavore dalla popolazione. Era inevitabile che i cittadini della DDR facessero il confronto tra la loro situazione e quella dei loro cugini occidentali, e non era difficile capire dove andava la loro preferenza considerato che, nonostante il costante rafforzamento dei controlli alla frontiera, 180.000 persone fuggirono ad Ovest nel 1952 e altre 120.000 fecero lo stesso nei primi quattro mesi del 1953. Questa costante emorragia, sintomo di una insoddisfazione generale in vari strati della società, generava grande preoccupazione Mosca. Berija in particolare riteneva che tutto fosse riconducibile alle politiche di Ulbricht: contadini e piccoli imprenditori temevano le conseguenze della collettivizzazione, i giovani non volevano essere arruolati nel nuovo esercito che si stava organizzando e più in generale vi era scarsità di beni alimentari e di consumo. Ricevendo rapporti che facevano temere la possibilità di disordini la nuova leadership del Cremlino, Berija in testa, invitò la dirigenza della DDR a sospendere a tempo indeterminato la sovietizzazione dell’economia ed anzi ad annunciare misure di liberalizzazione della stessa. Ulbricht, dopo aver atteso tanto per portare il “vero socialismo” in Germania, non aveva però intenzione di fermarsi e così, invece di seguire le indicazioni di Mosca, annunciò un piano per l’aumento dei livelli di produzione delle industrie (cioè più quote di lavoro per gli operai) a parità però di salario. La disobbedienza alle disposizioni della casa madre non era però contemplata nel blocco orientale, anche dopo la morte di Stalin, e così Ulbricht, Grotewohl e il responsabile ideologico del partito Fred Oelssner vennero convocati il 2 Giugno ’53 a Mosca (una settimana prima della convocazione degli ungheresi) per essere rimessi in linea: niente pompose celebrazioni del compleanno di Ulbricht, liberalizzazione della politica economica e annuncio della sospensione a tempo indeterminato della transazione della DDR al “vero socialismo”. L’11 Giugno la Neus Deutschland (il giornale della SED) pubblicò le scuse ufficiali del partito per i “gravi errori” commessi nell’ultimo periodo, annunciava la fine della collettivizzazione e la riabilitazione di alcuni prigionieri politici. Con incredibile miopia questo nuovo corso non venne accompagnato dal ritiro del provvedimento sulle nuove quote di lavoro e così la popolazione, incoraggiata dai recenti sviluppi, decise di provare a forzare la mano al governo per ottenere questo e altre concessioni. Il 16 Giugno quasi 500.000 lavoratori di oltre 600 imprese scesero in sciopero in 375 città della DDR tra cui Rostock, Cottbus, Magdeburgo, Dresda, Lipsia e Halle. Ben presto fra un milione e un milione e mezzo di tedeschi orientali stavano manifestando. Le dimostrazioni più grandi si ebbero però a Berlino Est, dove scesero in piazza centomila persone chiedendo il ritiro del governo; si trattava della più grande sfida a un governo della sfera d’influenza sovietica da che era finita la guerra. Il giorno dopo arrivò la risposta di Mosca: dopo che Ulbricht, il quale non si fidava della Volkspolizei per recuperare il controllo della città, chiese l’intervento della guarnigione sovietica, i T-34 iniziarono ad avanzare lungo le vie della capitale direzione i punti di maggior concentrazione dei dimostranti. Venne proclamata la legge marziale e quando iniziò il lancio di pietre contro le truppe sovietiche queste reagirono aprendo il fuoco, lasciando a terra almeno 125 persone. Nelle ore che seguirono oltre diecimila persone vennero arrestate e una quarantina di loro giustiziate. Ripreso il controllo di Berlino le forze sovietiche estesero la repressione al resto della DDR e per la fine di Giugno si poté dire che i disordini erano rientrati. Come già detto Berija venne ritenuto politicamente responsabile della situazione e i suoi avversari nel governo sovietico approfittarono della cosa per rimuoverlo. Invece Ulbricht, che con la sua decisione di non rimuovere le nuove quote di produzione aveva spinto la popolazione a scendere in piazza, paradossalmente rimase saldamente alla guida della DDR, dovendo soltanto accettare di confermare il rallentamento della sovietizzazione dell’economia in favore di un aumento della produzione di beni di consumo. Il blocco occidentale, a parte appelli e condanne, non prese mai in considerazione un intervento a favore dei dimostranti, che avrebbe comportato uno scontro aperto con le truppe sovietiche, e ciò dimostrava l’inconsistenza del roll-back solo fino a pochi mesi prima enunciato da Dulles. Gli eventi della Germania Orientale vennero più che altro usati in chiave propagandistica per ridicolizzare presso l’opinione pubblica occidentale il mito del “paradiso del proletariato” ad est ed allontanare gli elettori dai partiti comunisti; ovviamente le locali dirigenze comuniste si allinearono pedissequamente alla narrativa di Mosca, in base alla quale vi era stato un tentativo controrivoluzionario guidato da nostalgici del regime nazista. Sebbene si fosse andati a un passo dalla rivolta aperta per stavolta i sovietici erano riusciti a mantenere il controllo della situazione, ma era un chiaro segnale di cosa poteva succedere quando gli animi di una popolazione, già insoddisfatta per le politiche del proprio governo, venivano sovreccitati da uno stimolo esterno che legittimava l’aspettativa di un cambiamento radicale. La dirigenza sovietica non trasse però insegnamento da quanto successo, e tre anni dopo diede fuoco ad una miccia che avrebbe innescato nuovi e più gravi disordini.
È interessante come nello stesso momento in cui la nuova dirigenza del Cremlino agiva al fine di cambiare i rapporti con i paesi della sua sfera d’influenza nella direzione di concedere loro maggiore autonomia interna, veniva ad essere istituito quello che agli occhi dell’opinione pubblica fu il massimo strumento di controllo da parte di Mosca sui suoi satelliti: il cosiddetto Patto di Varsavia. La nascita dell’Alleanza Atlantica nel ’49 non aveva visto il contemporaneo organizzarsi nel campo sovietico di una identica struttura militare. Stalin infatti faceva affidamento esclusivamente sull’Armata Sovietica, non fidandosi degli eserciti che venivano riorganizzati nei paesi satelliti. A fronte però del completarsi dell’organizzazione del campo occidentale, con la nascita dell’Unione europea occidentale e l’ingresso della BRD nel Patto Atlantico, Mosca optò per una reazione che si limitasse a fotografare lo stato delle cose in Europa così da non ostacolare la nuova fase di distensione dei rapporti con la controparte. Il preavviso di quanto sarebbe successo lo si ebbe durante la Conferenza di Mosca del Novembre-Dicembre 1954, durante la quale i rappresentanti di Unione Sovietica, Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Ungheria e Repubblica Democratica Tedesca concordarono che in caso di entrata in vigore degli accordi di Parigi si sarebbero adottate le contromisure necessarie. Gli argomenti portati erano sempre gli stessi: tali accordi, aprendo la strada al riarmo della BRD e dunque al risorgere del militarismo tedesco, aumentavano i rischi di guerra mettendo in pericolo la sicurezza dei paesi amanti della pace. Il 6 Maggio 1955, il giorno dopo la ratifica degli accordi di Parigi, Mosca denunciò il trattato di alleanza ventennale anglo-sovietico stipulato nel 1942 e l’identico trattato stipulato con la Francia nel 1944. Pochi giorni dopo, tra l’11 e il 14 Maggio, si tenne a Mosca una nuova conferenza all’esito della quale l’Unione Sovietica i suoi satelliti europei stipularono il Trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza, in seguito noto appunto come il Patto di Varsavia dal nome della città dove ne vennero insediati gli organi direttivi. L’art. 4 del trattato definiva il casus foederis imponendo un obbligo di immediata assistenza se qualsiasi paese membro fosse stato aggredito, lì dove invece il Patto Atlantico (al fine di essere compatibile con le norme costituzionali di vari paesi membri) aveva previsto un impegno d’assistenza condizionato. Si stabilì inoltre la creazione di un comando unificato, il cui primo Comandante Supremo fu il Maresciallo Konev, sotto il quale porre una forza armata congiunta composta da truppe messe a disposizione da tutti i paesi dell’alleanza. Il trattato doveva avere una durata ventennale, rinnovabile alla scadenza automaticamente per altri trenta se non fosse stato esercitato il diritto di recesso, e all’art. 11 si statuiva come lo stesso sarebbe stato immediatamente considerato sciolto se in qualsiasi momento fosse stato stipulato un accordo per la creazione di un sistema generale di sicurezza europeo. Gli Stati Uniti e il resto del blocco occidentale accolsero la formazione del Patto di Varsavia giudicandolo sin da subito per ciò che era: un mettere in chiaro che come c’era ad Ovest un sistema di rapporti con al vertice Washington e che includeva la Repubblica Federale Tedesca, così ad Est c’era un analogo sistema diretto da Mosca e al quale partecipava la Repubblica Democratica Tedesca. In tal senso la mossa del Cremlino non era di aggressione, ma di stabilizzazione della situazione europea emersa alla fine di un decennio di confronto. I due schieramenti accettavano tacitamente i confini della propria area d’influenza, consapevoli che le vicende interne ai blocchi dovevano restare tali pena la certezza di uno scontro armato. La situazione europea si andava così definitivamente congelando in un equilibrio che nessuna delle due parti aveva interesse a incrinare; ciò imponeva ai due schieramenti di guardare al di fuori del vecchio continente per cercare terreni di gioco dove guadagnare posizioni per espandere la loro influenza.
Bibliografia:
- Ennio di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali
- Robert Service, Compagni – Storia globale del comunismo nel XX secolo
- Mario Del Pero, Libertà e impero – Gli Stati Uniti e il mondo: 1776 – 2016
- Carlo Pinzani, Il bambino e l’acqua sporca – La guerra fredda rivisitata
- Anne Applebaum, La cortina di ferro – La disfatta dell’Europa dell’Est 1944 – 1956
- Henry Kissinger, L’arte della diplomazia
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