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La strage di Piazza della Loggia

Il 28 Maggio 1974 a Brescia pioveva. Quel giorno a Piazza della Loggia si stava tenendo una manifestazione antifascista organizzata dal Comitato Permanente Antifascista di Brescia alla quale partecipavano circa tremila persone e qualcuno stava anche registrando gli interventi degli oratori. Alle dieci e dodici di quel mattino sul palco stava parlando il sindacalista Franco Castrezzati attaccando il Movimento Sociale Italiano e il suo segretario Giorgio Almirante “…oggi ha la possibilità di mostrarsi sui teleschermi come capo di un partito che è difficile collocare nell’arco antifascista e perciò costituzionale. A Milano alc…” la parola venne troncata di colpo dal suono sordo di un esplosione. L’audio della registrazione coglie prima urla distanti nella piazza, poi voci che ripetono “una bomba” e poi le prime richieste di aiuto. Dunque di nuovo la voce di Castrezzati che cerca di dare le prime indicazioni per i soccorsi “Fermi! State fermi! Compagni e amici state fermi! Calma! Compagni e amici state fermi! State calmi! State calmi! State all’interno della piazza! Il servizio d’ordine faccia cordone intorno alla piazza! State all’interno della piazza!…”. A distanza di quasi cinquant’anni quell’audio fa ancora gelare il sangue. Otto persone morirono quel giorno e altre novanta restarono ferite. Come per le altre stragi che insanguinarono l’Italia in quel periodo storico che è passato alla storia come anni di piombo la vicenda di Piazza della Loggia rimane ancora adesso segnata dal dolore e dalla rabbia: per i morti, per i depistaggi e per una vicenda processuale che ha alla fine consegnato alla verità giudiziale i mandanti della strage, ma non i suoi esecutori materiali.

Questa storia però per essere raccontata deve iniziare qualche giorno prima e precisamente nella notte tra sabato 18 e domenica 19 Maggio 1974. Quella notte fermo in Piazza del Mercato a Brescia a bordo di una Vespa 125 c’è un giovane che attaccata alla cintura ha una fondina con dentro una pistola automatica 7.65 con il colpo in canna; il suo nome è Silvio Ferrari ha vent’anni ed è un neofascista vicino al gruppo milanese “La Fenice” di Giancarlo Rognoni (che sentenze successive accerteranno essere la costola lombarda di Ordine Nuovo). Sono le tre di notte quando un’esplosione scuote il centro di Brescia, Silvio Ferrari infatti è appena saltato in aria. Appoggiato sul pianale della sua Vespa c’era infatti un pacco contenente una bomba, fatta con un chilo di tritolo e un detonatore a orologeria, che esplode improvvisamente uccidendolo sul colpo. Ad oggi non si sa se quella bomba sia esplosa per un difetto tecnico, per un’imprudenza di Ferrari (che era di ritorno da una festa e poteva essere un po’ brillo) o per una precisa volontà di chi gliela aveva consegnata. I giorni seguenti vedono il classico copione di quegli anni: a destra solenne funerale per il camerata caduto con saluti romani, asce bipenne simbolo di Ordine Nuovo e acclamazioni al grido “Presente!”; a sinistra presidio di Piazza Mercato da parte dei gruppi della sinistra extraparlamentare con Lotta Continua in testa per evitare che i camerati di Ferrari possano organizzare veglie o celebrazioni. Ma il botto della notte tra il 18 e il 19 è solo l’ultima di una serie di bombe di esplicita marca fasciata che da mesi stanno scuotendo Brescia: il 16 Febbraio alla Coop di Porta Venezia rivendicata dalle S.A.M. (Squadre d’Azione Mussolini), 8 Marzo due bombe inesplose nella Chiesa delle Grazie, 23 Aprile bomba a mano nel cortile della sezione del PSI di Largo Torrelunga ed infine il 1° Maggio davanti alla sede della CISL viene ritrovato un borsone con otto candelotti di dinamite e trecento grammi di tritolo già innescati e pronti ad esplodere. Brescia poi è in quel momento una città particolare perché è dal suo tribunale che è partita l’inchiesta contro il Movimento armato rivoluzionario di Carlo Fumagalli, che verrà arrestato il 9 Maggio provocando il giorno dopo una serie di attentati a firma Ordine nero a Milano, Bologna e Ancona. Proprio al fine di lanciare una risposta contro questo stillicidio di attentati il Comitato Permanente Antifascista di Brescia (sigla che raggruppava i tre sindacati confederali, le Acli, i partiti della sinistra, il Pri e la sinistra Dc) decide di organizzare per il 28 Maggio uno sciopero con contestuale manifestazione antifascista a Piazza della Loggia perché “la Brescia democratica e antifascista possa mostrare una risposta di massa e responsabile al clima di violenza scatenato in città dai fascisti”.

Otto sono dunque i morti lasciati a terra da una bomba nascosta dentro un cestino dei rifiuti accanto a una colonna ad un angolo della piazza; i loro nomi sono: Livia Bottardi, Giulietta Banzi, Clementina Calzari, Alberto Trabeschi, Luigi Pinto, Euplo Natali, Bartolomeo Talenti e Vittorio Zambarda. Erano i più vicini al cestino e coi loro corpi hanno fatto da scudo al resto dei manifestanti ammassati nella piazza tra i quali, comunque, si contano novantaquattro feriti con vari livelli di gravità. Sull’area di paternità dell’attentato non paiono sin da subito esserci dubbi sia per la natura dell’obiettivo, una manifestazione antifascista, sia perché a poche ore dalla strage giunge una rivendicazione a firma “Ordine nero, gruppo Anno zero, Brixien Gau” per “vendicare la morte del camerata Ferrari”. I giornali parlano tutti apertamente di strage fascista e solo pochi, quelli del gruppo Monti (“Resto del Carlino” e “Nazione”) e “Il Tempo” si limiteranno ad invocare una sospensione del giudizio in attesa delle indagini; Piazza Fontana è ancora nella memoria di tutti e così ci si guarda dal cercare un nuovo Valpreda, a parte il “Secolo d’Italia” che in due articoli scriverà “in piazza c’era il brigatista Curcio”. Per quanto riguarda la reazione nel paese il giorno dopo viene indetto uno sciopero generale a cui parteciperanno almeno quattro milioni di persone e durante il quale vi saranno assalti alle sedi del Msi e della CISNAL. “Il manifesto” chiese lo scioglimento del Msi per ricostruzione del partito fascista e alla proposta si aggregarono la Fiom, la CGIL, Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e Franco Antonicelli. I funerali delle vittime furono un’occasione di forte contestazione per le autorità della Dc con pesanti fischi all’indirizzo del Presidente della Repubblica Giovanni Leone (a cui si rimproverava di aver “accettato” i voti del Msi per la sua elezione), al Presidente del Consiglio Mariano Rumor e al Ministro degli Interno Paolo Emilio Taviani. La reazione da parte del governo fu quella di offrire all’opinione pubblica lo scalpo dell’Ufficio affari riservati (Uaarr), che venne sciolto con grande gioia del rivale Sid, e del suo direttore, il potentissimo Federico Umberto D’Amato uomo di fiducia di Taviani, che passò alla guida della polizia di frontiera. Dopotutto i magistrati milanesi in seguito scopriranno che nell’estate del 1974 girava un documento, probabilmente di provenienza Sid, in cui si affermava che Ordine nero era stato creato proprio dall’Uaar per fare “concorrenza” a destra a Ordine Nuovo.

Ritorniamo adesso ai momenti immediatamente seguenti alla strage per seguire il filo delle indagini sull’attentato. L’ABC dell’attività investigativa suggerirebbe di mettere subito in sicurezza la piazza per conservare ogni elemento utile che possa servire a ricostruire la bomba ed ottenere ogni altro indizio utile all’individuazione dei responsabili. Invece il primo atto ufficiale delle autorità è l’ordine dato dal vice-questore Aniello Diamare perché un’autopompa dei vigili del fuoco si rechi nella piazza e la lavi con gli idranti dietro l’argomento di “evitare la vista del sangue e lo sgomento che tale spettacolo rinnova nei cittadini”. Si tratta di una tra le più grandi cantonate investigative mai prese da forze dell’ordine nella storia perché, ovviamente, l’acqua lavò via ogni possibile indizio; in seguito i magistrati parleranno di “sconcertante operazione di pulizia che giustifica interrogativi inquietanti” ed in effetti se non fu malafede quantomeno fu un errore talmente grossolano da rendere opportuni rilievi disciplinari rispetto a chi prese la decisione…. e invece no perché appena un mese dopo il vice-questore Aniello Diamare venne promosso questore. Con l’acqua che si è portata via ogni possibile traccia materiale utile ciò che è accertabile sulla bomba è poco: certamente che la bomba era stata posta all’interno di un cestino, che era composta da almeno sette etti di esplosivo da cava con l’aggiunta di anfo a base di nitrato di ammonio e che è presumibile sia stata piazzata nell’intervallo di tempo che va dalle sette de mattino, ora in cui i netturbini hanno svuotato tutti i cestini della piazza, alle otto e trenta quando le forze dell’ordine hanno preso posizione nella piazza anche se in seguito la signora Ennia Scremini affermerà di aver sentito dire sottovoce da due uomini che camminavano sotto i portici della piazza, quando già questa si stava riempiendo di manifestanti, “Hai pronta la bomba?”. Risulta anche dubbio dire con certezza chi fossero le vittime designate dell’attentato; verrebbe infatti subito da dire i manifestanti, ma viene fatto notare che quell’angolo della piazza, dove si trova il cestino in questione, è quello dove di solito si schierano le forze dell’ordine in caso di comizi o raduni e solo quell’imprevedibile pioggia le aveva costrette a spostarsi per permettere ai manifestanti di andarsi a riparare sotto i portici. Un attentato alle forze dell’ordine non è irrealistico considerato che solo due anni prima c’era stata la strage di Peteano nella quale erano rimasti uccisi tre carabinieri. In che direzione muovere le indagini? Il giudice istruttore Domenico Vito e il pubblico ministero Francesco Trovato, a cui è assegnata l’indagine, guardano verso Milano e principalmente al gruppo dei sanbabilini cioè i giovani neofascisti dell’area più movimentista ed intransigente che avevano come punto di ritrovo appunto Piazza San Babila, dov’erano facilmente riconoscibili per il look corredato di scarpe a punta e occhiali da sole Ray-Ban. Si guarda ai sanbabilini perché due giorni dopo la strage è successa un’altra cosa. Il 30 Maggio 1974 infatti  alle sette di mattina un gruppo di carabinieri e di guardie forestali guidate da un maresciallo del Sid circondano una tenda da campeggio nei pressi di Pian del Rascino nei pressi di Rieti. Si tratta di un mini accampamento paramilitare dove tre giovani esponenti del Mar di Fumagalli, Giancarlo Esposti, Alessandro Danieletti e Alessandro D’Intino, si sono ritirati ben armati dopo che vi sono stati gli arresti del 9 Maggio (un quarto componente del gruppo, Umberto Vivirito, se n’era andato da poco per rientrare a Milano). Scoppia una sparatoria che si conclude con Giancarlo Esposti che rimane ucciso e due carabinieri feriti, ma è una di quelle sparatorie “all’italiana” in cui non si è mai capito esattamente come siano andate le cose. Infatti Esposti ha il corpo crivellato di pallottole e una ferita alla testa dovuta a un colpo sparato a bruciapelo. Esposti ha già un suo curriculum, infatti è stato condannato a Milano per alcuni attentati rivendicati dalle Sam (Squadre d’azione Mussolini), e nelle sue tasche viene ritrovata una fototessera. Gli altri due giovani, che intanto si sono arresi, indentificheranno subito la persona ritratta in quella foto in Cesare Ferri, altro volto noto del neofascismo milanese. Il giorno dopo Ferri viene arrestato insieme a due esponenti di Avanguardia Nazionale e tutti e tre sono subito portati a Brescia per essere interrogati in merito alla strage. Tutti però fornisco un alibi e in particolare Ferri dichiara che la mattina dell’attentato si trovava all’Università Cattolica di Milano dov’era anche stato visto da un suo ex professore del liceo, da una ragazza bionda seduta sui gradini dello scalone (Daniela Rapetti) e da Alessandro Stepanof, suo amico e membro del Circolo tricolore, che gli aveva dato anche un passaggio in macchina. Il 1° Giugno il giornale “Bresciaoggi” dà la notizia del fermo dei tre e ne pubblica le foto, nel vederle don Marco Gasparotti, parroco della chiesa di Santa Maria Calchera poco distante da Piazza della Loggia, ha un tuffo al cuore perché è certo che il volto di Ferri sia identico a quello di un giovane che il giorno dell’attentato, un’ora prima della strage, lui aveva visto nella sua chiesa guardare i dipinti di scuola bresciana sulle pareti e a cui aveva anche chiesto se voleva che accendesse i faretti per meglio illuminarli. Don Marco rimane incerto sul da farsi per tre giorni,  va anche a chiedere consiglio in curia, ma infine il 4 Giugno decide di fare il suo dovere e si reca dai carabinieri anche se ormai intanto Ferri è stato rilasciato per decorrenza dei termini del fermo. Ai carabinieri la sua testimonianza viene raccolta da una figura che sarà centrale nella vicenda delle indagini sulla strage di Piazza della Loggia: il capitano Francesco Delfino. Il nucleo del capitano Delfino è quello che ha dato origine all’inchiesta sul Mar di Carlo Fumagalli con il fermo il 9 Marzo del 1974, proprio nei pressi di Brescia, di un auto con a bordo due uomini vicini a Fumagalli, Kim Borromeo e Giorgio Spedini, che trasportavano centocinquanta chili di esplosivo e cinque milioni di Lire. L’operazione venne spacciata come casuale, ma in realtà i carabinieri aveva usato un loro agente provocatore per far cadere in trappola i due; l’interpretazione che anni dopo alcuni componenti della Commissione stragi diedero di questa farsa fu che dopo lo scioglimento per decreto ministeriale di Ordine Nuovo da ambienti governativi giunse l’istruzione di smascherare anche il Mar di Fumagalli così da mandare un segnale agli altri gruppi della destra eversiva che il clima politico/istituzionale intorno a loro stava cambiando. Tornando però a Don Marco, il capitano Delfino raccolta la sua testimonianza fa una cosa strana e cioè invece di portare il parroco dai magistrati che si stanno occupando della strage lo porta invece al giudice Giovanni Arcai che è il titolare dell’inchiesta sul Mar (e che si è già scontrato con Delfino per il falso rapporto sull’arresto di Borromeo e Spedini). Arcai, prima di ordinare un confronto tra Ferri e Don Marco, ordina una perquisizione a casa del giovane neofascista che immediatamente pensa bene di lasciare il paese; ufficialmente è in vacanza, ma in realtà è a Lugano dove incontra Luciano Benedelli, esperto di esplosivi anche lui vicino agli ambienti sanbabilini, e con lui si reca nella Grecia ancora per poche settimane guidata dal regime dei colonnelli. Mentre è all’estero Ferri viene raggiunto da un secondo mandato di cattura emesso dal giudice milanese Emilio Alessandrini per un attentato del 1973 contro la sede del PSI a Crescenzago, intanto il 4 Agosto c’è l’attentato al treno Italicus che provoca dodici morti e quarantotto feriti anche questo rivendicato da Ordine nero. A Settembre Ferri rientra in Italia e si presenta spontaneamente da Alessandrini che lo invia subito a Brescia per il fatidico confronto con Don Marco. Il parroco non aveva passato giorno tranquilli in quanto, una sera, erano venuti a citofonare in canonica un gruppo di ordinovisti guidati da Fabrizio Zani, colui che si occupava delle rivendicazioni degli attentati e che sarà in seguito condannato all’ergastolo per l’assassinio dell'”infame” Mauro Mennucci). Nonostante ciò e nonostante il fatto che Ferri si sia intanto tagliato barba e baffi e abbia perso non pochi chili, Don Marco non ha esitazioni e lo identifica subito nella persona che ha visto nella sua chiesa il giorno della strage. Ferri però non si scompone e risfodera il suo alibi con tutti i testimoni a suo sostegno; nonostante ci sia quantomeno materiale per continuare ad indagare su di lui la pista Ferri viene rapidamente accantonata in quanto l’infaticabile capitano Delfino ha intanto portato ai magistrati una nuova pista investigativa con tanto di colpevole già bello ed individuato. 

La pista pare quasi nascere per partenogenesi. Nel Gennaio 1975 un altro giudice bresciano, Gianni Simoni, si sta occupando del furto di una tela del Romanino dalla chiesa di Santa Eufemia. All’interno dell’inchiesta Simoni sente come testimone un certo Luigi Papa che però, appena seduto di fronte a lui, invece di parlargli di quadri gli dice “E’ stato Buzzi! E’ stato Buzzi a piazzare sei ordigni in Piazza della Loggia!”. Il Buzzi in questione è Ermanno Buzzi esperto d’arte, ladro d’arte, millantatore di titoli aristocratici (si fa chiamare conte di Blanchery) e notoriamente vicino agli ambienti dell’estrema destra bresciana dato che negli anni cinquanta scriveva articoli di fuoco per il foglio del Msi bresciano firmandosi Hermirmann Buzzi, anche se poi era stato allontanato dal Movimento Sociale a causa della sua omosessualità. Papa afferma che Buzzi si è creato un piccolo gruppo di seguaci fatto di giovani plagiati dal suo carisma e tra questi giovani vi è anche uno dei suoi figli, Angelino, ma adesso Buzzi starebbe anche cercando di adescare l’altro suo figlio, Antonio, che ha solo tredici anni e per questo ha deciso di denunciarlo. Papa viene subito mandato davanti ai giudici che stanno indagando sulla strage e il capitano Delfino in poco tempo troverà un altro testimone, Ugo Bonati altro esperto/ladro d’arte e amico di Buzzi, che non solo conferma l’accusa affermando di aver lui personalmente visto a casa di Buzzi i candelotti di dinamite usati per fare la bomba, ma fornisce anche un elenco preciso dei responsabili della strage i quali, poche ore dopo l’attentato, si sarebbero riuniti nel Bar dei Miracoli per brindare al successo dell'”operazione”. Il 17 Maggio 1977 il giudice istruttore Vino deposita la sua sentenza-ordinanza con la quale scagiona Cesare Ferri e rinvia a giudizio per strage Ermanno Buzzi e il suo gruppo cioè Angelino e Raffaele Papa, Mauro Ferrari, Fernando Gussago, Ugo Bonati e Marco De Amici; quest’ultimo era un amico di Silvio Ferrari che la notte dopo la morte dell’amico si recò in tutta fretta a casa sua per recuperare tutto il materiale compromettente e nasconderlo a Parma, materiale che, stando a Giusy Marinoni che in quei giorni ne era la fidanzata, quattro giorni prima della strage venne recuperato e portato a Brescia compresa una borsa con all’interno proiettili e una qualche polvere granulosa. Tra i nomi dei rinviati a giudizio ve n’è però un ultimo che provoca un autentico shock a Brescia e nel palazzo di giustizia: Andrea Arcai figlio del giudice Giovanni Arcai titolare dell’inchiesta contro il Mar di Carlo Fumagalli e che per questo sarà ricusato. Le prove contro Buzzi e i suoi sembrano solide, oltre alle varie confessioni si scopre anche che alcuni dei volantini che hanno preannunciato la strage erano stati battuti alla macchina da scrivere del conte di Blanchery. Il caso sembra così avviarsi a una soluzione che “soddisfa” un po’ tutti: i responsabili sono sì un gruppo di estrema destra, ma non legati ad alcun gruppo istituzionale dell’estrema destra e guidati da un omosessuale megalomane già allontanato a suo tempo dal Msi. Nel Luglio 1979 la Corte d’assise condanna all’ergastolo come mandante dell’attentato Ermanno Buzzi, a dieci anni come esecutore materiale Angelino Papa, che intanto ha confessato unendosi all’elenco di accusatori del conte di Blanchery cosa che gli varrà le attenuanti per la seminfermità di mente, Mauro Ferrari a un anno per l’omicidio colposo di Silvio Ferrari; condannato anche Marco De Amici a qualche anno per detenzione e porto d’esplosivi (ma la sentenza dice che il materiale recuperato a Parma non è stato usato per la bomba di Piazza della Loggia) mentre tutti gli altri, tra cui Andrea Arcai, sono assolti. Apparentemente un esempio di rapida e solerte attività investigativa e giudiziaria, che ha condotto in carcere gli autori dell’attentato stavolta senza la necessità di andare a scomodare servizi segreti depistatori o eventuali padrini politici occulti. In realtà l’accusa contro Buzzi e i suoi se analizzata nel dettaglio mostra non pochi punti deboli. Stando infatti alla ricostruzione del tribunale la strage, fatta per “fare uno scherzetto ai comunisti”, sarebbe materialmente avvenuta così: Angelino Papa e Buzzi sarebbero andati insieme in Piazza della Loggia e il giovane avrebbe fatto scivolare l’ordigno del cestino dei rifiuti mentre Buzzi lo copriva allargando le falde della giacca mentre si chinava per fingere di bere alla fontanella attaccata alla colonna del porticato… problema la colonna della fontanella non è la stessa dove si trovava il cestino nel quale è esplosa la bomba. Poi emergono altri dettagli contrastanti, messi in fila dai giornalisti Achille Lega de “Giorno” e Giorgio Santerini de “Il Corriere della Sera” nel libro “Strage a Brescia. Potere a Roma”, come il fatto che alcuni testimoni smentiscono che Ugo Bonati si sarebbe trovato nei posti dove lui dice di aver udito le vanterie di Buzzi e del suo gruppo o che Angelino Papa ritratta la sua confessione affermando di essere stato forzato dal capitano Delfino dietro anche la promessa di denaro. Ce ne sarebbe già abbastanza per pronosticare un pirotecnico giudizio d’appello se non fosse che si aggiungono altri due fatti che fanno letteralmente saltare il tavolo: in primo luogo Ugo Bonati, nonostante fosse sotto stretta sorveglianza dei carabinieri, scompare, secondariamente Ermanno Buzzi muore in carcere assassinato. Era successo che nei primi mesi del 1980 prima era giunta una lettera al giudice di sorveglianza di Brescia a firma A.F. e poi una seconda lettera era giunta direttamente a Buzzi a firma Angelo Falsaci, nome che sembra omen come falso anche se un Angelo Falsaci è in quel momento tra gli imputati latitanti del processo al Mar di Fumagalli. Entrambe le lettere sono sullo stesso registro: Buzzi è innocente, la strage l’hanno fatta i sanbabilini per cui che il conte di Blanchery stia tranquillo perché sarà presto libero. In quell’anno però nelle carceri italiane girano anche altre lettere che riguardano Buzzi: una di Pierluigi Concutelli, leader di Ordine Nuovo all’ergastolo per l’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, che intima al suo camerata Luigi Martinesi di interrompere ogni contatto con Buzzi; mentre sulla rivista carceraria dell’estrema destra, “Quex”, nella rubrica Ecraser l’infame (schiacciare l’infame) Buzzi viene indicato come omosessuale corruttore di minorenni, traditore e confidente del capitano Delfino. Indagando sulle due lettere a firma Angelo Falsaci si scopre che sono state entrambe scritte dallo stesso Buzzi, ma per quale motivo? Forse per mandare segnali precisi a chi di dovere in vista dell’appello? Non si saprà mai perché proprio in vista del processo di secondo grado Buzzi viene trasferito al supercarcere di Novara che, visto ciò che si dice di lui negli ambienti d’estrema destra, equivale a una condanna a morte visto che nel penitenziario piemontese sono detenuti alcuni dei principali nomi dell’eversione nera come lo stesso Concutelli, ma anche Mario Tuti e Nico Azzi. Buzzi sopravvivrà meno di quarant’otto ore, alla prima ora d’aria il 13 Aprile 1981 sarà strangolato con dei lacci da scarpe da Concutelli e Tuti che poi ne sfregeranno anche il volto spingendogli gli occhi nelle orbite con i pollici. Al processo d’appello, dopo una camera di consiglio record di centonovantatre ore, vengono tutti assolti, incluso Buzzi post mortem; la Cassazione annullerà alcune assoluzione e così nel 1985 a Venezia si ripete l’appello con però lo stesso esito: tutti assolti per insufficienza di prove. La pista Buzzi si conclude così in una completa Caporetto. Nel migliore dei casi si è trattato un lavoro investigativo-giudiziario sciatto e approssimativo, ma la carriera del suo gran regista Francesco Delfino non ne risentirà visto che sarà promosso continuando ad imperversare nelle indagini dei grandi misteri italiani per poi finire alla sede del Sismi di New York, nel peggiore di un vero e proprio missile teleguidato scagliato tanto sull’inchiesta sulla strage quanto su quella del Mar di Fumagalli, sottratta a un giudice che (nonostante la nomea di essere di destra appioppatagli dalla controinformazione) non si stava risparmiando nell’andare a fondo alla vicenda portando anche in luce l’ambigua condotta proprio del gruppo investigativo del capitano Delfino. La commissione stragi nel 1984 affermerà che “l’inchiesta avrebbe avuto ben altri esiti se fin dall’inizio si fosse indagato in altre direzioni”.

Fase del primo processo per la strage, al centro con gli occhiali Ermanno Buzzi.

Con quasi dieci anni persi a correre dietro al gruppo del conte di Blanchery in molti prospettano che anche Piazza della Loggia sia destinata ad entrare nella lista delle stragi senza colpevoli. Come però per Piazza Fontana all’improvviso avviene l’imprevedibile che ridà forza all’inchiesta: l’imprevedibile è qualcuno che parla e un giudice che ascolta incaponendosi di arrivare alla verità.

Nel 1984 il giudice Pier Luigi Vigna, che si occuperà anche del mostro di Firenze e sarà Procuratore Nazionale Antimafia, nell’ambito dell’inchiesta sugli attentati sui treni in Toscana interrogherà alcuni esponenti dell’estrema desta in carcere i quali accettano di fornire delle informazioni non solo su questi attentati, ma anche su molti altri verificatisi in tutta Italia. In particolare le rivelazioni più importanti vengono da Sergio Calore, Sergio Latini e Angelo Izzo (uno degli autori del massacro del Circeo) i quali, come già raccontato nel precedente articolo su Piazza Fontana, aprono nuove piste investigative sia sulla strage alla Banca Nazionale dell’Agricoltura che sulla strage di Piazza della Loggia. A ricevere le carte raccolte da Vigna è il nuovo giudice istruttore dell’inchiesta sulla strage bresciana Gianpaolo Zorzi, lui stesso di Brescia e che ricorda bene quel giorno quando uscì di casa sotto la pioggia per correre in piazza subito dopo aver udito il rumore dell’esplosione, coadiuvato dal pubblico ministero Michele Besson. La testimonianza più importante è quella di Sergio Latini che nel 1980 è in carcere a Trani e condivide la cella con Pierluigi Concutelli e Angelo Izzo. A maggio Latini ottiene un permesso per sposarsi e alla cerimonia partecipa anche Cesare Ferri con la moglie del tempo, Marilisa Macchi, e sarebbe stato in questa occasione che Ferri avrebbe detto a Latini che Ermanno Buzzi doveva essere eliminato in quanto stava per parlare. Latini, tornato in cella, riferì il messaggio a Concutelli che provvide alla prima occasione ad eseguire la sentenza; Angelo Izzo non solo conferma questa versione, ma aggiunge che il suo amico Gianni Guido, a sua volta partecipe dei fatti del Circeo, gli avrebbe una volta rilevato che responsabili della strage di Brescia erano Ferri e Giancarlo Rognoni. Per Zorzi e Besson diventa dunque fondamentale sentire Guido, che è latitante, ma è stato arrestato in Argentina perché girava con dei documenti falsi. Ad Aprile tutto è pronto per la rogatoria internazionale e i giudici stanno per prendere l’aereo per Buenos Aires quando giunge notizia che Guido è evaso dall’ospedale dov’era stato ricoverato. Sfortuna, ma c’è qualcosa di strano nella vicenda perché il giudice argentino invia ai colleghi italiani l’intero incartamento della procedura di rogatoria e si scopre che le autorità argentine avevano offerto alle autorità italiane già una data a febbraio per l’interrogatorio di Guido. L’appuntamento era stato però rinviato in quanto dall’ambasciata italiana di Buenos Aires era stato comunicato che Zorzi e Besson non era disponibili, ma non è vero perché i giudici bresciani non erano mai venuti a conoscenza di questo primo appuntamento che per loro sarebbe andato benissimo. Semplice errore o deliberato depistaggio? Ad oggi non si sa cosa accadde. Nonostante il flop Guido, l’indagine fa ulteriori passi in avanti grazie ad altri personaggi che si aggirano a metà strada tra la galassia dell’eversione nera e la criminalità organizzata, in particolare Alessandro Danieletti, che era uno del gruppo di Pian del Rascino, e Giuseppe Fisanotti, passati entrambi dalla militanza politica al traffico di droga. I due confermano il coinvolgimento di Ferri, ma c’è di più in quanto Fisanotti si è legato a Marilisa Macchi e racconta che la donna, durante uno sfogo nei confronti dell’ex-marito, abbia ammesso di essere stata a Brescia il giorno della strage insieme a Ferri. Ovviamente si tratta di una testimonianza de relato, che la Macchi non confermerà mai, ma a Zorzi e Besson pare sufficiente per tentare di andare all’attacco di quello che era sempre stato il punto forte della difesa di Ferri e cioè il suo alibi. Come si ricorderà il giovane neofascista sosteneva che il giorno della strage lui era a Milano, all’Università Cattolica, e di avere molti testimoni a sostegno. Si tratta di un alibi forte, ma che lascia insospettiti i giudici in quanto hanno la sensazione che Ferri si sia impegnato molto per farsi notare quel giorno; inoltre andando a risentire i testimoni indicati da Ferri avviene un piccolo incidente in quanto la ragazza bionda da lui indicata come quella che lo avrebbe visto, Daniela Rapetti, nega di ricordarsi di Ferri. Ferri allora fa un’inversione a U e dichiara di essersi confuso in quanto non era la Rapetti ad averlo visto, ma bensì Manuela Zumbini che, effettivamente conferma la circostanza, però è anche una ragazza notoriamente di destra e dunque qualche dubbio sulla veridicità della sua dichiarazione lo lascia. Zorzi e Besson ritengono che alla prova dei fatti l’alibi di Ferri non sia così inattaccabile in quanto se la bomba era stata piazzata, come si riteneva, prima delle 8:30, c’era il tempo per rientrare a Milano e farsi vedere alla Cattolica intorno alla dieci (con la complicità di qualcuno in quanto Ferri non guida e quindi deve aver ricevuto un passaggio). Viene anche svolto quello che in gergo si chiama esperimento giudiziale: un autista di sessant’anni alla guida i una Golf diesel riesce a coprire in un’ora e mezza la distanza dalla chiesa di Santa Maria Calchera a Brescia a largo Gemelli a Milano dove Ferri era stato visto. Si scopre poi anche che la sera prima della strage nella casa milanese di Ferri questi si era incontrato con i sanbabilini Fabrizio Zani, Mario di Giovanni, Antonio Federici e Patrizio Moretti; loro dicono per una partita a poker, ma i magistrati sospettano che questa sia stata la riunione organizzativa pre-azione. Infine c’è un’ultima testimonianza che Zorzi e Besson ritengono rilevante, giunge da Rita Ambiveri una ragazza che negli anni settanta, pur non essendo di destra, frequentava gli ambienti dei sanbabilini e aveva preso una cotta per Ferri al punto da accettare di battere a macchina, nell’ufficio dove lavorava, uno dei volantini di rivendicazione di un attentato delle Squadre d’Azione Mussolini. L’Ambiveri racconta ai magistrati che subito dopo che Ferri era stata fermato e rilasciato la prima volta lei lo ha chiamato per sapere cos’era successo e lui le rispose “No è stato un equivoco. Credevano di avermi visto a Brescia quella mattina.”; una dichiarazione che ai magistrati pare strana perché fatta quando Don Marco Gasparotti ancora non si era recato dai magistrati a riferirgli del suo incontro in Santa Maria Calchera con il giovane da lui indicato come Ferri. Come faceva questi a sapere già che c’era qualcuno che era convinto di averlo visto a Brescia il giorno della strage?

Nel 1987 Zorzi e Besson decidono di rinviare a giudizio Cesare Ferri e Alessandro Stepanof per la strage di Piazza della Loggia. Contro di loro ci sono molti elementi, ma effettivamente manca la pistola fumante cioè una testimonianza certa e incontrovertibile che collochi Ferri a Brescia demolendo il suo alibi. Ferri inoltre viene anche incriminato insieme a Sergio Latini per l’omicidio di Ermanno Buzzi. Ad assumere la difesa del neofascista è Franco De Cataldo vero esperto dei processi per i fatti degli anni di piombo avendo già difeso il generale Giovanni De Lorenzo, Giovanni Ventura e il giornalista Mino Pecorelli. Alla fine la corte d’assise manderà entrambi assolti per insufficienza di prove mentre la corte d’appello nel 1989 li assolverà con formula piena. Rimane la Cassazione, ma la Prima sezione presieduta da Corrado Carnevale confermerà la sentenza d’appello il 13 novembre 1989 senza sprecarsi a richiedere i 51 faldoni dell’istruttoria, che se ne restano a Brescia, e senza neanche dedicare alla strage un’udienza a parte, ma mettendola insieme ad un gruppo di altri dieci processi. Ferri, Latini e Stepanof sono anche risarciti dallo Stato per l’ingiusto processo.

Gianpaolo Zorzi però non si dà per vinto e, avendo fallito nel dare alla strage una verità giudiziaria, tenta almeno di darle una verità storica continuando ad indagare su quelli che sono rimasti fuori dal processo: Giancarlo Rognoni, Marco Ballan (uno dei leader di Avanguardia Nazionale), Marilisa Macchi e Fabrizio Zani. Nel 1993 però colpo di scena in quanto il giudice Guido Salvini, indagando su Piazza Fontana, scopre negli archivi padovani del Sismi, erede del Sid, l’identità della fonte “Tritone”. Perché è importante la fonte “Tritone”? Perché questa il 6 Luglio 1974 aveva fornito informazioni al centro Cs di Padova del Sid finite in una relazione nella quale si affermava che in quell’anno si erano svolte delle riunioni clandestine in cui si era decisa la ricostruzione di Ordine Nuovo dopo lo scioglimento per decreto voluto dal ministro Taviani. Uno di questi incontri era avvenuto ad Abano Terme tre giorni prima della strage di Brescia e in un incontro seguente Carlo Maria Maggia, reggente di Ordine Nuovo per il Triveneto, aveva detto che la strage bresciana “non doveva rimanere un fatto isolato” e che bisognava realizzare altre “azioni terroristiche di grande portata da compiere a breve scadenza al fine di aprire un conflitto interno risolvibile solo con lo scontro armato”. Infine il 16 Giugno “un giovane di Mestre, collaboratore del Dottor Maggi si è recato a Brescia per incontrarsi con alcuni camerati”. Il nome della fonte “Tritone” è Maurizio Tramonte all’epoca giovane di estrema destra, ma anche, come molti altri, informatore dei servizi segreti. Nel 1993 Tramonte è agli arresti domiciliari a Matera per reati economico-finanziari e Zorzi si precipita ad interrogarlo; l’incontro è ricordato dal giudice bresciano con toni drammatici “Tramonte fa il furbo. Fa lo slalom tra falsità e reticenze. Io lo ammonisco, sono a un passo dall’arrestarlo, ma il codice non me lo permette. Alla fine devo cedere e tornare a Brescia a mani vuote, anche se ho la sensazione di essere ancora una volta arrivato a un soffio dalla verità.”. Il 23 Maggio 1993 Zorzi firma la sentenza d’istruttoria nella quale afferma essere acquista l’evidenza probatoria dell’area nella quale è maturata la strage di Brescia, quella degli ambienti neofascisti milanesi in contatto con il gruppo ordinovista del Veneto, nonché del fatto che vi sono state coperture istituzionali che hanno impedito l’accertamento della verità attraverso la creazione a tavolino di una pista falsa a carico di Ermanno Buzzi e il suo “gruppo”. Purtroppo però mancano gli elementi per indicare responsabilità individuali e così il giudice bresciano non può far altro che mandare assolti tutti gli imputati dall’accusa di concorso in strage per non aver commesso il fatto: “Il quadro degli elementi raccolti, pur apprezzabile singolarmente e, soprattutto, nel loro insieme, non riesce ad attingere un grado di sufficienza probatoria tale da legittimare la previsione di una positiva verifica dibattimentale delle ipotesi accusatorie.”.

Nonostante l’uscita di scena di Gianpaolo Zorzi, che dopo quasi dieci anni da giudice istruttore passa a fare il pubblico ministero in corte d’appello, le indagini su Piazza della Loggia non cessano in quanto restano aperti i fascicoli sulla mancata rogatoria di Guido in Argentina e sulla testimonianza reticente di Tramonte. A ricevere il tutto sono i pubblici ministeri Roberto Di Martino e Francesco Piantoni che dovranno occuparsene secondo il nuovo codice di rito. Siamo agli inizi degli anni novanta e un po’ a seguito del cambiamento di orizzonte geopolitico dovuto alla fine della guerra fredda, un po’ in conseguenza del generale collasso del sistema politico a seguito di tangentopoli, ma le indagini sulle stragi ricevono nuova linfa grazie all’accesso che molti magistrati iniziano ad avere agli archivi dei servizi segreti e ad una nuova ondata di collaboratori di giustizia. In particolare decisivo sarà Vincenzo Vinciguerra, autoaccusatosi della strage di Peteano, che nel ricostruire la propria militanza, a suo dire, controcorrente anche rispetto ai suoi camerati troppo legati a doppio filo con gli apparati dello Stato, fornisce il contesto per molti dei fatti degli anni di piombo. C’è poi Carlo Digilio, l’armiere di Ordine Nuovo in Veneto nonché l’agente “Erodoto” della CIA, che, dopo un’esperienza a reclutare cubani anticastristi a Santo Domingo, viene estradato in Italia e inizia a collaborare con i giudici di Milano e di Brescia. Infine c’è Martino Siciliano altro esponente del gruppo ordinovista di Mestre che contribuisce ad accendere i riflettori su una figura in particolare: Delfo Zorzi. Zorzi negli anni settanta oltre ad essere uno studente affascinato dal Giappone e dalla sua cultura, è anche il braccio destro di Carlo Maria Maggi e in lui i magistrati bresciani individuano la persona che, stando al rapporto del Sid ispirato da Tramonte, si sarebbe recato a Brescia quasi un mese dopo la strage per incontrare alcuni camerati locali. Di Martino e Piantoni si convincono che la strage di Brescia sia nata, come anche quella di Piazza Fontana a Milano, negli ambienti ordinovisti veneti con i milanesi del gruppo “La Fenice” come supporto. Ritengono anche di poter dare un nome all’esecutore materiale cioè Giovanni Melioli, ordinovista di Rovigo, morto intanto di overdose nel 1991. Si giunge così alla richiesta d’arresto per Maggia, Tramonte e Zorzi che però da anni si è trasferito in Giappone, prendendone anche la cittadinanza, dov’è divenuto miliardario con l’importazione di prodotti italiani (presterà nel 1991 a Maurizio Gucci trenta miliardi a un tasso d’usura per permettere all’imprenditore italiano di salvare la proprietà del marchio della moda dalla scalata dei suoi soci arabi). Maggi e Zorzi sono poi anche imputati a Milano nell’ultima inchiesta per la strage di Piazza Fontana nata dalle indagini del giudice Guido Salvini.

Il 3 Aprile 2007 Di Martino e Piantoni chiedono il rinvio a giudizio per tutti e tre gli imputati con l’accusa di concorso i strage e omicidio volontario plurimo. Chiedono altresì il rinvio a giudizio di Martino Siciliano, del suo difensore Fausto Maniaci e del difensore di Zorzi Gaetano Pecorelli per favoreggiamento personale di Delfo Zorzi; l’ipotesi è che Zorzi abbia tentato, per il tramite dei due avvocati, di comprare la ritrattazione di Siciliano dietro un pagamento di centocinquanta milioni di dollari. Il processo poi passerà per competenza a Milano dove saranno tutti assolti, ma il fatto che Pecorelli, oltre ad essere l’avvocato di Zorzi, sia anche uno dei difensori di Silvio Berlusconi farà dire al Pm di Milano Meroni (che si occupa della strage di Piazza Fontana) che il governo italiano non mostra alcuna volontà politica di ottenere l’estradizioni di Zorzi. Intanto il 3 Ottobre la lista di coloro di cui è richiesto il rinvio a giudizio si allunga; vi entrano infatti: Francesco Delfino, intanto divenuto generale dei carabinieri, il fondatore di Ordine Nuovo Pino Rauti e Gianni Maifredi, a suo tempo già coinvolto nella vicenda del Mar di Fumagalli. Stando a Carlo Digilio il progetto della strage di Piazza della Loggia sarebbe nato in alcune riunione di Ordine Nuovo tenute in provincia di Verona e a Verona stessa in un appartamento di Via Stella; la compagna dell’epoca di Maifredi, Clara Tonoli, conferma queste notizie e riferisce dello stretto legame che c’era tra Maifredi e Delfino. Anche Maurizio Tramonte intanto ha iniziato a fare delle rivelazioni affermando che vi furono nel 1974 riunioni operative di Ordine Nuovo in Veneto alle quali avrebbe partecipato lo stesso Delfino. Il 14 Febbraio 2008 il Gup Lorenzo Benini rinvia tutti a giudizio e il 25 Novembre dello stesso anno si apre il terzo processo per la strage di Piazza della Loggia.

Maurizio Tramonte durante una fase dell’ultimo processo per la strage.

Dopo quasi due anni di processo, il 21 Ottobre 2010, Di Martino e Piantoni precisano le conclusioni chiedendo la condanna per tutti gli imputati tranne per Pino Rauti, del quale chiedono l’assoluzione “per non aver commesso il fatto” sebbene risulti evidente la sua responsabilità morale e politica. Il 16 Novembre la corte d’assise assolve tutti gli imputati sulla base dell’art. 530 2°comma c.p.p. cioè assoluzione quando manca, è insufficiente o contradditoria la prova che gli imputati hanno commesso il fatto. Due anni dopo il 14 Aprile si conclude anche il processo d’appello che conferma le assoluzioni, ma nella sentenza si afferma essere dimostrata la complicità nella strage degli intanto deceduti Carlo Digilio (colui che preparò la bomba), Marcello Soffiati (colui che la portò a Brescia) ed Ermanno Buzzi che il tribunale bresciano ritiene aver avuto un ruolo nell’esecuzione della strage, venendo poi ucciso quando diede segno di non essere disposto a restarsene con il cerino in mano. Le parti civili sono altresì condannate al pagamento delle spese processuali. Insomma il terzo processo per Piazza della Loggia sembra destinato a seguire i binari dell’ultimo processo per Piazza Fontana: una possibile ricostruzione storico/giudiziaria del contesto e dell’ambiente nel quale maturò la strage, ma l’impossibilità di affermare responsabilità individuali; la Cassazione però nel Febbraio 2014 annulla le assoluzioni di Maggi e Tramonte disponendo per loro un nuovo processo d’appello. Stavolta l’esito del secondo grado è diverso e il 22 Luglio 2015 entrambi gli imputati sono condannati all’ergastolo, sentenza confermata dalla Cassazione il 20 Giugno 2017. Subito dopo Tramonte tenterà una velleitaria fuga, ma sarà immediatamente arrestato in Portogallo ed estradato in Italia mentre Maggi non entrerà mai in carcere causa l’età avanzata e le pessime condizioni di salute che infatti, un anno dopo, lo porteranno alla morte. Resta invece ancora aperto un ultimo troncone d’indagine legato alla figura di Marco Toffaloni, all’epoca della strage giovane ordinovista che sembra comparire in alcune foto scattate in Piazza della Loggia subito dopo lo scoppio della bomba e che, stando a un collaboratore di giustizia, si sarebbe vantato di “aver avuto un ruolo tutt’altro che marginale nella strage”.

Nelle conclusioni raggiunte la sentenza dell corte di Cassazione su Piazza della Loggia è in perfetta continuità con quella per l’ultimo processo di Piazza Fontana, la quale, come ho già raccontato, fa tutto fuorché non fornire una precisa ricostruzione di quella strage. La Suprema Corte conferma infatti che entrambe le stragi furono organizzate da Ordine Nuovo del Trivenento, con la complicità dei gruppi neofascisti lombardi con cui era in contatto da tempo come il gruppo “La Fenice” di Giancarlo Rognoni, e che in entrambi i casi tanto gli autori quanto i mandanti godettero di protezioni istituzionali tali da impedire l’accertamento della verità. In sostanza le due sentenze su Piazza Fontana e Piazza della Loggia confermano, almeno da un punto di vista giudiziario, l’esistenza di quella che è stata chiamata la strategia della tensione e cioè una precisa regia superiore delle stragi che insanguinarono l’Italia le quali ebbero i gruppi neofascisti come manodopera ispirata e protetta dagli apparati di sicurezza dello Stato. La strage bresciana però presenta delle differenze sostanziali rispetto a molte delle altre stragi che è opportuno analizzare. In primo luogo al contrario di Piazza Fontana, del fallito attentato al treno da parte dell’ordinovista Nico Azzi e alla strage della questura di Milano (quest’ultima secondo alcune ricostruzioni non supportate dalla Cassazione) Piazza della Loggia, così come la strage dell’Italicus di pochi mesi dopo, non fu una strage “provocatoria” cioè costruita per far ricadere la colpa sulla sinistra; come abbiamo visto non ci furono mai molte discussione sull’area politica alla quale andasse ricondotta la strage e non si ebbe mai in ambito giudiziario una “pista rossa” fatta eccezione per la telefonata cubana che comunque non si sviluppò mai in un’autentica ipotesi alternativa (brevemente durante il processo d’appello della seconda istruttoria il Sismi fornì ai giudici un rapporto del 1974 nel quale si affermava che parlando al telefono con la moglie dell’ambasciatore cubano a Roma, la segretaria bresciana dell’associazione Italia-Cuba il giorno della strage avrebbe detto che lei “lo sapeva” già dalla sera prima. In realtà ad un esame più accurato della telefonata si scoprì che la signora aveva detto che “se lo sentiva” cioè faceva riferimento al clima pesante che un po’ tutti respiravano a Brescia in quei mesi). Per capire storicamente Piazza della Loggia dobbiamo prendere forse in considerazione due elementi da collegare tra loro. In primo luogo la strage è stata dalla giustizia attribuita ad Ordine Nuovo che si è dunque accertato aver continuato ad operare clandestinamente anche dopo il suo scioglimento per decreto nel Novembre 1973. Ordine Nuovo è una dei gruppi che, stando all’inchiesta del giudice padovano Giovanni Tamburino, andavano a comporre quella rete eversiva che è passata alla storia come “Rosa dei venti”; rete che, stando alle dichiarazioni di Amos Spiazzi e di Roberto Cavallaro a Tamburino era una struttura “atlantica”, cioè NATO, costituita subito dopo il fallimento del piano SOLO del generale De Lorenzo. Altri gruppi di questa rete sono “La Fenice”, Giustizieri d’Italia (autori dello stupro di Franca Rame), probabilmente GLADIO nonché il Mar di Carlo Fumagalli e proprio su quest’ultimo dobbiamo concentrare l’attenzione perché esso oltre ad essere un unicum, in quanto appare come il punto d’incontro tra quella destra non fascista che mira al golpe bianco per isolare istituzionalmente il PCI e i neofascisti che invece sognano il golpe sul modello greco o sudamericano, è anche, come visto, strettamente legata alle vicende della strage di Brescia. Fumagalli è infatti arrestato diciannove giorni prima la strage su ordine del giudice bresciano Arcai che è una delle “vittime” della pista Buzzi, che per altro sposta l’attenzione degli investigatori dai gruppi sanbabilini collaterali al Mar al “gruppo Buzzi” che invece non ha contatti con nessuno. Fumagalli sarà poi condannato, caso unico nella storia repubblicana, per “cospirazione politica” (art. 304-305-306 c.p.) in un inchiesta in cui però sono lasciati senza risposta parecchi punti oscuri come il comportamento dei carabinieri del comandante Delfino che hanno condotto l’indagine, le coperture offerte dai carabinieri al già citato Gianni Maifredi nonché il mistero del signor Jordan di cui si parla in alcune telefonate: nome di copertura di Fumagalli oppure riferimento a Jordan Vesselinoff, massone molto ammanicato con i vertici dei servizi segreti e della Dc? In secondo luogo dobbiamo tenere conto di quando avviene la strage di Piazza della Loggia e cioè ad appena quindici giorni dal referendum sul divorzio che, per la prima volta dal 1948, ha visto la Dc messa in minoranza creando molto allarme in vari settori degli apparati di sicurezza dello Stato per un possibile spostamento a sinistra dell’asse politico del paese. Il referendum del 1974 segna l’inizio della grande corsa del PCI di Berlinguer che si concluderà con il +7,22% alle elezioni del 1976 che legittimano il leader comunista a portare avanti la sua agenda per il “compromesso storico”, elaborata a seguito dello shock per il golpe cileno del 1973. Si tratta dunque di un momento, quello della fine primavera-estate 1974 di grande entusiasmo per la sinistra, in una fase in cui contemporaneamente, stando all’inchiesta di Tamburino, il progetto golpista della Rosa dei venti va naufragando sotto i colpi delle inchieste giudiziarie sebbene la struttura rimanga ancora in piedi. E allora, seguendo l’immagine dei cerchi concentrici offerta alla commissione stragi dal collaboratore di Aldo Moro Corrado Guerzoni, possiamo immaginare che le stragi di Brescia e dell’Italicus per i cerchi più interni, la manodopera neofascista di Ordine Nuovo e affini, abbiano lo scopo di provocare la sinistra ed esasperare gli animi così da favorire una situazione di conflitto che giustifichi una soluzione cilena; mentre per i cerchi più esterni, i mandanti istituzionali, quello che si vuole ottenere è spegnere gli entusiasmi del PCI e richiamarlo alla realtà delle regole della guerra fredda che non possono ammettere che il più grande partito comunista dell’occidente vada al governo, anche tramite elezioni democratiche. Obiettivo che si può dire raggiunto in quanto, come detto, per tutti gli anni settanta il PCI lavorerà solo in prospettiva di compromesso storico senza mai affondare la lama contro la Dc in merito a ciò che intanto stava emergendo sulle stragi e tenendo un comportamento di legge e ordine a volte più duro di quello della stessa Dc sia verso i neofascisti che verso la sinistra extraparlamentare.

Dopo l’ultima sentenza su Piazza della Loggia molti giornali si sono affrettati a scrivere che per la prima volta avevamo la verità e dei colpevoli per una strage politica degli anni di piombo. In realtà non è così perché, a voler dedicare qualche ora a leggere le sentenze, la verità e i colpevoli li abbiamo avuti anche per molte altre stragi, anche se non sempre ciò è stato sufficiente per ottenere quella certezza giudiziaria richiesta per addebitare responsabilità individuali. Come detto leggendo le sentenze dei tribunali di primo e secondo grado nonché della Cassazione su molte delle stragi (Piazza Fontana, Piazza della Loggia, stazione di Bologna, Italicus, Peteano e Gioia Tauro) possiamo parlare di una conferma giudiziaria della strategia della tensione con precise responsabilità riconosciute sia a gruppi e persone identificate dell’estrema destra nonché di organi e persone degli apparati di sicurezza dello Stato. Di piazza della Loggia ciò che resta però è, oltre al dolore per i morti, quella registrazione che, insieme alla telefonata delle BR che annunciano l’uccisione di Aldo Mora, resta a mio parere il più terribile documento in merito a ciò che successe in quegli anni in Italia. Tanto la registrazione di piazza della Loggia quanto la telefonata della BR andrebbero fatte sentire a tutte le nuove generazioni per mantenere viva la cruda realtà di ciò che furono gli anni di piombo così da evitare che il tempo affievolisca i fatti e determini la nascita di un’ingiustificata mitologia su ciò che fu.

BIBLIOGRAFIA:

  • Aldo Giannulli, Bombe a inchiostro
  • Gianni Barbacetto, Il grande vecchio
  • Nicola Rao, La fiamma e la celtica
  • Nicola Rao, Il sangue e la celtica