Indice: 1. La situazione asiatica alla resa del Giappone – 2. La nascita della Repubblica Popolare Cinese e il mito della perdita della Cina – 3. Il crepuscolo degli imperi coloniali in Asia – 4. La Francia e la rivolta vietnamita – 5. La guerra in Corea – 6. La conferenza di Ginevra e il congelamento delle crisi coreana e indocinese – 7. Il containment in Asia: il sistema di San Francisco e la prima crisi dello stretto di Formosa
1. La situazione asiatica alla resa del Giappone
Il 9 Agosto 1945, tre giorno dopo il risplendere del solo atomico su Hiroshima, l’Unione Sovietica, stracciato il patto di non aggressione siglato coi giapponesi nel 1941, apriva le ostilità con Tokyo. I vertici nipponici fecero appena in tempo ad iniziare a discutere della nuova situazione militare che si stava venendo a creare, quanto giunse la notizia che gli americani avevano sganciato un secondo ordigno nucleare su Nagasaki. Di fronte a questi sviluppi l’Imperatore Hirohito ruppe finalmente gli indugi e impose la sua autorità sui militari, i quali ancora vagheggiavano di resistenza fino all’ultimo uomo, ordinando che fossero avviate le trattative per giungere alla capitolazione del paese. Nelle more di questi negoziati i sovietici diedero sfoggio della loro potenza militare travolgendo l’Armata del Kwantung, fino ad allora considerata la più formidabile forza bellica nipponica, dilagando in Manciuria, invadendo la parte meridionale delle isola di Sachalin e affacciandosi nella penisola coreana. Il 15 Agosto i giapponesi udirono per la prima volta alla radio la voce del loro Imperatore che annunciava la resa incondizionata dell’Impero, il giorno dopo i sovietici, rispettando gli accordi frettolosamente negoziati dai due rappresentanti americani Dean Rusk (futuro Segretario di Stato sotto Kennedy) e Charles H. Bonesteel, fermarono la loro avanzata in Corea lungo il confine del 38° parallelo. Durante le varie conferenze tenute dalla coalizione anti-Asse per discutere l’assetto mondiale a fine conflitto, l’approccio alla situazione asiatica era sempre stato caratterizzato da una mentalità ancora venata di paternalismo colonialista e imperialismo mascherato. Gli europei non facevano mistero della loro volontà di restaurare il dominio sui territori che i giapponesi avevano occupato (Indocina, Indonesia, Malaysia, Hong Kong e Burma), l’Unione Sovietica aveva accettato di entrare in guerra dietro compenso del recupero di quanto gli Czar avevano perso nella guerra del 1905 – 1906 (oltre qualcosina in più), ambiguo era il discorso in merito alla Cina, mentre per la Corea formalmente si parlava d’indipendenza, ma nei fatti si riteneva che ciò sarebbe giunto solo dopo un periodo di mandato a quattro americano, sovietico, inglese e cinese per preparare i coreani a farsi carico dell’autogoverno. Allorché però il 2 Settembre i plenipotenziari giapponese firmarono l’atto di resa sulla corazzata USS Missouri nella baia di Tokyo, la traduzione in pratica di queste intenzioni si avviava già ad essere molto più difficile del previsto. La questione di più facile soluzione fu il regime di occupazione del Giappone dove gli americani, facendo valore il ruolo preponderante da loro avuto nella vittoria, intendevano avere l’amministrazione esclusiva, limitandosi ad accettare una presenza formale degli altri alleati in una Commissione consultiva priva di ogni reale potere. Inglesi e paesi del Commonwealth protestarono, ma i sovietici, pur se irritati dal rigetto della loro richiesta di Hokkaido come loro zona d’occupazione, decisero di aderirono alla richiesta statunitense, disarmando così ogni possibilità di resistenza, per non andare allo scontro ed avere moneta di scambio da spendere in Europa. Stalin infatti aveva già conseguito a scapito di Tokyo molti dei vantaggi territoriali di suo interesse e, maggiormente focalizzato sul vecchio continente, mercanteggiò la quiescenza all’unilateralità di Washington in Giappone, con la pari accettazione della unilateralità di Mosca nell’area danubiana (pur in quella forma non ancora di sistematica sovietizzazione di quei paese di cui abbiamo parlato nel primo capitolo di questa serie). Così al Consiglio dei Ministri degli Esteri di Mosca del Dicembre 1945, oltre a concordare una trusteeship sovietico-americana di cinque anni per la Corea, venne varata la commissione consultiva per il Giappone, i cui poteri furono disegnati in modo tale da lasciate la vera autorità sul paese nipponico al comandante supremo delle forze alleate generale Douglas MacArthur. Acque agitate invece incontrarono le rientranti amministrazioni coloniali europee, che si trovavano a fare i conti nel Sud-Est asiatico con un regalo d’addio che i giapponesi stavano lasciando nei territori occupati. Le autorità nipponiche, tramite il progetto della Sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale, si erano infatti presentate come i liberatori dei popoli oppressi dell’imperialismo europeo e avevano cercato l’appoggio delle elité nazionaliste locali dietro la promessa dell’indipendenza, sebbene nell’ambito di regimi di protettorato filo-giapponesi. Queste elité, paradossalmente un prodotto dei sistemi d’istruzione occidentale introdotti dagli europei, si mostrarono spesso ben disposte a collaborare al fine di conseguire l’autodeterminazione nazionale, anche perché l’aura di superiorità che aveva fino a quel momento ammantato gli occidentali, era stata scossa dalle umilianti sconfitte inflitte loro dalle forze giapponesi. Fu così che, allorché la notizia della resa del Giappone iniziò a diffondersi in tutte le regioni occupate, i gruppi nazionalisti locali, anche quelli come il Viet Minh che avevano combattuto contro i giapponesi, si organizzarono per impedire la restaurazione del dominio coloniale. Essi, traendo legittimazione per le loro pretese dal fatto che la Carta delle nuove Nazioni Unite affermava il diritto all’eguaglianza e all’autodeterminazione dei popoli, oltre che confidando nella linea ufficialmente anti-coloniale delle due maggiori potenze vincitrici (Stati Uniti e Unione Sovietica), intesero approfittare della fase di vuoto di potere di che si sarebbe venuta a creare tra lo sgombero delle forze nipponiche e il reinsediamento delle amministrazioni coloniali per creare una situazione di fatto che costringesse gli europei a trattare. Già il 17 Agosto Sukarno e Mohammad Hatta, con il pieno supporto delle autorità giapponesi, proclamavano a Jakarta l’indipendenza della Repubblica d’Indonesia; due giorni prima in Vietnam Ho Chi Minh aveva lanciato l’insurrezione generale contro gli occupanti nipponici, per altro estremamente passivi, conclusasi a fine mese con la presa del potere nel paese, l’abdicazione dell’Imperatore Bao Dai e la proclamazione dell’indipendenza della Repubblica Democratica del Vietnam il 2 Settembre. Ancora in Cambogia, Burma e Malaysia i nazionalisti locali, pur dimostrandosi pronti a negoziare, erano fermamente arroccati nel non recedere di un passo dalla strada della decolonizzazione. C’era poi il paradosso cinese, elevata dagli Stati Uniti a un ruolo ufficioso di grande potenza quale unico paese non di cultura occidentale a detenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, finalmente libera (o quasi) dal giogo dei trattati ineguali, ma uscita devastata da otto anni di guerra con il Giappone e con un futuro incerto a fronte del pericolo concreto di una ripresa della lotta interna tra il Kuomintang e il Partito Comunista Cinese. Infine su tutto aleggiava l’incertezza dell’effetto che avrebbe avuto sulle varie questioni aperte il progressivo deteriorarsi dei rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con il conseguente accendersi del conflitto geopolitico tra le due potenze anche nell’area asiatica. Se infatti per Washington un ruolo attivo e permanente nelle vicende europee era una rivoluzione copernicana della sua politica estera, la regione del Pacifico e dell’Estremo Oriente già nell’ottocento era stata quella nella quale, dopo il continente americano, gli statunitensi avevano investito più risorse. La prima missione commerciale in Cina battente bandiera a stelle e strisce risaliva al 1784 e già nel 1844, con il trattato di Wangxia, Washington strappava all’Impero cinese le medesime concessione che erano state ottenute dagli inglesi a seguito della prima guerra dell’oppio; da questo momento gli americani presero attivamente parte con gli europei alla spartizione della Cina, facendosi promotori della politica delle porte aperte, per garantire a tutti gli attori pari accesso al mercato cinese, e partecipando all’alleanza delle otto nazioni che soffocò la rivolta dei boxer. Fu poi la missione del commodoro americano Matthew Perry, disposta dal Presidente Fillmore, che nel 1853 portò alla fine del sakoku, l’autoisolamento del Giappone, e indirettamente alla crisi dello shogunato Tokugawa. Infine gli americani governarono le Filippine come una colonia defacto dal 1898, quando le conquistarono a seguito della guerra con la Spagna, fino alla completa indipendenza del 1946, concessa sotto comunque garanzia per Washington di poter mantenere basi sul territorio. Venuta meno la minaccia giapponese era interesse primario per Washington che non si affermasse in Estremo Oriente un’altra potenza imperialista capace di mettere in pericolo gli interessi economico-politici degli statunitensi nell’area; non è un caso che l’unico aumento di territorio da parte degli americani alla fine della guerra mondiale riguardò il cosiddetto Territorio fiduciario delle Isole del Pacifico, un insieme di arcipelaghi (tra cui le Marianne, Palau e le attuali Marshall) precedentemente parte dell’Impero giapponese, che andava ad aumentare quel sistema di posizione strategiche nel Pacifico ad ovest delle Hawaii. Comprendendo questo interesse particolare che gli americani hanno per la ragione, Stalin decide di non assumere iniziative che possano irritare Washington e pregiudicare la pacifica organizzazione della sfera di sicurezza sovietica in Europa. Dando per scontato che Giappone e Cina finiranno nell’orbita americana, i sovietici sfruttano ciò che è stato loro promesso a Jalta (concessioni in Manciuria e annessione della parte meridionale dell’isola di Sakhalin nonché delle Kurili) per creare una zona di sicurezza attorno alla loro frontiera orientale e recuperare quell’accesso al Pacifico che la sconfitta nella guerra del 1905-1906 aveva precluso alla Russia. L’adesione al marxismo-leninismo, che vede nel colonialismo una delle massime espressione dell’imperialismo capitalista, dovrebbe poi portare l’Unione Sovietica a farsi sponsor dei movimenti anti-coloniali, molti dei quali si dichiarano ideologicamente comunisti. Stalin però ha buona memoria delle fallimentari avventure anti-coloniali sovietiche degli anni venti e inoltre non ha particolare fiducia nei comunisti asiatici, non a torto considerati spesso più dei nazionalisti che hanno trovato nel marxismo un substrato filosofico-culturale per le loro lotte, per questo esita ad appoggiare i movimenti di liberazione nazionale. Non vuole infatti irritare i paesi occidentali che stanno tentando di recuperare le loro posizioni in Estremo Oriente e, ritenendo comunque che questi gruppi (compresi anche i comunisti cinesi) abbiano poche possibilità di vittoria, li ritiene più utili come strumento di pressione diplomatica sugli Alleati nei negoziati sugli affari europei.
2. La nascita della Repubblica Popolare Cinese e il mito della perdita della Cina
Con la resa del Giappone la posizione in Cina di Chiang Kai-shek e del suo governo apparentemente divenne forte come mai prima: ha ottenuto infatti un posto da pari al tavolo delle grandi potenze, tanto da essere incaricato del disarmo dei giapponesi nel nord dell’Indocina, ha fatto cancellare gran parte dei “trattati ineguali” che per oltre un secolo avevano umiliato il paese ed ha condotto con successo la lotta contro gli invasori nipponici. La hybris è tale che, oltre a recuperare Formosa dai giapponesi, si rivendicano alla Cina le isole Spratly e Paracelso nel Mar Cinese Meridionale con l’enunciazione della “linea degli undici punti”, viene messo in discussione il confine himalaiano con l’India britannica e si parla addirittura di riprendersi manu militari Hong Kong. La realtà è però molto meno rosea perché grandi aree del paese sono state devastate dal conflitto, tante delle migliori truppe nazionaliste sono andate perdute, la corruzione è diventata ormai sinonimo di Kuomintang mentre il Partito Comunista Cinese (PCC) è ben saldo nella sua fortezza dello Shaanxi. Inoltre a Jalta gli americani hanno usato la Cina quale merce di scambio della partecipazione sovietica alla guerra contro il Giappone. Così Chiang Kai-shek, per non rischiare di perdere il sostegno americano, si trovò costretto a firmare il 14 Agosto 1945 quello che, di fatto, era un nuovo “trattato ineguale” con i sovietici, nel quale, in cambio della promessa di Mosca di smettere di supportare il PCC e i ribelli dello Xinjiang, si concede molto più di quanto promesso dagli Alleati a Jalta: non solo dunque Dalian e Port Arthur in Manciuria, ma anche cogestione sino-sovietica della ferrovia manciuriana e riconoscimento da parte cinese dell’indipendenza della Repubblica Popolare della Mongolia. La speranza di Chiang Kai-shek è che con questa genuflessione sia riuscito ad assicurarsi che i sovietici non permettano alle milizie del PCC di installarsi in Manciuria, dandogli tempo di spostare a Nord le sue migliori truppe ancora impegnate in Birmania e nel sud della Cina. Invece i sovietici, preso possesso della regione, effettivamente non offrono campo al PCC, ma allo stesso tempo vietano agli americani di usare i porti manciuriani per spostare rapidamente in loco le forze nazionaliste. Va a questo punto ribadito che Stalin nel 1945 non aveva alcuna fiducia nella possibilità di una vittoria del PCC in Cina, per lui i comunisti cinesi sono ancora quelli che avevano coinvolto l’Unione Sovietica nelle fallimentari insurrezioni urbane del 1927, finendo per essere quasi sterminati da Chiang Kai-shek, per cui sono visti più come uno strumento di pressione sul governo nazionalista e di bilanciamento dell’influenza americana su questo. Il PCC del 1945 non è però più quello di Li Lisan, che tenta di imitare Lenin focalizzando le energie sul proletariato urbano, ma bensì quello su cui la Lunga Marcia ha imposto la leadership di Mao Zedong e del suo gruppo, il quale propone invece che siano le masse rurali il motore della rivoluzione. Nella sua fortezza dello Shaanxi il PCC, forte adesso di quasi un milione di uomini, ha vittoriosamente contrastato i giapponesi, approfittando poi del crollo nipponico per raddoppiare il territorio sotto il suo controllo, ma ha anche costruito un apparato statale che si presenta alla popolazione come molto più efficiente rispetto al caos e alla corruzione dei nazionalisti. Nonostante ciò neanche la situazione di Mao è rosea perché, appunto, i sovietici non paiono pronti a scommettere su di lui ed anzi da Mosca giunge l’ordine di trattare con i nazionalisti, anche loro spinti al compromesso dagli americani. Nell’Agosto 1945 l’ambasciatore statunitense Patrick Hurley tenta per sei settimane di guidare un negoziato tra le parti a Chongqing (sede del governo nazionalista), ma di fronte al nulla di fatto Washington, che è dal 1942 che tenta di evitare una ripresa della guerra civile in Cina, decide di gettare sulla bilancia tutto il suo peso politico-diplomatico inviando a Dicembre un mediatore della massima autorevolezza nella persona del generale George Marshall. Questi tenta di elaborare una piattaforma comune che permetta la formazione di un governo di coalizione, ma si trovò davanti a un muro contro muro invalicabile: Chiang Kai-shek, sicuro che gli Stati Uniti non lo avrebbero mai abbandonato, poneva condizioni inaccettabili per i comunisti, mentre Mao, che negoziava solo perché costretto da Stalin, puntava i piedi nel rifiutare di cedere il controllo delle milizie del PCC e nel pretendere la permanenza in incarico dei funzionari comunisti installati nell’amministrazione del nord del paese. Alla fine Marshall riesce solo a negoziare un cessate il fuoco, che dà ai nazionalisti una falsa percezione di debolezza dell’avversario incoraggiandoli a prediligere la soluzione militare della questione, e nella primavera del 1946 rimette l’incarico tornando oltre oceano con giudizi durissimi nei riguardi del governo di Chiang Kai-sheck. Lo descrive infatti così corrotto e bizantino da essere incapace di attuare quelle riforme minime che gli americani considerano necessarie a guadagnarsi il supporto della popolazione; Marshall arrivò persino a suggerire a Truman di limitare gli aiuti ai nazionalisti in modo da fare pressione su di loro e costringerli ad una svolta politica. Chiang Kai-shek era però sicuro di essere in grado di vincere sul campo e così commise l’errore che gli fu fatale: fare pressioni per ottenere il ritiro delle forze sovietiche dalla Manciuria e guadagnarsi così i galloni di artefice della riunificazione nazionale. A marzo ’46 Stalin, sotto pressione sul piano internazionale anche per la contemporanea occupazione dell’Azerbaigian iraniano, accetta di richiamare le sue truppe, ma contemporaneamente lascia campo aperto al PCC perché vi si sostituisca e faccia man bassa delle scorte lasciate dai giapponesi. Lo scontro armato tra nazionalisti e comunisti è ormai inevitabile e si accende quando le forze del Kuomintang tentano a Luglio di penetrare in Manciuria. Forti del vantaggio numerico i nazionalisti colgono una serie di successi, ma non affondano il colpo mentre i comunisti si ritirano sul confine coreano dal quale ricevono approvvigionamenti dai sovietici e rinforzi di uomini dai compagni coreani. Nel Marzo 1947 Chiang Kai-shek coglie anche la vittoria simbolica di occupare Yan’an, il centro del potere comuniste nello Shaanxi, ma Mao ha già ritirato le sue forze nelle campagne e Deng Xiaoping lancia in estate un’offensiva nella Cina centrale che costringe i nazionalisti a disperdere le loro truppe. A Washington intanto l’amministrazione Truman continuava a lavorare per spingere il Kumintang ad accettare una cogestione del potere con i comunisti (paradossalmente proprio nello stesso periodo in cui invece incoraggia la loro estromissione dai governi nell’Europa occidentale) ed invia come suo nuovo rappresentante il generale Albert C. Wedemeyer. La relazione da lui stilata prediceva la futura sconfitta dei nazionalisti se gli Stati Uniti non avessero aumentato il volume degli aiuti diretti al Kumintang, punto questo che incontrava la netta ostilità di Marshall, intanto diventato Segretario di Stato, che riteneva il supporto a Chiang Kai-shek (velenosamente ormai soprannominato in alcuni ambienti di Washington Cash My Check cioè “incassa assegni”) un inutile buco nero per l’economica americana che, in assenza d’iniziative concrete nella direzione di riforme e apertura al dialogo con Mao, distrarrà solo risorse dallo scacchiere europeo. Di fatto da questo momento gli Stati Uniti inizieranno anzi a ridurre l’entità del loro supporto al governo nazionalista fino a giungere ad un embargo delle armi, sia nel tentativo di forzare la mano a Chiang Kai-shek, sia perché si ritiene che una vittoria del PCC non andrà ad alterare gli equilibri asiatici a favore dell’Unione Sovietica in quanto si considera inevitabile una rottura tra Mao e Stalin simile a quella avvenuta tra il leader sovietico e Tito. In effetti già in questo momento il rapporto tra i due presenta più ombre che luci. Sulla piena aderenza ideologica di Mao al marxismo-leninismo non vi sono dubbi, anzi la sua declinazione è spesso più radicale di quella dello stesso Stalin, però il leader cinese, così come appunto Tito, non ha la ben che minima intenzione di essere declassato a mero proconsole di Mosca, anche se per il momento fa buon visto a cattivo gioco tenendo costantemente informato il Cremlino e accettando lo sgarbo del vedersi ripetutamente rinviare l’occasione per un incontro di persona con il Segretario generale sovietico. Si permette però allo stesso tempo anche qualche flirt con gli americani come risposta ai tentativi di Stalin, molto sospettoso riguardo ai progetti per la Cina di un PCC vincitore assoluto, di convincerlo ad accordarsi con il Kumintang, forse nella prospettiva di una divisione della Cina simile a quella cui andranno incontro la Germania e la Corea, che costringerebbe gli Stati Uniti ad un costante supporto economico-militare al governo nazionalista. Il 1948 è l’anno della svolta, le forze del PCC, ora denominate Esercito Popolare di Liberazione, passano all’offensiva e i nazionalisti sono sul punto di crollare. L’amministrazione Truman ormai considera la lotta di Chiang Kai-shek una causa persa e, anche quando chiede al Congresso fondi per aiutare i nazionalisti, lo fa solo per assecondare i repubblicani, grandi sponsor del sostegno al governo del Kumintang, affinché questi non pongano ostacoli all’adozione del piano Marshall. Sentendosi franare il terreno sotto i piedi Chiang Kai-shek tenta una sterzata disperata epurando i funzionari corrotti, nominando come suo vice il riformista moderato Li Zongren e dicendosi finalmente disponibile a un governo di coalizione con i comunisti. L’ambasciatore americano John Leighton Stuart ritiene essersi così riaperta una speranza di evitare la disfatta del Kumintag, anche perché contemporaneamente l’ambasciatore sovietico Roschin obbliga il PCC a sede al tavolo dei negoziati. Ormai però Mao è sicuro di vincere e così, ignorando le richieste che giungono da Mosca, nella primavera-estate del 1949 ordina alle sue forze di superare lo Yangtze e riversarsi nel sud della Cina; a Giugno pubblica Sulla dittatura democratica del proletariato nel quale conclude lapidario “la Cina deve stare da una parte sola”. A Washington ormai ogni speranza è perduta, l’unica possibilità sarebbe un’intervento diretto americano, ma, oltre all’incognita della reazione sovietica, Truman non ha intenzione di infilarsi in un pantano che toglierebbe priorità all’Europa; il nuovo Segretario di Stato Acheson sintetizzerà così la situazione “Il governo nazionalista non ha la forza militare necessaria per mantenere il controllo della Cina meridionale nel caso di una risoluta avanzata comunista (…). Non vi sono ragioni per pensare che l’invio di ulteriori aiuti possa modificare le prospettive di sviluppo degli eventi cinesi. (…) Inviare solo aiuti militari e consiglieri avrebbe come unico risultato quello di provocare il prolungamento delle ostilità e le sofferenze che il popolo cinese dovrebbe ancora sopportare, dando origine nel suo seno a un profondo risentimento contro gli Stati Uniti.“. Mentre gli ultimi scontri sul continente andavano a concludersi, il 1° Ottobre 1949 Mao proclama in piazza Tiananmen a Pechino la nascita della Repubblica Popolare Cinese; nelle stesse settimane Chiang Kai-shek e il governo nazionalista, insieme a circa 1,5 milioni di cinesi, ripararono a Formosa. Per gli Stati Uniti l’esito del conflitto, anche se ormai scontato, è comunque politicamente inaccettabile e così rifiutano, seguiti in ciò da tutti i paesi del blocco occidentale (fatta eccezione per il Regno Unito, interessata ad evitare problemi su Hong Kong, e i paesi scandinavi che già nel Gennaio 1950 riconobbero Pechino), il riconoscimento al nuovo governo comunista, aprendo in questo modo la questione della rappresentanza del popolo cinese alla Nazioni Unite. I sovietici proveranno a portare la questione della rappresentanza cinese agli organi dell’ONU, ma il Consiglio di sicurezza si rifiuterà di riconoscere Pechino mentre l’Assemblea non affronterà la materia per la netta opposizione americana a qualsiasi manovra che possa portare al trasferimento del seggio permanente cinese alla Repubblica Popolare, per tutta risposta Mosca ritirerà il suo rappresentante da tutti gli organismi delle Nazioni Unite paralizzando di fatto l’operatività del Consiglio di sicurezza. Tale radicale chiusura ad opera dell’occidente sbarra la strada a qualsiasi eventuale possibilità di fare della Cina una Jugoslavia asiatica, spingendo anzi Mao inevitabilmente a bussare alla porta del Cremlino per avere l’aiuto necessario a ricostruire il paese.
A Dicembre del ’49 Mao si reca per la prima volta nella sua vita a Mosca, raggiunto poi a Gennaio del ’50 anche da Zhou Enlai, per discutere delle relazioni tra i due pesi; i negoziati, a margine dei quali si parlò anche della situazione coreana e delle prossime intenzioni di Kim Il Sung, porteranno alla firma il 14 Febbraio di tre trattati, riuniti sotto il nome di Trattato di amicizia, alleanza e mutua assistenza sino-sovietico. Il primo trattato era un’alleanza militare tra Mosca e Pechino diretta contro tanto ipotesi di revanscismo giapponese (in modo parallelo alle formule anti-tedesche dei trattati siglati dal Cremlino con i suoi satelliti europei), quanto contro qualsiasi altra aggressione rivolta verso uno dei due paesi. Il secondo accordo impegnava invece l’Unione Sovietica a rinunciare alle concessioni che il governo nazionalista le aveva fatto sulla base del trattato dell’Agosto 1945 (ferrovia della Manciuria, Port Arthur e Dalian) non appena fosse stato siglato un trattato di pace con il Giappone. Infine il terzo trattato prevedeva la concessione alla Cina di un prestito del valore di trecento milioni di dollari, con un interesse dell’uno per cento, ma versato dai sovietici in merci di loro produzione e ripagato dai cinesi in materie prime. Da questi accordi traspariva in modo evidente come il rapporto di forze tra le due parti fosse ancora nettamente a favore del Cremlino, che, in cambio della sua protezione alla giovane Repubblica Popolare, congelava a futuro da destinarsi la revisione dell’ultimo “trattato diseguale” e otteneva allo stesso tempo sia accesso alle materie prime cinesi che uno sbocco in loco per la sua produzione interna. Mosca poteva così ribadire il suo ruolo di leader del movimento comunista mondiale, con il nuovo stato cinese al massimo qualificabile come partner speciale. Ulteriore aspetto che va esaminato è che la vittoria di Mao giungeva solo a pochi mesi da ché i sovietici avevano spezzato il monopolio nucleare americano, fatto questo che ebbe come conseguenza che negli Stati Uniti i repubblicani, fortemente connessi alla China Lobby creata da Soong Tse-vung, cognato di Chang Kai-shek e influente uomo d’affari cristiano, accusarono esplicitamente l’amministrazione Truman di una postura debole ed arrendevole nella lotta al comunismo che aveva portato alla “perdita della Cina”; questo dibattito sulla “perdita della Cina” avrà conseguenze durature e di primo rilievo tanto sulla politica interna, quanto su quella estera degli Stati Uniti. Intanto i repubblicani faranno di questo tema un cavallo di battaglia nella polemica politica interna, sia in vista delle elezioni di medio termine del ’50 che poi per le presidenziali del ’52, accusando il Dipartimento di Stato i più generosi d’incompetenza, i più faziosi come il senatore Joseph McCarthy di esse un covo di agenti comunisti. Proprio McCarthy, nel suo discorso a Wheeling del 7 Febbraio 1950 che lo avrebbe lanciato all’attenzione nazionale, poco prima di affermare di essere in possesso di una lista di 205 funzionari del Dipartimento di Stato con note simpatie comuniste, aveva definito il Segretario di Stato Acheson “quel pomposo diplomatico in pantaloni a righe che ha perso la Cina”. Sottoposta a questo fuoco di fila l’amministrazione Truman avviò quel processo di riesame dell’approccio geopolitico degli Stati Uniti, che si sarebbe concluso con l’elaborazione nell’Aprile del ’50 della direttiva NSC-68 di cui abbiamo parlato nel precedente capitolo. Il primo passo fu l’adozione a Dicembre ’49 delle due direttive NSC-48/1 e NSC-48/2, che estendono la dottrina del containment all’Asia indicando come obiettivo degli Stati Uniti il propugnare (anche attraverso la diretta partecipazione) iniziative regionali anti-comuniste di sicurezza collettiva. Il 12 Gennaio 1950 Acheson rende in un certo modo pubblico questo nuovo approccio alle vicende asiatiche con un discorso al National Press Club, nel quale proclama la necessità per l’America di creare un perimetro difensivo nel Pacifico che parta dalle Aleutine, abbia nel Giappone il suo perno fondamentale e poi scenda attraverso le isole Ryukyu fino alle Filippine. Questo insieme di fattori vedremo sarà fondamentale per comprendere le decisioni che Washington prenderà allorché a Giugno sempre del ’50 la Corea del Nord invaderà quella del Sud. Più sul lungo periodo però il mito della “perdita della Cina” continuerà ad aleggiare sulle varie amministrazioni che si succederanno alla Casa Bianca, influenzando ad esempio la politica di Johnson prima e di Nixon poi in Vietnam, per non passare alla storia come il Presidente che aveva “perso l’Indocina”.
3. Il crepuscolo degli imperi coloniali in Asia
È incontestabile che la decolonizzazione abbia avuto inizio in Asia e cioè l’area dove, come già detto, il prestigio dei grandi imperi coloniali era stato scosso dalle spettacolari vittorie giapponesi della prima metà del 1942. Quelle elité nazionaliste locali, paradossalmente prodotto dei sistemi d’istruzione importanti dagli europei, fino a prima della guerra mondiale nutrivano ancora un timore reverenziale nei confronti dell’occidente, il quale però era stato spazzato via dalle immagini degli inglesi che con Union Jack in testa si arrendevano a Singapore. Abbiamo già accennato di come, mentre il Giappone si arrendeva incondizionatamente, in Indonesia e Indocina questi gruppi (che avevano variamente accolto l’occupazione nipponica) decisero di sfruttare il vuoto di potere venutosi a creare per realizzare il fatto compiuto dell’indipendenza. Francesi ed olandesi non sono però per nulla intenzionati ad abbandonare le loro posizioni, la presenza in Asia dà infatti ad entrambi i paesi una proiezione internazionale e se per i Paesi Bassi ciò è vitale al fine di non essere declassati al rango di una Danimarca, per Parigi la presenza in Asia è strumento per conservare il ruolo da grande potenza. L’obiettivo dunque è quello di riprendere il controllo dei rispettivi possedimenti e mettere fine alla ricreazione, ma l’evoluzione degli eventi dimostrerà come questo sia un obiettivo impossibile. Intanto il contesto internazionale si pone sin da subito in senso non favorevole a una mera restaurazione delle amministrazioni coloniali. Il 4 Luglio 1946 gli americani portano a conclusione il processione di emancipazione delle Filippine con la dichiarazione d’indipendenza del paese (il quale però mantiene stretti legami economici e militari con Washington), l’obiettivo di Washington è quello di spingere gli europei a trovare soluzioni per un superamento soft dei regimi coloniali, così da evitare che l’Unione Sovietica possa intestarsi la battaglia anti-coloniale. Preoccupazioni comunque eccessiva poiché Stalin, abbiamo già visto scettico e sospettoso nei confronti dei movimenti di liberazione nazionale asiatici, preferisce non prendere iniziative in Estremo Oriente che possano riflettersi negativamente sui negoziati per l’assetto post-bellico dell’Europa. Nonostante ciò nel 1947 la causa di colore che insistono per la necessità che gli europei restino in Asia subisce poi un duro colpo allorché si verifica l’evento più dirompente: il Regno Unito rinuncia all’India con la partizione dell’ex gioiello dell’Impero in due nuovi stati che diviene ufficiale alla mezzanotte tra il 14 e il 15 Agosto. Sebbene questa partizione, come anche il ritiro dalla Palestina un anno dopo, non possono certo essere qualificati come esempi virtuosi di decolonizzazione, essa mostra chiaramente la strada che intende percorrere il governo laburista di Attlee: poiché i costi per mantenerne molti dei possedimenti coloniali sono incompatibili con le finanze inglesi uscite dissestate dal conflitto mondiale, si preferisce negoziare una pacifica uscita di scena, prima di essere coinvolti in scontri armati, in modo da conservare a Londra un rapporto preferenziale all’interno del Commonwealth con le ex-colonie divenute indipendenti. Alla nascita dei dominion di India e Pakistan seguirà nel 1948 quello di Ceylon e, nello stesso anno, gli inglesi rinunceranno anche a Burma. Qui la guida del movimento indipendentista era stata assunta negli anni trenta dal partito Thakins, o Associazione noi Birmani, all’interno della quale era emersa la leadership del giovane avvocato Aung San. Questi, successivamente all’invasione giapponese, aveva scelto di collaborare con gli occupanti in ottica anti-inglese e indipendentista nel contesto della Sfera di co-prosperità della Grande Asia Orientale, ma ben presto si era reso conto che i nipponici intendevano solo sostituirsi agli inglesi e così, intorno alla metà del 1944, aveva cambiato schieramento favorendo la nascita della Organizzazione anti-fascista, coalizione composta dal Partito comunista, dal Partito rivoluzionario del popolo e dalla appunto ex collaborazionista Armata nazionale di Burma, per guidare la resistenza. Con l’avvicinarsi della vittoria l’Organizzazione anti-fascista venne rinominata Lega della libertà popolare anti-fascista, apprestandosi a negoziare con gli inglesi l’indipendenza del paese. Sulle prime Londra non fu sicura della linea da intraprendere con Burma, ma constatato l’ampio supporto che la Lega raccoglieva nel paese, e temendo in particolare l’influenza che i comunisti avevano nelle aree rurali, decise di riconoscere in Aung San il suo interlocutore ufficiale, confidando che il suo prestigio gli consentisse di mantenere il processo di emancipazione su binari moderati. Aung San da par suo sarebbe stato favorevole a mantenere relazioni con Londra tramite il Commonwealth, ma la maggioranza del paese spingeva per una netta rottura con il passato coloniale e così, allorché si giunse all’indipendenza nel Gennaio 1948, il nuovo stato, rinominato Unione Birmana, decise di non mantenere alcun vincolo politico o economico con il Regno Unito. Purtroppo Aung San non poté assistere al compiersi della sua opera, poiché venne assassinato nel Luglio 1947 insieme a molti membri del governo provvisorio in un raid compiuto da un gruppo para-militare istigato dall’ex leader collaborazionista U Saw. L’uscita di scena del padre dell’indipendenza lasciò il giovane stato birmano senza una guida autorevole e questo favorì lo scivolare del paese, fino alla fine deli anni ’50, nella violenza delle insurrezioni armate tanto dei comunisti, che avevano abbandonato la Lega per seguire un progetto rivoluzionario simile a quello cinese, quanto delle minoranze etniche. Approccio diverso venne tenuto dal Regno Unito invece nei riguardi della Malesia, dove non solo Londra intendeva recuperare la sua posizione, ma anche rafforzarla trasformando la federazione di sultanati sotto protettorato britannico in una vera e propria colonia della corona con il nome di Unione Malese. Le ragioni erano sia strategiche che economiche: la penisola infatti era tanto il retroterra a protezione di Singapore, quanto un nodo fondamentale delle rotte commerciali verso il Mar Cinese Meridionale e Hong Kong, che gli inglesi intendevano rendere nuovamente uno dei principali fulcri commerciali-finanziari dell’Asia, inoltre si faceva molto affidamento sulle esportazioni dello stagno e del caucciù qui prodotto per portare denaro nelle esauste casse britanniche. L’esperimento fu però fallimentare e di breve durata. La popolazione locale accolse infatti in modo molto negativo la perdita di ogni potere effettivo (se non in materia religiosa) da parte dei sultanati e l’estensione della cittadinanza anche alle minoranze cinesi ed indiane, cosa che portò ad un ampio appoggio della campagna di boicottaggio dei gruppi nazionalisti contro i nuovi apparati dell’amministrazione coloniale. Messi di fronte a questa opposizione gli inglesi, temendo un contagio insurrezionale dalla vicina Indonesia in un contesto di già semi-guerriglia da parte del Partito comunista malese, preferirono tornare sui loro passi restaurando l’autorità delle monarchie locali in un regime di protettorato, organizzate dal 1948 nella Federazione della Malesia alla quale venivano unite anche la colonia della Malacca e del Penang. Ciò permise a Londra di assicurarsi il supporto dei nazionalisti malesi nel confronto con l’insurrezione comunista, esplosa nel medesimo anno, che si protrarrà per un decennio e porterà la penisola ad essere una delle aree più militarizzate dell’impero britannico, con il dispiegamento di oltre quattrocentomila uomini e l’impiego di durissime tattiche anti-guerriglia incluso il riunire le comunità rurali in “villaggi protetti” in modo da privare gli insorti di basi d’appoggio nelle campagne.
Una vera e propria lotta di liberazione nazionale si troveranno invece ad affrontarla tanto gli olandesi, quanto i francesi. Abbiamo visto come entrambi facevano del recupero delle posizioni in Asia un perno per il mantenimento del loro status a livello internazionale. Il fatto che sia in Indonesia che in Indocina l’uscita di scena dei giapponesi aveva creato le condizioni perché i nazionalisti locali provassero a creare il fatto compiuto dell’indipendenza, unito all’ostilità manifestata dagli Stati Uniti per una restaurazione sic e simpliciter del regime coloniale, costrinse tanto L’Aja che Parigi a tentare una operazione di maquillage. Ufficialmente entrambi i paesi erano a favore di un trasferimento di poteri ad entità governative locali, ma nella realtà i progetti che venivano proposti erano ritagliati in modo tale da assicurare agli europei il mantenimento di un fortissimo controllo sia politico che economico sulle ex colonie. Vedremo nel prossimo capitolo la vicenda specifica dei francesi in Indocina, poiché la più gravida di conseguenze a livello internazionale, esaminando invece adesso il conflitto per l’indipendenza dell’arcipelago indonesiano. Si è detto di come, appena due giorni dopo la resa del Giappone, Sukarno e Mohammad Hatta (leader del movimento indipendentista) proclamarono a Jakarta la Repubblica d’Indonesia con la connivenza delle autorità d’occupazione nipponiche in smobilitazione. Quando a settembre le truppe anglo-indiane giunsero per subentrare ai giapponesi si accesero subito degli scontri con le milizie repubblicane, le quali spesso forzavano le direttive dei loro leader che invece cercarono di negoziare un cessate il fuoco che ne riconoscesse l’autorità governativa. Gli indonesiani furono spesso sconfitti, ma la tenacia dimostrata in scontri molto sanguinosi (in particolare quello di Surabaja a fine ottobre 1945) convinse via via gli inglesi ad assumere una posizione di neutralità consigliando agli olandesi di trattare. Agli inizi del 1946 le autorità coloniali, accompagnate da un nutrito contingente militare, rientrarono in Indonesia scontrandosi subito con le forze indipendentiste. L’Aja si dichiarò disponibile a negoziare uno status di semi indipendenza per la nuova entità statale degli Stati Uniti d’Indonesia, uno stato federale avente ancora per capo di stato il sovrano olandese, dotato di ampia autonomia interna, ma dipendente per la politica estera dai Paesi Bassi. L’obiettivo olandese era di giocare sulle divisioni locali per isolare la Repubblica quale rappresentante non dell’intero arcipelago, ma solo di Giava, Sumatra e Madura, così da promuovere una federazione internamente debole e facilmente condizionabile dall’Europa. Nonostante si raggiunse un accordo con il trattato di Linggagati dell’11 Novembre 1946, entrambe le parti non si ritenevano soddisfatte e in particolare gli olandesi, una volta rafforzata la loro presenza militare, lanciarono nel Luglio 1947 un’offensiva per recuperare il territorio controllato dalle autorità repubblicane. Nonostante sul campo gli scontri, seppur faticosamente, favorivano le forze dei Paesi Bassi che riuscirono a rioccupare i centri urbani di Giava e Sumatra, sul versante diplomatico L’Aja si trovava sempre più in difficoltà Gli inglesi, che fino a quel momento avevano tentato di agire da mediatori, si schierarono in sede delle Nazioni Unite a favore dei repubblicani e lo stesso fecero anche l’Australia, la neonata India, l’Unione Sovietica e anche gli Stati Uniti, i quali temevano che la testardaggine olandese spingesse il governo repubblicano, fino a quel momento su posizioni moderate, a virare in favore dei comunisti, cosa che avrebbe danneggiato l’intero anti-colonialismo democratico sponsorizzato da Washington. Si giunse così da un secondo accordo, detto di Renville dal nome della nave americana su cui venne siglato, negoziato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e firmato il 15 Gennaio 1948, il quale congelava la situazione sul campo in vista dell’attuazione delle condizioni del precedente accordo di Linggagati. Gli olandesi erano però ancora decisi a ridurre al minimo la forza della Repubblica d’Indonesia all’interno della futura federazione e così prima forzò la creazione nelle zone da loro controllate di entità statali federali farlocche, poi a Dicembre ’48 provò a dare la spallata militare definitiva ai repubblicani. Sukarno, Hatta e buona parte del loro governo vennero arrestati mentre le milizie repubblicane furono costrette a rifugiarsi nelle campagne, da dover però proseguirono nella guerriglia e, anzi, diedero anche segno di essere ancora in forze con l’offensiva di Yogyakarta del 1° Marzo 1949. Questo ennesimo tentativo olandese di risolvere la questione manu militari portò al definitivo isolamento diplomatico dei Paesi Bassi; la risoluzione 63 del Consiglio di Sicurezza della Nazioni unite ingiunse infatti il rilascio delle autorità repubblicane mentre da Washington, dove si era molto soddisfatti che i nazionalisti di Sukarno e Hatta avessero subito soppresso il tentativo da parte del Partito comunista indonesiano di organizzare a Madiun una rivale Repubblica Sovietica d’Indonesia, giunse la minaccia esplicita di sospendere i benefici del piano Marshall se L’Aja non fosse tornata al tavolo dei negoziati. I Paesi Bassi furono così tra i primi a sperimentare l’altra faccia della medaglia del ruolo che gli stessi europei avevano preteso gli Stati Uniti assumessero nel vecchio continente in funzione anti-sovietica; alla garanzia militare e al supporto economico faceva da contraltare un potere coercitivo quando gli interessi di Washington confliggevano con quelli degli alleati europei. Messi all’angolo gli olandesi furono costretti a cedere e così il 2 Novembre 1949 veniva siglato il trattato di pace in base al quale i Paesi Bassi avrebbero trasferito la piena sovranità dei territori delle Indie Orientali Olandesi agli Stati Uniti d’Indonesia il 27 Dicembre 1949. Sebbene formalmente una federazione di sedici stati, il fatto che quasi metà della popolazione vivesse nelle zone controllate dalla Repubblica d’Indonesia rendeva inevitabile che questa assumesse sin da subito un ruolo predominante. Solo un anno dopo Sukarno procedette all’incameramento degli altri stati federali nella Repubblica, che così subentrò integralmente agli Stati Uniti d’Indonesia quale unica entità statale. I negoziati tra il nuovo stato indonesiano e i Paesi Bassi in ordine a se e quali legami istituzionali mantenere (esempio un ruolo formale della regina olandese come capo di stato), si trascinarono stancamente fino al 1954 quando infine si decise per la completa separazione dei due paesi.
4. La Francia e la rivolta vietnamita
Nel 1940, subito dopo l’armistizio tra Francia e Germania, i giapponesi chiesero/ingiunsero alla autorità francesi in Indocina, schierate con il governo di Vichy, di permettere l’insediamento di basi nipponiche e il libero passaggio alle truppe di Tokyo. A seguito di una manifestazione di forza a Settembre, con l’invio di trentamila soldati giapponesi che investirono la guarnigione di Lang Son, i francesi, in cambio del riconoscimento della loro sovranità sull’Indocina, dovettero concedere a Tokyo il controllo di cinque basi aeree e il diritto di insediare una guarnigione ad Hanoi e Haiphong. La presenza di truppe giapponesi andò ad aumentare dopo l’inizio della guerra nel Pacifico a seguito dell’attacco a Pearl Harbour, ma intanto nel 1941 il Partito Comunista d’Indocina aveva assunto la leadership della Lega per l’indipendenza del Vietnam o Viet Minh, rivitalizzandola su una linea di lotta tanto agli occupanti giapponesi quanto all’amministrazione collaborazionista francese. Ho Chi Minh, rientrato in Indocina dopo aver vissuto da esule sin dal 1911, impostò sin da subito la linea del movimento non avendo per priorità una rivoluzione comunista, bensì la lotta per l’indipendenza del paese invitando all’unione tra le elité nazionaliste urbane e le masse rurali, dove i comunisti raccoglievano il maggior supporto. Questa linea moderata d’unità nazionale fece ottenere a Hi Chi Minh l’appoggio degli Stati Uniti, i quali inviarono vari agenti dell’OSS per supportare la guerriglia contro i giapponesi, fattasi ancora più intensa dopo che, nel Marzo del 1945, questi avevano rovesciato l’amministrazione coloniale francese e assunto il diretto controllo dell’Indocina dividendola in tre stati fantoccio: l’Impero del Vietnam, il Regno del Laos e il Regno della Cambogia. Nei mesi successivi i Viet Minh occuparono ampie zone rurali del paese, organizzando un embrione di amministrazione statale, e ad Agosto, con la resa del Giappone ormai imminente, venne dato l’ordine di insurrezione generale. I giapponesi tentarono il 15 Agosto di trasferire i poteri in favore delle autorità dell’Impero vietnamita, le quali però si andarono a liquefare già il giorno dopo di fronte alla marea montante dei Viet Minh che, entro la fine del mese, assunsero il controllo integrale del paese. Il 28 Agosto Ho Chi Minh costituiva il governo provvisorio nazionale e il 2 Settembre proclamava ad Hanoi la nascita della Repubblica Democratica del Vietnam. La speranza di ottenere un rapido riconoscimento internazionale, quale premio per la lotta di resistenza contro i giapponesi, andò però ben presto delusa in quanto a Potsdam le grandi potenze avevano già concordato che la resa delle truppe giapponesi in Indocina sarebbe stata conseguita a Nord dai cinese e a Sud da un contingente britannico, con divisione delle due aree d’occupazione lungo il 16° parallelo. Se però nel sud gli inglesi si fecero accompagnare da un distaccamento francese, il quale operò per ricostruire immediatamente l’amministrazione coloniale, a Nord Chiang Kai-shek ordinò alle sue truppe di lasciare in carica il governo provvisorio di Ho Chi Minh, in modo da poter usare la cosa come arma di pressione nei confronti di Parigi per ottenere il superamento dei “trattati ineguali” in corso tra la Francia e la Cina. Ho Chi Minh approfittò della situazione così da farsi trovare pronto per il momento in cui i cinesi avessero smobilitato, ordinò infatti di evitare ogni forma di conflitto con le forze di Chiang Kai-shek per poter operare indisturbato e fece concessioni ai nazionalisti vietnamiti, ammettendoli al governo e garantendo loro settanta seggi sicuri alle elezioni generali convocate per il Gennaio del 1946 (in seguito stravinte dal Viet Minh), così da presentare un fronte unito allorché fosse venuto il momento di negoziare con i francesi. Il leader comunista infatti non era convinto che il Viet Minh potesse militarmente contendere il campo alle forze coloniali e così, andando anche contro l’ala oltranzista del Partito comunista che voleva il prosieguo della lotta armata in chiave adesso indipendentista, era pronto a sedersi al tavolo delle trattative, auspicando un coinvolgimento degli Stati Uniti nel ruolo di mediatori che avrebbero costretto Parigi ad avanzare proposte concrete. I Viet Minh poteva erano poi incoraggiati dal fatto che anche nel resto dell’Indocina erano sorti movimenti pronti ad affiancarli nella contrapposizione ai francesi: nel Laos si era organizzato il gruppo del Lao Issara, anche questo con una forte componente comunista, che ad Ottobre del ’45 aveva proclamato la Repubblica del Pathet Lao, mentre in Cambogia, nonostante il ritorno dei francesi avesse portato alla prevalenza dei ceti mercantili locali favorevoli al dialogo, i nazionalisti si organizzarono nel movimento dei Khmer Issarak su una linea radicalmente indipendentista. Le speranza però di Ho Chi Minh di trovare appoggi alla sua causa fuori dall’Asia andarono rapidamente deluse perché gli americani non avevano intenzione di aprire un contrasto con Parigi, il Partito comunista francese dichiarava apertamente di non voler modificare lo status dell’Indocina e neanche l’Unione Sovietica aveva fatto il passo di riconoscere la Repubblica dei Viet Minh. Fortunatamente anche i francesi parevano interessati a risolvere la questione indocinese senza ricorrere a uno scontro scontro, per cui il generale Leclerc, inviato da De Gaulle a restaurare la presenza di Parigi nel sud-est asiatico, autorizzò l’apertura di un negoziato con Ho Chi Minh. La proposta era quella di una semi-autonomia di Vietnam, Laos e Cambogia all’interno della costituente Union Française, cioè l’entità giuridica che avrebbe dovuto sostituire l’impero coloniale in chiave di una maggiore autonomia e diritti per le comunità extra-europee. Sebbene Parigi sponsorizzasse l’iniziativa come similare al Commonwealth britannico, in realtà le differenze erano sostanziali; se infatti il Commonwealth si basava su una piena parità di diritti di tutti i paesi componenti sin dallo statuto di Westminster del 1931, fu subito esplicitato come all’interno dell’Union la Francia si sarebbe riservata il controllo delle forze armate, della politica estera e dell’economia degli aderenti. Si trattava di un compromesso molto al ribasso, ma Ho Chi Minh era pronto a bere l’amaro calice sulla base di due considerazione: primo in questo modo avrebbe ottenuto il ritiro dal nord Vietnam della Cina, vicino con storiche mire espansioniste sull’Indocina, secondo poiché gli imperi coloniali erano in pieno disfacimento sarebbe stato possibili a breve trasformare quella semi-autonomia in indipendenza. Restavano però delle questioni controverse, in particolare il futuro della Cocincina, area di maggior insediamento di coloni europei, che i francesi avrebbero voluto repubblica separata all’esito di un referendum, per cui Ho Chi Minh si recò nel 1946 in a Fontenblau per negoziare direttamente con il Primo Ministro Bidault, fermo sostenitore della necessità per il paese di mantenere la presenza in Indocina. Fu un negoziato sfiancante, reso teso dalle notizie che arrivano dall’Asia dove l’ammiraglio d’Argenlieu, contrario ad ogni accordo con i Viet Minh, passava di provocazione in provocazione (ad esempio creando d’imperio la Repubblica della Cocincina). Infine il 19 Settembre Ho Chi Minh accettò di sottoscrivere un’intesa provvisoria che concedeva molto di quanto richiesto dai francesi, ma ormai le cose stavano rapidamente scivolando verso il confronto militare. La miccia venne innescata a Novembre quando i Viet Minh, in risposta alla cattura ad Haiphong da parte di una nave-pattuglia francese di alcuni contrabbandieri, arrestarono a loro volta i marinai di Parigi; dall’Europa Bidault ordinò fermezza e i militari in loco non se lo fecero ripetere. Il 23 venne dato ai Viet Minh l’ultimatum di abbandonare Haiphong, una volta scaduto i francesi passarono all’attacco anche con il supporto dell’aviazione e dei cannoni della marona. Il conteggio dei morti tra miliziani e civili non è mai stato ufficiale, con una forbice che va dai ventimila ai mille, ma gli eventi di Haiphong segnarono il punto di non ritorno; a Dicembre i Viet Minh, guidati dal brillante generale Vo Nguyen Giap, iniziarono a dar battaglia ad Hanoi, mentre anche nel Laos i Lao Issara ingaggiavano i francesi e il governo monarchico filo-europeo. Intanto in Francia l’instabilità politica dei governi della Quarta Repubblica rendeva difficile dare al paese una linea precisa sull’Indocina; al cristiano-democratico Bidault successe infatti il socialista Blum il quale, dopo un iniziale volontà di riaprire i negoziati, virò nella direzione di di puntare sull’ex imperatore Bao Dai quale rappresentante del Vietnam in opposizione a Ho Chi Minh. A Gennaio 1947 salì poi al potere il governo di coalizione di Paul Ramadier il quale era favorevole ad evitare una escalation riaprendo i negoziati con i Viet Minh, ma aveva al suo interno i cristiano-democratici di Bidault che invece lavoravano nel senso opposto, il tutto si concretizzo in un offerta avanzata dal plenipotenziario Paul Mas che aveva la sostanza di una richiesta di rese e che Ho Chi Minh non poté che respingere. Inutilmente il generale Leclerc, rientrato dall’Indocina, ammonì che il confronto non era tanto con i comunisti, ma con il nazionalismo locale temprato in secolo di lotta con il bulimico vicino cinese; Parigi presentò la vicenda al mondo come una insurrezione comunista e ciò contribuì a rendere il conflitto indocinese una crisi internazionale all’interno del confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Avendo necessità di ottenere il supporto di Washington, il che presupponeva una qualche forma concreta di decolonizzazione, i francesi decisero effettivamente di recuperare Bao Dai per metterlo alla guida di un ricostituito Stato del Vietnam, comprendente la Cocincina, che aderisse alla Union Française insieme con i neo-costituiti Regni di Laos e Cambogia. L’8 Marzo 1949 venivano così siglati gli accordi dell’Eliseo, accolti in modo molto favorevole dagli americani che ormai stavano aderendo pienamente alla lettura che l’Indocina fosse un altro terreno di scontro contro l’avanzata del comunismo.
Nonostante infatti vari analisti del Dipartimento di Stato evidenziassero come il Cremlino non avesse mai fornito alcun supporto a Ho Chi Minh e che i Viet Minh fossero più nazionalisti che comunisti, stava già prendendo forma nei piani alti la teoria del domino in base alla quale “subiremo (gli Stati Uniti ndr) una grave rotta politica, se il comunismo prevalesse del sud-est asiatico” e per questo “Le risorse degli Stati Uniti devono essere utilizzate per preservare l’Indocina e il sud-est asiatico dall’ulteriore avanzata dei comunisti.” come ebbe a dire Dean Rusk, allora assistente del segretario di stato. La nascita delle Repubblica Popolare Cinese e il successivo esplodere della guerra in Corea accentuò a Washington questa convinzione che era necessario appoggiare i francesi in Indocina, ma non mancavano critiche sferzanti all’atteggiamento di Parigi che, nonostante le solenni promesse fatte con gli accordi del Marzo ’49, latitava a concedere reali poteri ai governi locali, screditandoli così presso la popolazione come nulla più che fantocci nelle mani degli europei. Da par suo Ho Chi Minh, persa ogni speranza di un supporto occidentale alla sua causa, non poté che tentare nuovamente con i compagni marxisti e stavolta giunse una risposta. La vittoria di Mao offriva infatti ai Viet Minh un retroterra in Cina dal quale organizzarsi per la lotta contro i francesi, mentre Stalin si decise infine a riconoscere il governo della Repubblica Popolare del Vietnam agli inizi del 1950, portandosi ovviamente dietro il resto del blocco comunista. Il cambio di linea del Cremlino è dovuto al fatto che il conflitto indocinese contribuiva a creare tensione tra la Francia e gli altri partner del patto Atlantico. Il sud-est asiatico si stava infatti trasformando in un buco nero che assorbiva uomini e risorse di Parigi; John Ohley, funzionario del dipartimento della difesa americani, calcolava nel 1950 che i francesi avessero già perso cinquantamila uomini in Indocina mentre Robert Schuman sottolineò al Segretario di Stato Acheson che la Francia aveva già speso cinquecento milioni di dollari per “tenere la linea contro il comunismo in Asia”. A Parigi c’era la sensazione che gli alleati, con cui già c’era maretta per la questione della adesione della Germania dell’Ovest al Patto Atlantico, non fossero particolarmente solidali con lo sforzo militare francese, mentre a Washington si temeva che un eccessivo dispendio di risorse nel sud-est asiatico potesse andare a indebolire il containment in Europa, in particolare si dubitava che i francesi sarebbero stati in grado di adempiere al loro impegno di fornire 27 divisioni all’esercito della NATO entro il 1954. Nonostante ciò il timore degli effetti che si sarebbero potuti produrre a seguito di una disfatta francese in Indocina convinse infine il Dipartimento di Stato ad approvare la linea promossa da Rusk, diventato intanto titolare degli affari dell’Estremo oriente, e insistere presso la Casa Bianca per un consistente programma di aiuti economici e militari a favore della Francia stimato in tre miliardi di dollari per il periodo che va dalla metà del 1950 al 1953. Forti così del supporto materiale statunitense, i francesi si profusero in ulteriori sforzi sul campo di battaglia con lo scopo, anni dopo fatto proprio anche dagli americani nella loro avventura vietnamita, di ottenere un grande successo militare che costringesse Ho Chi Minh a sedere al tavolo delle trattative da una posizione di svantaggio. Sebbene l’immagine della lotta tra Davide e Golia possa apparire calzante per descrivere il conflitto indocinese, la realtà delle cose mostra che, tra le parti, c’era molto più equilibrio di quanto non si possa credere. I francesi infatti, sebbene certamente meglio armati, avevano a disposizioni soltanto una esigua forza aerea, mentre i Viet Minh si erano ormai evoluti da forza di guerriglia in un esercito a tutti gli effetti, per altro rifornito dai comunisti cinese delle armi catturate ai nazionalisti dopo la fine della guerra civile. Dopo un drammatico 1950, chiuso con una pesante sconfitta dei francesi che persero il controllo della strategica area di confine con la Cina all’esito di un’offensiva idea da Giap che costò a Parigi oltre seimila soldati tra morti e prigionieri, le sorti della Francia parvero risollevarsi allorché il comando delle forze nel sud-est asiatico venne assunto dell’esperto generale Jean de Lattre de Tassigny. Questi infatti, approfittando anche di un eccesso di sicurezza dei comandi Viet Minh, riuscì a respingere, seppur a costo di grosse perdite su ambi i fronti, quella Giap aveva pronosticato sarebbe dovuta essere la spallata finale. Purtroppo per i francesi la salute di de Lattre de Tassigny era all’epoca già seriamente compromessa e il generale, nominato nelle sue ultime ore Maresciallo di Francia, morì nel gennaio 1952, venendo sostituito dal molto meno capace generale Raoul Salan. Questi tenterà di dare una impronta meno coloniale al conflitto tramite un maggior coinvolgimento delle truppe dei tre governi laotiano, vietnamita e cambogiano filo-francesi, ma sarà un esperimento fallimentare sia perché le unità coinvolte saranno falcidiate dalle diserzioni in favore del nemico, sia perché il discredito di cui sono vittima questi governi non permetterà di contendere la bandiera del nazionalismo ai gruppi indipendentisti. Anche l’esperienza di Salan sarà di breve durata, sarà infatti sostituito a Maggio del 1953 dopo che per mesi era stato incapace di contrastare Giap il quale era riuscito a penetrare senza alcuna difficoltà in Laos fino a giungere a lambire la periferia della capitale Luang Prabang, per poi ritirarsi praticamente indisturbato. Al comando delle truppe francesi giungerà così il generale Henri Navarre e sarà presso il suo stato maggiore, anche sulla base della scorribanda laotiana dei Viet Minh, che verrà concepito il piano, presentato come in grado di dare una svolta al conflitto, di creare una base avanzata in territorio nemico dal quale sigillare la frontiera laotiane e colpire le retrovie di Giap. Nasce così l’Operazione Castoro che prevede di schierare cinque battaglioni presso Dien Bien Phu, località situata in una valle circondata da aspre colline. I comandi dell’aeronautica hanno avvisato che ritengono impossibile rifornire la base qualora questa sia messa sotto assedio, ma c’è la convinzione che i Viet Minh non saranno mai in grado di concentrare le forze in loco e che, comunque, le colline faranno da cintura protettiva naturale in quanto sarà impossibile portarvi sopra l’artiglieria, necessaria per assaltare una grande posizione fortificata, senza l’ausilio di molti automezzi che il nemico non ha a disposizione. Giap però si dimostrò ancora una volta un brillante stratega e già verso la fine del 1953 convergeranno su Dien Bien Phu trentatré battaglioni di fanteria, sei reggimenti d’artiglieria e un reggimento di genieri.
5. La guerra in Corea
Nel 1905, a seguito della vittoria giapponese nella guerra con la Russia, con la firma del trattato di Eulsa l’Impero Coreano divenne un protettorato nipponico, status che sarebbe cessato nel 1910 quando Tokyo procedette all’ufficiale annessione del territorio. La dominazione nipponica, segnata da pagine oscure come quella delle donne di conforto, abbiamo visto ebbe termine alla fine del secondo conflitto mondiale, allorché la penisola venne invasa dalle truppe sovietiche, che avevano sfondato in Manciuria, le quali si fermarono lungo il 38° parallelo sulla base di un accordo frettolosamente negoziato da Dean Rusk e Charles H. Bonesteel. Originariamente si era previsto che l’amministrazione della Corea post-bellica avrebbe dovuto essere assunta da una Commissione quadripartita della quale avrebbero dovuto far parte, oltre a americani e sovietici, anche inglesi e cinesi. Sia però gli inglesi per gli esorbitanti costi economici, sia i cinesi per il riattizzarsi della guerra civile, ritirarono la loro disponibilità così che rimasero sul campo solo Stati Uniti e Unione Sovietica con il 38° parallelo che diveniva la linea di confine tra le due zone d’occupazione. Le possibilità che questo regime di occupazione potesse pacificamente evolversi nella prevista restaurazione dell’indipendenza di una Corea unificata, si offuscarono ben presto a fronte del modo in cui le due potenze occupanti, mentre il loro rapporto iniziava a deteriorarsi a livello internazionale, stavano operando nelle loro rispettive zone. A Nord infatti i sovietici procedettero a ricostituire il locale Partito Comunista nelle mani di Kim Il Sung, che aveva prima combattuto con i comunisti cinesi per poi vivere dal 1941 in Unione Sovietica ricevendo anche il grado di capitano dell’Armata Rossa, a Sud invece gli americani puntarono sul nazionalista Syngman Rhee, leader delle forze conservatrici e più ferocemente anticomuniste. Non ci volle molto perché Mosca e Washington iniziassero a scambiarsi accuse reciproche di stare istituendo nelle rispettive zone d’occupazione dei regimi a loro fedeli: una tipica autocrazia monopartitica di stampo sovietico a Nord, un sistema autoritario mascherato dietro una parvenza di democrazia a Sud. L’impossibilità di giungere ad una soluzione negoziata portò al deferimento della materia coreana alle Nazioni Unite, le quali a Settembre 1947 votarono una raccomandazione (atto dunque non vincolante) in base alla quale si sarebbero dovute tenere libere elezioni in tutta la penisola sotto sua supervisione. Il rifiuto di Kim Il Sung di ammettere gli osservatori dell’ONU alle elezioni nel Nord, portò che solo il risultato del Sud fosse riconosciuto a livello internazionale e così Rhee, che aveva conseguito un ampio successo alle urne, il 15 maggio 1948 poté proclamare la Repubblica di Corea dichiarandosi l’unico legittimo rappresentante del popolo coreano. Per tutta risposta il 9 settembre Kim Il Sung proclama la Repubblica popolare di Corea. La situazione coreana si va dunque evolvendo verso il cristallizzarsi della divisione con un tacito beneplacito della comunità internazionale, così come negli anni successivi avverrà in Germania e in Vietnam, ed infatti tanto i sovietici quanto gli americani, che non hanno inserito la Corea del Sud nel perimetro difensivo del Pacifico proclamato da Acheson nel Gennaio del ’50, iniziano a ritirare le loro truppe. Diversamente però dalla situazione europea, dove il crearsi di due blocchi fortemente militarizzati rendeva irrealistica una soluzione militare alla situazione tedesca, in Corea tanto a Pyongyang che a Seul si parla esplicitamente di una riunificazione della penisola da conseguire manu militari. In particolare è Kim Il Sung che progressivamente diviene sempre più deciso nel perseguire questo progetto, soprattutto dopo che Mao aveva permesso il rimpatrio di trentamila soldati coreani altamente addestrati che avevano combattuto al fianco dei comunisti cinesi durante la guerra prima contro i giapponesi e poi contro il Koumintang. Dai documenti emersi negli anni ’90 a seguito del crollo dell’Unione Sovietica sappiamo che sin dal 1949 il leader nordcoreano aveva iniziato a chiedere l’autorizzazione a Stalin per un’azione risolutiva e che nell’Aprile 1950 si recò personalmente a Mosca per questo scopo. Il segretario generale sovietico fu fu abbastanza cauto nella sua risposta e, pur senza dare mai il suo esplicito assenso, affermò che se il piano fosse stato approvato da Mao lui non vi avrebbe opposto il veto, ma specificò anche che qualsiasi cosa fosse successa non vi sarebbe mai stato un diretto coinvolgimento sovietico nel conflitto. Il mese dopo Kim Il Sung era così a Pechino e Mao, dopo aver ricevuto da Mosca di nuovo la comunicazione che l’ultima parola era nelle sue mani, diede il suo assenso. Il 25 Giugno 1950 le truppe nordcoreane superarono il 38° parallelo, travolgendo rapidamente le difese sudcoreane e riversandosi per tutto il paese. La reazione dell’amministrazione statunitense all’attacco fu infatti immediata e, in applicazione ai dettami della direttiva NSC-68 approvata solo due mesi, subito diretta a contrastare energicamente l’aggressione. Truman era infatti assolutamente convinto di trovarsi di fronte a quella che poi avrebbe definito una “guerra per procura” portata avanti da Kim Il Sung, ma preparata a Mosca con il preciso scopo di saggiare la forza e volontà combattiva degli Stati Uniti e della NATO. Da un punto di vista strategico poi la caduta della Repubblica di Corea minacciava da un lato di portare il Giappone, perno del perimetro difensivo americano nel Pacifico, in prima linea e dall’altro, nel caso poi anche di una sconfitta francese in Indocina, di far finire l’intero Estremo Oriente continentale nell’orbita del Cremlino. Inoltre la situazione della penisola coreana ricordava troppo quella della Germania e c’era dunque il timore, oggettivamente infondato, che non intervenendo si incoraggiasse Stalin a tentare un colpo simile in Europa. Vi erano poi anche ragioni di politica interna che spingevano la Casa Bianca ad intervenire: abbiamo già detto di come nel ’50 le elezioni di medio termini per il Congresso incombevano con i repubblicani che battevano sulla gran cassa della “perdita della Cina”. Sulla base di tutte queste ragioni il 29 Giugno Truman autorizzò il generale MacArthur, a capo delle forze americane d’occupazione nel Giappone, di usare l’aviazione e la marina statunitense per supportare la Repubblica di Corea, ma già il giorno dopo l’uomo che aveva ricevuto la resa del Giappone comunicò a Washington che solo un intervento delle forze di terra poteva salvare la situazione. Queste prime iniziative militari statunitensi furono accompagnate da una rapida e risoluta reazione in ambito internazionale tesa a coinvolgere l’ONU nella vicenda coreana. Approfittando dell’assenza dei sovietici, che abbiamo visto avevano ritirato il loro rappresentante dal Consiglio di Sicurezza per il mancato riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese in luogo della Cina di Taiwan, gli Stati Uniti poterono agire senza il rischio di un veto sovietico ottenendo così subito una risoluzione in cui si condannava l’aggressione nordcoreana imponendo un immediato ritiro a Nord del 38° parallelo. Di fronte allo scontato inadempimento del regime di Kim Il Sung il 27 Giugno una seconda risoluzione, votata a maggioranza, autorizzò un’ “azione di polizia” internazionale al fine di restaurare la pace; gli stati aderenti all’ONU furono così invitati a fornire forze militare da porre sotto la bandiera delle Nazioni Unite stesse. Sedici paesi risponderanno all’appello (tra i quali Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Turchia e buona parte del Commonwealth) anche se fu subito chiaro che il grosso del lavoro lo avrebbero dovuto fare gli Stati Uniti. Una terza risoluzione del 7 Luglio approvò la nascita di un Comando dell’ONU per la difesa della Corea del Sud alla testa del quale fu messo, ovviamente, il generale MacArthur. Grazie alla rapida acquisizione del controllo dei cieli, con l’aviazione americana che spazzò rapidamente via quella nordcoreana, fu possibile eseguire una serie di azioni di retroguardia utili a rallentare l’avanzata delle truppe di Kim Il Sung e creare un perimetro difensivo intorno al porto di Pusan. I nordcoreani provarono per tutto agosto e settembre a sfondare, ma furono ripetutamente respinti, così, mentre lo slancio dell’offensiva nemica si andava ad esuarire, MacArthur, per evitare che la guerra si trasformasse in un’estenuante lotta di logoramento a Pusan, progettò un’audace operazione anfibia che se avesse avuto successo avrebbe potuto annientare le l’esercito di Kim Il Sung in un unico colpo. Ciò che il generale americano propose era uno sbarco a Inchon, il porto di Seul, al fine di tagliare le vie do comunicazione delle forze d’invasione della Repubblica Popolare ed imbottigliarle nel sud della penisola. L’operazione fu un capolavoro d’arte bellica che colse completamente di sorpresa i nordcoreani, i quali andarono nel panico e persero, tra morti e prigionieri, centocinquanta mila uomini nel tentativo di riguadagnare il 38° prima di restare circondati. Con la riconquista di Seul il mandato Nazioni Unite poteva dirsi adempiuto, ma a Washington si iniziò ad accarezzare l’idea di cogliere l’attimo per inseguire i nordcoreani a nord e completare l’unificazione della penisola sotto la Repubblica di Corea di Rhee. In particolare i circoli politici vicini alla China Lobby ritenevano che il successo in Corea potesse essere l’apripista per rovesciare la repubblica Popolare Cinese, e già si proponeva di suggerire a Chang Kai-shek di organizzare uno sborca sul continente; inascoltati erano invece i moniti che giungevano da Zhou Enlai di non attraversare il 38° parallelo perché Pechino non avrebbe mai accettato di condividere il confine con una Corea unita filo-americana. C’era poi anche il problema che un’azione nel nord andava oltre il mandato delle Nazioni Unite, e cambiarne la natura sarebbe stato difficile visto che intanto da Agosto i sovietici erano tornati ad occupare il loro seggio. L’orientamento della diplomazia pareva andare nel senso di trovare un’intesa di pace, infatti venne approvata alle Nazioni Unite una risoluzione inglese che prevedeva pace e nuove elezioni sotto supervisione internazionale, ma che gli Stati Uniti non avessero ancora realmente deciso cosa fare fu reso evidente dalla proposta, poi approvata all’Assemblea Generale il 3 Novembre, che se un veto avesse bloccato il Consiglio di Sicurezza dove però c’era una maggioranza qualificata a favore, alla la competenza sulla materia sarebbe passata proprio all’Assemblea. L’obiettivo era aggirare il veto sovietico e sfruttare il vantaggio numerico che gli Stati Uniti e i suoi alleati allora avevano all’interno dell’Assemblea Generale, intanto però la situazione sul campo si era infatti ancora evoluta. MacArthur infatti, fermo sostenitore della prosecuzione del conflitto fino alla vittoria totale, aveva deciso di rompere gli indugi autorizzando il 7 Ottobre i sudcoreani a passare il 38° parallelo, conscio che gli sarebbe stato ordinato di mandargli dietro le forze internazionali per evitare il rischio che fossero distrutti. Già il giorno dopo truppe cinesi, ufficialmente indicate come “volontari”, iniziarono a radunarsi sul fiume Yalu che rappresenta il confine tra la Cine e la penisola coreana. Il generale americano però trasuda sicurezza, in un incontro con Truman sull’isola di Wake del 15 Settembre assicurò che nessun intervento a a favore di Kim Il Sung vi sarebbe stato e che comunque sul fiume Yalu non c’erano più di sessantamila cinesi.
In realtà erano trecentomila mila che il 26 Novembre, sotto la guida del veterano della guerra civile generale Peng Dehuai, passarono alla controffensiva travolgendo le posizioni sudcoreane e minacciando di accerchiare gli americani che dovettero aprirsi la strada della ritirata in drammatici combattimenti nella neve. MacArthur andò nel panico e iniziò a tempestare Washington di messaggi in cui chiedeva l’autorizzazione a estendere il conflitto anche alla Cina continentale e persino usare le armi nucleari. Truman, sebbene fermamente non intenzionato ad uscire sconfitto dalla Corea, non intendeva però autorizzare una ulteriore escalation che avrebbe potuto portare a un coinvolgimento sovietico del conflitto. Particolarmente preoccupati erano gli alleati europei, che per primi avrebbero subito la furia di una rappresaglia sovietica, e così, quando il 30 Novembre il Presidente non escluse la possibilità di fare uso dell’atomica, il premier inglese Attlee volò oltre Atlantico per raffreddare i bollenti spiriti americani. Dai colloqui Truman-Attlee emerse la nuova linea di condotta delle forze ONU in Corea: guerra limitata, si rinunciava alla speranza di poter riunificare le due Coree accontentandosi di conseguire il ritorno allo status quo ante. Intanto i cinesi avevano continuato la loro avanzata, riattraversando il 38° parallelo e occupando nuovamente Seul a Gennaio 1951, ma la loro spinta offensiva si stava arenando anche perché gli americani erano passati ad una tattica di contenimento che faceva affidamento sulla superiorità in aviazione e artiglieria per logorare il nemico così da costringerlo a sedersi al tavolo delle trattative. Mac Arthur era però nettamente contrario a questo nuovo approccio e istrionico come suo solito, decise di sfidate frontalmente l’amministrazione Truman prima rilasciando il 24 Marzo ’51 un comunicato in cui minacciava la Repubblica Popolare Cinese di un inasprimento del conflitto e poi, il 5 Aprile, facendo giungere al capogruppo repubblicano della Camera dei Rappresentanti una lettera in cui ripeteva la sua strategia per un attacco diretto alla Cina comunista fustigando l’idea di una guerra limitata poiché “non esistono alternative alla vittoria”. Di fronte a quella che era a tutti gli effetti una insubordinazione, ma temendo anche che ignorando la cosa Mac Arthur si sarebbe sentito autorizzato a fare ancor di più di testa sua, Truman lo sollevò dall’incarico l’11 Aprile sostituendolo con il generale Matthew Ridgway. La decisione di silurare il popolare generale portò a un fuoco di fila da parte dei repubblicani contro la Casa Bianca; l’opinione pubblica, che mal comprendeva una strategia ambigua come quella della guerra limitata, si schierò in gran parte al fianco di MacArthur, il quale iniziò ad accarezzare sogni presidenziali dopo un solenne discorso al Congresso in cui definì la strategia di Truman immorale. Nel Giugno 1951 il Senato a maggioranza Repubblicano tentò di sfruttare l’impopolarità dell’amministrazione aprendo un’inchiesta sull’allontanamento di MacArthur, ma quando altri generali di grande fama come Marshall e Bradlay testimoniarono sull’intollerabilità dell’atteggiamento di MacArthur e sul rischio che la condotta di questi potesse portare allo scontro con i sovietici l’inchiesta si arenò mentre gli americani perdevano via via interesse per una guerra che non capivano. In Corea le cose stavano evolvendosi in una replica della situazione del fronte occidentale della Grande Guerra, cioè un fronte bloccato con una serie di sanguinosi attacchi e contrattacchi in grado solo di cogliere successi locali di limitata portata. A Pechino e Mosca diveniva sempre più evidente che era impossibile conseguire una unificazione della Corea sotto Kim Il Sung e così si iniziarono i primi sondaggi per delle trattative, comunque molto timidi in quanto Stalin apprezzava il fatto che gli Stati Uniti e i suoi alleati fossero impantanati in due conflitti in Estremo Oriente, Corea ed Indocina, che ne andavano a consumare le risorse e distraeva l’attenzione dalle vicende europee. Dopo un’offerta formale di trattative ad Giugno, il 10 Luglio ’51 le parti si incontrarono per la prima volta a Kaesong; rapidamente emersero le due questioni di scontro: la linea dell’armistizio, i sino-coreani volevano il 38° parallelo mentre gli americani la linea del fronte attuale in quanto lievemente più favorevole, e il rimpatrio dei prigionieri di guerra, che gli Stati Uniti ritenevano dovesse essere su base volontaria. Dopo questo primo giro di negoziati a vuoto, ufficialmente chiusa ad Agosto, un nuovo tavolo delle trattative venne aperto a Novembre a Panmunjeom, ma se sulla linea dell’armistizio i sino-coreani cedettero, accettando l’impossibilità militare di riconquistare il 38° parallelo, sui prigionieri di guerra si determinò nuovamente un’impasse in quanto l’amministrazione Truman ne fece una questione di principio, mentre dall’altro lato si temevano diserzioni di massa che andassero a mettere in crisi la retorica dei paesi comunisti come il “paradiso del proletariato”. La parola tornò così per tutto il 1952 ai combattimenti, senza che però sul campo di battaglia si determinassero fatti nuovi in grado di spezzare l’equilibrio.
6. La conferenza di Ginevra e il congelamento delle crisi coreana e indocinese
Mentre dunque la situazione in Corea stagnava nella guerra di posizione e in Indocina si preparava quella battaglia decisiva a lungo cercata da entrambe le parti, la diplomazia si era rimessa in azione contestualmente al modificarsi dello scenario internazionale conseguente all’elezione di Eisenhower, con la promessa elettorale di “andare in Corea” per risolvere la situazione, e alla morte di Stalin. Il nuovo Presidente infatti voleva trovare una via d’uscita dalla penisola coreana per potersi concentrare sull’Europa, dov’era in dibattito l’adesione della Repubblica Federale Tedesca al Patto Atlantico. Per questo ribadì la disponibilità americana di giungere ad un accordo diplomatico, facendo però intendere che un nuovo fallimento dei negoziati avrebbe portato a un rinnovato sforzo militare degli Stati Uniti stavolta con tutti i mezzi bellici a sua disposizione. L’uscita di scena di Stalin il 5 Marzo ’53 favorì il cambio di atteggiamento nel campo comunista, infatti la nuova dirigenza collegiale, come abbiamo visto abbastanza unanimemente intenzionata a un disgelo dei rapporti con l’occidente, incoraggiò i compagni sino-coreani a tornare al tavolo di Panmunjeom con uno spirito più conciliante. Le trattative ripresero così già ad Aprile e a Maggio si giunse a un compromesso sulla situazione dei prigionieri di guerra: rimpatrio volontario, ma una commissione composta da paesi neutrali avrebbe dovuto assicurarsi che tutte le parti potessero inviare delegazioni per convincere i loro uomini a rientrare. Il 27 Luglio tutte le parti, tranne la Repubblica di Corea, siglarono l’armistizio che portava alla cessazione immediata di tutte le ostilità nella penisola e creava la zona demilitarizzata coreana (DMZ) come zona cuscinetto tra i due schieramenti in attesa della negoziazione di un effettivo trattato di pace. Il mese dopo sempre dal Cremlino giunse la proposta di una conferenza internazionale volta a risolvere le due grandi crisi asiatiche: Corea ed Indocina. In Francia infatti, nonostante le nuove speranze accese dall’Operazione Castoro, il conflitto nel sud-est asiatico, ormai definito la sale guerre (sporca guerra), era sempre meno popolare e anche in ambiente politico il sostegno allo sforzo bellico è sempre più evanescente. Per questo motivo la proposta sovietica venne accolta con favore da Parigi e il Primo Ministro Laniel dichiarò “Se ci fosse a portata di mano una soluzione onorevole, a livello locale o a livello internazionale, la Francia sarebbe lieta di accettare una soluzione diplomatica del conflitto.”. Eccezion fatta per gli Stati Uniti tutti i principali attori della vicenda avevano interesse ad un intesa diplomatica: per l’Unione Sovietica un successo permetterebbe di guadagnare credito presso il movimento anti-coloniale, che è adesso guardato con grande interesse dal Cremlino, nonché mostrarsi come forza di pace nello scacchiere internazionale, per la Repubblica Popolare Cinese è l’occasione di ottenere, anche solo indirettamente, un riconoscimento internazionale, per il Regno Unito sterilizzare l’Indocina evita un contagio rivoluzionario nei territori rimasti sotto diretto controllo inglese in Asia (Malaysia e Hong Kong), infine per la Francia si ottiene di avere i Viet Minh al tavolo dei negoziati mentre si attendono notizie da Dien Bien Phu. L’ostilità americana è invece legata al timore che anche solo un successo parziale dei Viet Minh possa compromettere l’immagine dell’impegno anti-comunista in Asia e attivare quell’effetto domino nel resto della regione. La necessità però per Washington di chiudere il capitolo coreano, così da poter richiamare le forze ancora schierate nella penisola a difesa dell’armistizio, e l’insistenza da parte dei partner europei rendeva impossibile al nuovo Segretario di Stato Dulles boicottare qualsiasi forma di dialogo e così, a margine della conferenza delle quattro potenze occupanti a Berlino dei primi mesi del 1954, si addivenne all’accordo di riunire ad Aprile le parti interessate a Ginevra dietro però condizione che la presenza cinese non comportasse un riconoscimento del governo di Pechino.
La Conferenza si aprì il 26 aprile in un’atmosfera molto pesante, non solo tra nemici, ma anche tra alleati. Gli americani infatti non solo rifiutavano ogni contatto con la delegazione cinese, ma guardavano anche in cagnesco gli anglo-francesi ritenendoli pronti a concludere con la controparte accordi per loro convenienti, ma dannosi per la tenuta del containment su scala globale. I sovietici invece non perdevano occasione per avere un atteggiamento di paternalista superiorità nei confronti delle delegazioni dei compagni asiatici. Sulla Corea sin dalle prime battute fu evidente che si trattava di un dialogo tra sordi. Stati Uniti e Repubblica di Corea insistevano che il governo di Seul era l’unico legittimo rappresentante del popolo coreano e per questo l’accordo di pace avrebbe dovuto prevedere elezioni nel solo nord, previo ritiro delle truppe cinesi, con le forze dell’ONU che sarebbero invece rimaste in loco quali garanti della pace. L’ostinazione con cui venne sostenuta questa posizione, rifiutando le proposte di compromesso che ad esempio venivano dai cinesi per elezioni su tutto il territorio della penisola sotto controllo di un gruppo di nazioni neutrali, fu criticata anche dagli inglesi che definirono la linea di Washington inutilmente oltranzista. Dopo un nulla di fatto a fronte di una nuova proposta di Seul, elezioni sì in tutta la Corea però in base alle norme costituzionale del Sud e sotto supervisione ONU, i negoziati vennero ufficialmente sospesi il 15 Giugno del ’54 senza che si riuscisse a giungere a un accordo di pace così che, ufficialmente, lo stato di guerra tra le due coree continuò a sussistere, congelato però dal tornare in una fase attiva dalla tenuta dell’armistizio, garantito dalla permanenza di truppe della coalizione della Nazioni Unite lungo il lato sud-coreano della zona demilitarizzata. Diverso andamento lo ebbero invece i negoziati sull’Indocina in quanto qui la situazione militare avevano continuato ad evolversi sin poco prima dell’incontro tra le delegazioni. Consapevoli infatti di avere un’occasione unica per costringere i francesi alla capitolazione, il 13 marzo i Viet Minh passarono all’offensiva a Dien Bien Phu così da gettare sul tavolo dei negoziati ginevrini il peso di un indiscutibile successo militare. In pochi giorni le postazioni avanzate francesi erano cadute e Giap, capendo che l’addensarsi delle nuvole per la stagione delle piogge avrebbe definitivamente messo l’aviazione francese fuori dall’equazione, decise di passare ad una tattica di logoramento. A Parigi i rapporti che giunsero dall’Estremo Oriente resero subito evidente che la battaglia era persa per cui l’unica speranza era in una resistenza che durasse il tempo sufficiente per ottenere a Ginevra un accordo che evitasse l’umiliazione del disastro. Disperati i francesi chiesero un coinvolgimento militare diretto da parte degli americani per rovesciare le sorti dello scontro; vennero avanzate proposte per l’uso di sessanta bombardieri B-29 di stanza nelle Filippine, ma il generale Matthew Rigdway, capo di stato maggiore dell’esercito e veterano della Corea, dichiarò che a suo parere la sola aviazione non avrebbe potuto capovolgere le sorti della Francia in Indocina, per farlo sarebbe stato necessario schierare sette divisioni americane, dieci se i cinesi fossero interventi com’era successo in Corea. Eisenhower, intanto divenuto Presidente nel ’52, non era entusiasta all’idea di impegnare nuovamente gli Stati Uniti in una guerra in estremo oriente e per questo dichiarò che avrebbe approvato i bombardamenti solo se il Congresso gli avesse dato copertura politica e vi fosse stato il supporto degli alleati atlantici, in particolare il Regno Unito. I falchi dell’amministrazione, in particolare Dulles e Nixon, tentarono di convincere il Campidoglio, ma fu subito evidente che non ci sarebbe mai stata una maggioranza se prima almeno gli inglesi non si fossero a loro volta pronunciati a favore. Intanto al Pentagono si era anche studiata l’ipotesi di offrire ai francesi l’impiego di armi nucleari tattiche a Dien Bien Phu, ma dal Dipartimento di Stato giunse l’indicazione di abbandonare questi progetti in quanto devastanti per il prestigio americano se fossero stati resi pubblici. La pietra tombale sui piani per un iniziativa militare a favore della Francia giunse allorché Churchill dichiarò ai Comuni che nessuna azione inglese in Indocina vi sarebbe stata prima di vedere l’esito dei negoziati di Ginevra. Il 4 Maggio i francesi lanciarono l’ultima disperata controffensiva a Dien Bien Phu nel tentativo di rovesciare le sorti dello scontro, tre giorni dopo, mentre la bandiera dei Viet Minh veniva issata sul bunker di comando, giungeva l’ordine di cessare il il fuoco. Ventiquattrore dopo la capitolazione, mentre oltre undicimila soldati francesi erano diretti verso la detenzione, si aprivano a Ginevra i negoziati sull’Indocina. Anche qui la prima fase delle trattative segnò un nulla di fatto che si protrasse fino a Giugno quando, a cambiare la situazione, giunse l’avvento in Francia del governo di Mendès France, il quale si diede una scadenza precisa: quattro settimane per tirare fuori il paese con onore dal sud-est asiatico. La mossa del cavallo del primo ministro francese fu bypassare i rappresentanti del Viet Minh, inebriati dal successo di Dien Bien Phu, e scegliere come controparte negoziale i cinesi, fino a quel momenti rimasti ai margini delle trattative per ostilità dei tre paesi del Patto Atlantico a qualsiasi contatto con il governo di Pechino. Zhou Enlai, che guidava la delegazioni cinese, intravide subito l’occasione per conseguire i tre obiettivi a cui il governo di Mao puntava: rompere l’isolamento diplomatico della Repubblica Popolare al di fuori dal blocco comunista, fare in modo che Ho Chi Minh non vincesse troppo, dato che storicamente i rapporti tra Cina e Vietnam non erano mai stati idilliaci, ed evitare che un fallimento dei negoziati desse un motivo agli americani per intervenire direttamente in Indocina, cioè ad un tiro di schioppo dal confine cinese. Il 23 giugno, in un incontro segreto all’ambasciata francese di Berna, Zhou Enlai propose un immediato cessate il fuoco e il rinvio ad un secondo momento della sistemazione politica del Vietnam dividendo per ora il paese in due, il nord per i Viet Minh e il sud per il governo di Bao Dai. La trattativa si instradò rapidamente in questa direzione, con sovietici e cinesi che si fecero carico di costringere il Viet Minh ad accettare di mettere per ora da parte il sogno di unificare il paese, ma sorse un nodo su dove vi sarebbe dovuta essere la linea di demarcazione tra i due Vietnam. Mentre il tempo per il governo di Mendès France era agli sgoccioli a dare la svolta decisiva fu Molotov che riunì nel suo alloggio le parti coinvolte, fatta eccezione per i rappresentati di Bao Dai e per gli americani che ormai si erano messi ai margini della conferenza per non restare vincolati ad accordi che avrebbero potuto limitare loro future iniziative nel sud-est asiatico. Il salomonico giudizio del ministro degli esteri sovietico, accolto da tutti gli altri presenti, fu divisione lungo il diciassettesimo parallelo e termine di due anni per convocare una consultazione elettorale in tutto il paese che portasse alla sua unificazione politica; i francesi si sarebbero ritirati dal nord, ma avrebbero mantenuto forze nel sud per garantire l’applicazione dell’armistizio. Anche Laos e Cambogia avrebbero visto riconosciuta la loro indipendenza, sotto però i regimi monarchici insediati dai francesi e ciò era un’ulteriore sconfitta diplomatica per il Viet Minh che aveva invece sperato nel riconoscimento dei loro alleati del Pathet Lao e dei Khmer Issarak. Mentre Mendès France celebrava l’essere riuscito ad evitare che la Francia fosse costretta ad una ritirata umiliante, Zhou Enlai provò a rendere meno amaro il calice per i Viet Minh (che in seguito dissero di essere stati traditi dai cinesi) prospettando una sicura riunificazione del Vietnam sotto di loro a seguito delle concordate elezioni, ma allo stesso tempo si intrattenne con il rappresentante di Bao Dai dando ad intendere che Pechino non si sarebbe stracciata le vesti se la divisione del Vietnam fosse divenuta permanete ed accogliendo anzi con piacere una eventuale rappresentanza diplomatica del governo monarchico. Questi, insediatosi ormai stabilmente a Saigon, aveva intanto visto l’ascesa alla carica di Primo Ministro di Ngo Dinh Diem, cattolico, nazionalista ed anti-comunista intransigente, il quale, prefigurando la volontà dei francesi di ritirarsi nel più breve tempo possibile, già guardava agli Stati Uniti quale nuovo nume tutelare al quale affidarsi per fare argine alle ambizioni di Ho Chi Minh di unificare il paese sotto la bandiera della Repubblica Democratica del Vietnam. Già negli ultimi mesi del 1954 il rappresentante speciale di Eisenhower, generale J. Lawton Collins, si reca a Saigon per negoziare un sussidio di cento milioni di dollari al governo di Diem, a gennaio del 1955 consulenti americani iniziano ad addestrare l’esercito sud vietnamita. Simili iniziative saranno prese dagli Stati Uniti anche a favore del governo del Laos, dove le milizie del Pathet Lao avevano iniziato a confrontarsi con le forze monarchiche, mentre in Cambogia l’attivismo del principe Norodom Sihanouk riuscì a compattare il paese intorno al partito Sangkum da lui stesso fondato.
7. Il containment in Asia: il sistema di San Francisco e la prima crisi dello stretto di Formosa
Sebbene fosse stato il secondo principale esponete dell’Asse, il dopoguerra giapponese fu molto diverso rispetto a quello della Germania. Il paese europeo era infatti andato incontro ad una debellatio che ne aveva determinato l’estinzione come entità statale, a Tokyo invece continuò ad avere un governo in carica, retto dal Primo Ministro Shigeru Yoshida, che svolse un ruolo di cinghia di trasmissione tra il paese e l’autorità d’occupazione alleata (Supreme Commander of Allied Powers – SCAP) guidata dal generale MacArthur. Questa, sulla base delle indicazioni del Committe of Post-War Foreign Policy Preparation, procedette alla riorganizzazione politico-sociale del Giappone: i criminali di guerra vennero condotti innanzi a un tribunale internazionale sul modello di quello di Norimberga, anche se infine il generale Tojo venne assunto come capro espiatorio dell’intera classe dirigente nipponica, l’Imperatore venne confermato nella sua dignità, seppur svuotata di ogni potere politico effettivo e privata del manto divino a seguito della pur ambigua Dichiarazione della natura umana dell’Imperatore, ed infine una nuova costituzione venne elaborata con all’articolo 9 una esplicito ripudio della precedente storia militarista del Giappone per mezzo della rinuncia a mantenere forze armate di qualsivoglia tipo. Nei piani degli esperti americani il Giappone, potendosi dedicare interamente allo sviluppo economico venuta meno la spinta imperialista della casta militare, sarebbe dovuta diventare una specie di Svizzera dell’Estremo Oriente, anche perché per gli Stati Uniti il ruolo di alleato strategico nell’area dovrà essere ricoperto della Cina di Chiang Kai-shek. L’evolversi in senso sempre più sfavorevole ai nazionalisti della guerra civile cinese e l’esplodere della guerra in Corea cambia completamente questa prospettiva; come abbiamo già detto dal 1950 il Giappone diviene per Washington il perno del suo sistema di difesa nel Pacifico ed è dunque necessario un suo reinserimento come pari nella comunità internazionale attraverso la stipula di un trattato di pace. Gli americani avevano già avanzato nel 1947 la proposta di una conferenza degli undici paesi belligeranti con il Giappone che discutesse in merito alla sistemazione dei rapporti con Tokyo, in quel momento soprattutto al fine di liberarsi dei costi dell’occupazione, accogliendo però reazioni fredde non solo da parte sovietica, che in una conferenza ad undici temono di essere isolati non avendo paesi amici e vorrebbero una conferenza ristretta a quattro come in Europa, ma anche da parte di governi amici. Filippine, Australia e Nuova Zelanda hanno infatti ancora fresca la memoria dell’espansionismo nipponico degli anni ’20 e ’30, per cui temono che i giapponesi torneranno presto ai loro costumi militaristi e credono che gli Stati Uniti stiano riservando a Tokyo un trattamento troppo morbido. Gli eventi asiatici del biennio 1949-1950 scuotono queste posizioni e spingono i paesi dell’area a stringersi attorno alla linea di Washington, dietro però garanzia degli Stati Uniti di assumere precisi impegni nel Pacifico atti a garantire contro un possibile revanscismo nipponico. Rimaneva il nodo dell’assenso dei sovietici, che adesso lo condizionavano all’ammissione della Repubblica Popolare Cinese al tavolo delle trattative, per cui a Washington, al fine di evitare che si replicasse in Estremo Oriente lo stallo verificatosi in Germania, prese piede l’idea di firmare un trattato anche senza il consenso di Mosca profittando del fatto che i sovietici non avevano alcuna partecipazione diretta all’occupazione del Giappone. Si giunse quindi alla convocazione della conferenza di pace a San Francisco per il settembre 1951 con l’invito a parteciparvi rivolto a cinquantacinque paesi, si esclusero entrambe le Cine al fine di evitare la controversia della rappresentanza cinese. Ad accettare l’invito furono cinquantadue paesi, Unione Sovietica inclusa, mentre rifiutarono Jugoslavia, Birmania e India, ufficialmente non condividendo l’assetto proposto dagli Stati Uniti per il Giappone e l’area asiatico-pacifica, ma nei fatti per non mettere a rischio i rapporti con Pechino e mantenere un ruolo di equidistanza tra i due blocchi. Poco prima dell’inizio dei lavori gli americani si premurano di disinnescare i timori dei governi amici stipulando il 30 Agosto un trattato di mutua difesa con le Filippine, mentre il 1° Settembre un accordo analogo con Australia e Nuova Zelanda (Trattato per la sicurezza tra Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti – ANZUS). Il 4 Settembre si apre ufficialmente la conferenza di pace con il discorso di Truman, nel quale il Presidente americano descrive l’accordo che si propone come una pace giusta ed onesta che “non contiene i semi di un’altra guerra” e restituisce al Giappone “sovranità ed indipendenza” ponendolo “sotto l’egida delle Nazioni Unite”. Tale accordo prevede nel dettaglio la rinuncia del Giappone a tutti i territori esterni all’arcipelago metropolitano sulla base delle spartizioni già concordate dai vincitori nelle conferenze interalleate del periodo di guerra. Così Tokyo deve accettare l’indipendenza della Corea, il passaggio dell’arcipelago delle Ryukyu e di Bonin ad un’amministrazione fiduciaria americana, l’annessione da parte sovietica della parte meridionale dell’isola di Sachalin e dell’arcipelago delle Kurili (sebbene il trattato non vi includa le quattro isole meridionali, che invece l’Unione Sovietica insiste esserle state garantite a Jalta e non intende restituire ai giapponesi) ed infine la rinuncia alle rivendicazioni su Formosa, le isole Pescaderos, le isole Spratly e le isole Paracelso sebbene la mancanza di una rappresentanza cinese creava le premesse per la disputa sulla sovranità di detti territori. Il rappresentante dei sovietici Andrej Gromyko un po’ provò a farsi latore delle proteste di Pechino, un po’ cercò di aizzare i fantasmi del resto dell’Asia rispetto alla rinascita del militarismo nipponico, un po’ cerca di accreditare l’Unione Sovietica quale il vero difensore dell’indipendenza del Giappone contestando l’amministrazione fiduciaria americana sull’arcipelago delle Ryukyu e di Bonin. Di fronte però al compattarsi delle altre delegazioni intorno al testo proposto dagli Stati Uniti si concretizza il rifiuto sovietico, polacco e cecoslovacco di firmare il tratto di pace, che viene siglato l’8 Settembre. Lo stesso giorno Giappone e Stati uniti siglano anche il Tratto di sicurezza in base al quale gli americani mantengono il diritto di tenere forze militari sul suolo nipponico anche dopo la fine dell’occupazione del paese e di usarle sia al fine di difendere il Giappone che in operazione estere senza chiedere il preventivo assenso del governo giapponese. Tokyo così diviene dipendente sul piano militare dagli Stati Uniti, avendo a disposizione, nel vincolo dell’articolo 9 della nuova costituzione nipponica, solo i 75.000 uomini della neo-istituita Polizia Nazionale di Riserva, con funzione solo di sicurezza interna, che si sarebbe poi evoluta nel 1954 nella Forza d’autodifesa (JSDF) allorché l’art. 9 sarà interpretato nel senso che non è fatto divieto al Giappone di avere una forza armata sufficiente all’autodifesa in caso di attacco esterno o insurrezione interna. Contro l’entrata in vigore del Trattato di sicurezza si accederà il 1° Maggio 1952 una violenta protesta a Tokyo da parte di dimostranti tanto vicini al partito comunista giapponese quanto ai movimenti nazionalisti. Il movimento d’opposizione contro la presenza delle forze armate americane, sia da destra che da sinistra, continuerà ad essere una presenza di non secondaria importanza nella vita politica giapponese, con anche fiammate improvvise come nel 1959 in occasione della discussione sulla ratifica del nuovo Trattato di mutua cooperazione e sicurezza.
Per intanto Washington aveva però dato una forma di legalità internazionale alla permanenza di truppe e basi in Giappone e poteva dedicarsi a continuare la sua opera di creazione di un sistema difensivo per l’Estremo Oriente atto a realizzare in loco il containment al comunismo, simile a quello creato in Europa con il Patto Atlantico. Proprio rifacendosi al modello del Patto Atlantico l’amministrazione Eisenhower, anche a fronte degli esiti della guerra d’Indocina, promossero la nascita del Trattato per la difesa collettiva del Sud-Est asiatico o patto di Manila siglato l’8 Settembre 1954 tra loro stessi, Regno Unito, Francia, Australia, Nuova Zelanda, Filippine, Pakistan e Thailandia. Così come il Patto Atlantico comportò la creazione della NATO quale sua struttura militare permanente, allo stesso modo questo nuovo trattato per l’Estremo Oriente portò alla formazione del Organizzazione del Trattato del Sud-Est asiatico (SEATO). Il punto centrale dell’alleanza era l’art. 4 che indicava l’area coperta dalla garanzia di cooperazione reciproca tra i membri in caso di aggressione, che non comprendeva solo gli stati membri, ma anche la Malaysia, l’allora Borneo britannico, il Laos, la Cambogia e il Vietnam del Sud. Se però nel caso del Patto Atlantico non c’era stata nessuna esplicita dichiarazione sulla natura anti-comunista dell’accordo, nel caso della SEATO gli Stati Uniti ci tennero a mettere in chiaro che la validità dello stesso era solo nell’ottica di un attacco da parte di Unione Sovietica o dei suoi alleati, ciò al fine di evitare rischi con l’India che sin dalla nascita dei due paesi era ai ferri corti con il Pakistan. Dal perimetro della SEATO erano poi escluso Taiwan, nel timore che il contrasto tra le due Cine potesse portare ad un conflitto su larga scala, come effettivamente pareva potersi rischiare proprio in quello stesso Settembre del 1954 a causa dell’esplodere della prima crisi dello stretto di Formosa. Con l’insediarsi di una amministrazione repubblicana alla Casa Bianca gli Stati Uniti avevano assunto un atteggiamento molto più tollerante verso le iniziative di Chiang Kai-shek contro la Cina comunista, dirette al fine di creare le condizioni per un ritorno sul continente. In particolare nel Febbraio del ’53 veniva richiamata la 7a flotta dallo stretto di Formosa, inviata lì da Truman tanto per scoraggiare Mao dal tentare di invadere l’isola quanto Chiang Kai-shek dal lanciarsi in avventure dall’esito potenzialmente disastroso. A seguito di ciò i nazionalisti intensificarono la loro politica di blocco navale dei porti dello stretto, anche tramite una vera e propri guerra di corsa, cosa che portò a una serie di incidenti (che coinvolsero anche navi battenti bandiere neutrali) e ad un rapido aumento della tensione con la Repubblica Popolare che iniziò ad ammassare truppe lungo la costa. Nell’Agosto del ’54 Chiang Kai-shek schierò ingenti forze sulle isole di Matsu e di Quemoy, cioè due tra le isole più vicine al continente sotto il controllo del Kuomintang, con l’ordine di costruire strutture difensive. Per tutta riposta le forze di Mao iniziarono a bombardare le due posizioni e il più violento attacco venne lanciato il 3 Settembre, cinque giorni prima della firma del patto di Manila, durante il quale rimasero uccisi anche due consiglieri militari americani. Il 12 Settembre dallo Stato maggiore dell’esercito americano giunse alla Casa Binaca la proposta di un attacco con armi nucleari contro la Repubblica Popolare Cinese, ma come già Truman anche Eisenhower escluse radicalmente una tale escalation nel timore della inevitabile reazione sovietica ad un attacco diretto contro un paese con il quale vi era un accordo di alleanza. Di fronte però all’aumento della pressione da parte della Repubblica Popolare, che a Novembre aveva esteso l’area dei bombardamenti anche all’isola di Tachen, a Dicembre Eisenhower decise fosse il momento di fornire precise garanzie al governo di Chiang Kai-shek e così il 2 Dicembre venne siglato il Trattato di mutua difesa sino-americano. Con esso gli Stati Uniti si impegnano a difendere Taiwan e le isole Pescadores in caso di attacco, escludendo però dall’assicurazione tutte le altre isole in quel momento sotto controllo da parte dei nazionalisti. Il senso della garanzia è chiaro: Washington si fa nume tutelare dell’indipendenza di ciò che resta della Repubblica di Cina, ma limita la sua protezione alle due posizioni vitali (le Pescadores sono le strisce di terra nello stretto più vicine a Taiwan), disinteressandosi del destino delle isole nei pressi della costa cinese e scoraggiando così Chiang Kai-shek da ulteriori provocazioni nei confronti della Repubblica Popolare. Il perimetro di questa garanzia sarà ribadito a Gennaio del 1955 allorché il Congresso americano approverà una risoluzione congiunta con la quale si autorizzava il Presidente ad impiegare le forze armate americane per difendere Taiwan e le Pescadores da qualsiasi attacco. Intanto però gli scontri nelle isole dello stretto proseguivano e, a conferma di quella che era la linea americana, nessun’azione sarà intrapresa dagli Stati Uniti allorché le truppe della Repubblica Popolare sbarcheranno sulle isole Yijiangshan, limitandosi solo a fornire un supporto all’evacuazione di Tachen a Febbraio allorché Chiang Kai-shek decise di abbandonarla per concentrarsi sulla difesa di Matsu e Quemoy. Di fronte però all’apparente volontà di Mao di insistere nello scontro, a Marzo il Segretario di Stato Dulles minacciò esplicitamente un attacco nucleare, creando grande allarme all’interno della NATO, ma inviando anche un preciso segnale che Pechino colse immediatamente. Pochi giorni dopo, a margine della conferenza di Bandung, Zhou Enlai espresse la volontà della Cina di non giungere ad uno scontro con gli Stati Uniti e di essere pronta ad un cessate il fuoco in vista di un negoziato sulla situazione taiwnaese. Il 1° Maggio gli attacchi di artiglieria su Matsu e Quemoy vennero infine interrotti, ma i negoziati avviati ad Agosto a Ginevra si risolveranno in un nulla di fatto ed entrambe le parti procederanno ad aumentare la reciproca presenza militare nello stretto.
Bibliografia:
- Ennio di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali
- Robert Service, Compagni – Storia globale del comunismo nel XX secolo
- Mario Del Pero, Libertà e impero – Gli Stati Uniti e il mondo: 1776 – 2016
- Carlo Pinzani, Il bambino e l’acqua sporca – La guerra fredda rivisitata
- Pierre Grosser, Dall’Asia al mondo. Un’altra visione del XX secolo
- Stanley Karnow, Storia della guerra del Vietnam
- Alessandro Duce, Storia della politica internazionale (1917-1957)
- Henry Kissinger, L’arte della diplomazia
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