
L’attentato a Sarajevo e la conseguente crisi di Luglio fu solo l’ultimo di una serie di momenti di tensione che l’Europa attraversò da che, nel 1894, l’alleanza franco-russa gettò le basi per la divisione del continente in due blocchi contrapposti. Lo sparo di Sarajevo, sebbene tragico, non fu di per sé un evento più o meno grave di altre situazioni che in precedenza si erano venute a creare, come l’annessione austriaca della Bosnia o le crisi marocchine, per cui a rendere diversa la situazione che si venne a creare fu il contesto inteso come l’insieme di opinioni, preconcetti e rivalità personali che gravavano in capo ai governi del vecchio continente in ragione di ognuna di queste crisi precedenti. Quando si giunse così a quella fatale estate del 1914 questo groviglio di eredità determinò i modi di agire delle cancellerie europee che non si avvidero della tempesta in arrivo finché la scena fu presa dai militari che, terrorizzati all’idea che il proprio paese potesse farsi cogliere di sorpresa dallo scoppio delle ostilità, non agirono per evitare il conflitto, ma solo per non perderlo. Con questa nuova serie di articoli che inizio oggi proverò a ricostruire come si giunse allo spegnersi della luce sull’Europa cercando di mostrare come, sebbene nella storia nulla vi sia di inevitabile in assoluto, la forma mentis dei giocatori in campo nel Luglio 1914 era a tal punto condizionata dal prodotto di trent’anni di storia da creare un’alchimia perfetta per la catastrofe scongiurabile solo da una reciproca risolutezza che, purtroppo, nessun uomo di stato dimostrò di avere.
PS: per ovvie ragioni di spazio una analisi particolareggiata di ogni singolo trattato, accordo o negoziato intercorso tra il 1866 e il 1914 mi è impossibile; così per chiunque voglia entrare nei dettagli più intimi consiglio i tre seguenti libri: “I sonnambuli” di C. Clark, “1914” di M. Macmillan e soprattutto il monumentale “Le origini della guerra del 1914” di L. Albertini riedito in tre volumi qualche anno fa da Libreria storica goriziana.
“Una qualche maledetta sciocchezza nei Balcani” questa sarebbe stata secondo Bismark la ragione per cui la Germania si sarebbe infine trovata a combattere una guerra insieme al resto d’Europa. La precisione profetica del cancelliere di ferro può apparire incredibile se non si tenesse conto del fatto che, alla fine dell’ottocento, la penisola balcanica era rapidamente passata dall’essere una sonnacchiosa periferia a una polveriera su cui erano seduti tre imperi con uno scugnizzo nascosto nell’ombra e pronto a dare fuoco a tutto da un momento all’altro. I tre imperi erano la Russia, l’Austria-Ungheria e la Turchia mentre lo scugnizzo era la Serbia; ma le origini di quella polveriera affondano le loro lontane radici in quell’evento che fu il punto di svolta della storia Europa: la nascita del Reich tedesco. La guerra dei fratelli del 1866 e la successiva guerra franco-prussiana ebbero infatti l’effetto storico di espellere l’Austria dall’area tedesca che, fino a quel momento, era stato il suo centro di gravità costringendo la corte di Vienna a venire a patti con l’elemento magiaro per salvare la monarchia danubiana. Già dopo la perdita della Lombardia e la nascita di un’Italia unita, l’Austria si era convinta che un accordo con le altri componenti etniche, fino ad allora null’altro che sudditi di un impero tedesco, era imprescindibile per evitare ulteriori amputazioni territoriali. Lo shock però del 1866 fu sfruttato dai magiari per imporre l’Aushleich (pareggiamento-compromesso) cioè il dualismo: due corone, due governi, due costituzioni appunto l’Austria-Ungheria. Oggi questo evento, grazie anche ai film su Sissi riproposti puntualmente ogni estate, pare un bellissimo momento in realtà esso, e ne furono subito consapevoli in molti, conteneva in sé i germi della catastrofe perché escludeva completamente dal potere la terza anima dell’Impero: gli slavi proprio nel momento in cui nelle loro coscienze si era risvegliata la fiamma del nazionalismo. Bisogna capire infatti che gli ungheresi non puntarono sul dualismo solo allo scopo di vedere riconosciuta la loro identità nazionale, ma anche al fine di mettere la museruola alle altre componenti delle terre della corona di Santo Stefano, che comprendeva anche la Croazia-Slovenia e la Transilvania nonché l’odierna Slovacchia, le quali, prese tutte insieme, avrebbero potuto mettere in minoranza l’aristocrazia terriera magiara. Sebbene si parlasse di pareggiamento in realtà di fatto l’Austria, per salvare la monarchia, accettò di legarsi mani e piedi agli ungheresi che divennero i veri controllori della politica interna imperiale e che il risultato sarebbe stato questo l’avevano intuito a suo tempo tanto i cechi quanto i croati che all’Aushleich avrebbero preferito una costituzione federale che riconoscesse un ruolo anche agli slavi. Fermamente intenzionata a mantenere i privilegi ottenuti Budapest, dopo il 1867, mise rabbiosamente il veto a ogni timido tentativo di Vienna di fare concessioni agli slavi ottenendo come unico risultato di spingerli a iniziare a pensare a un loro destino fuori dall’Impero. L’ingenuità ungherese fu di non capire che, nel secolo dei nazionalismi, l’unico modo per tenere unito un tale gigantesco crogiolo di etnie era fare in modo che tutte queste sentissero di avere maggiori vantaggi dallo stare unite piuttosto che andare ognuna per la sua strada; quando gli italiani non sentirono più questo sentimento il Lombardo-Veneto andò perduto e adesso anche gli slavi meridionali stavano prendendo la stessa direzione perché a sud era emerso uno stato che aveva l’ambizione di diventare il loro Piemonte: la Serbia.
Nel 1389, a seguito della battaglia del Kossovo, la Serbia divenne una provincia dell’impero ottomano e rimase tale finché, tra la fine del XVIII e gli inizi del XIX secolo, la Turchia iniziò ad essere il grande malato d’Europa. Approfittando della debolezza dei loro oppressori due famiglie rivali gli Obrenovic e i Karageorge si posero alla guida del processo d’indipendenza nazionale; dopo una serie di alterne vicende tra omicidi e usurpazioni 1830 Milos Obrenovic ottenne il riconoscimento della dignità principesca da parte del sultano che però manteneva, nominalmente, il possesso della Serbia. Suo figlio Michele, salito al trono nel 1860, fu il primo a teorizzare un’unità dei Balcani a guida serba e guardò sia alla creazione di un grande regno serbo-bulgaro sia all’acquisizione della Bosnia-Erzegovina che, sebbene storicamente non avesse mai fatto parte della Sebia, restava la terra dov’era nata la lingua serba e dove le antiche tradizioni slave aveva meglio resistito all’occupazione ottomana; oltre a ciò la Bosnia era insieme al Montenegro la principale possibilità per la Serbia di ottenere uno sbocco sul mare. La regione era però finita al centro delle ambizioni anche dell’Austria-Ungheria ufficialmente per rendere meglio difendibile la Dalmazia in realtà per ottenere un riscatto dopo la perdita del Lombardo-Veneto e la sconfitta con la Prussia oltre che per evitare un ingrandimento proprio della Serbia evento considerato da Vienna, sin dai tempi di Metternich, una iattura. Nella catena di eventi che avrebbero reso questa terra di confine una delle zone più calde del continente un ruolo decisivo lo ebbe il conte Andrassy prima primo ministro ungherese e poi ministro degli esteri dell’Impero. Fintanto che Andrassy guardò la questione solo da un punto di vista magiaro fu fermamente contrario all’ipotesi di aggiungere altri slavi nell’impalcatura dell’Impero e, anzi, propose lasciar occupare la Bosnia alla Serbia così da accattivarsene le simpatie. Quando però il conte divenne ministro degli esteri imperiale cambiò opinione perché, ritenendo che l’unità tedesca e italiana avessero escluso qualsiasi possibilità per l’Impero ad occidente, guardò ai Balcani come una terra su cui l’Austria-Ungheria doveva imporre direttamente o indirettamente il suo padronato. Il progetto di Andrassy era che, attraverso una serie di annessioni e di protettorati, la duplice monarchia estendesse il suo controllo sino a Salonicco creando così una gigantesca zollverein dominata dall’economia austriaca oltre che superare l’inconveniente di avere a Triste l’unico posto commerciale utilizzabile; primo passo di questo avanzata a Oriente doveva essere proprio l’annessione della Bosnia-Erzegovina e l’inserimento della Serbia nella sfera d’influenza asburgica. Se la partita si fosse limitata solamente a Serbia e Austria-Ungheria non ci sarebbe stata storia perché, con l’Impero Ottomano in pieno disfacimento, prima o poi i piccoli principati danubiani avrebbero dovuto accettare tra un protettorato asburgico e l’annessione, ma in capo c’era un terzo giocatore che rischiava di mettere un bastone tra le ruote ai sogni del conte ungherese: la Russia. Anche l’Impero degli Zar guardava infatti con interesse alla penisola perché essa era la via principale per giungere al suo grande sogno: Costantinopoli. Vi erano ovviamente ragioni romantiche in questa ossessione per la città sul Bosforo, dopotutto la Russia si considerava la legittima erede dell’Impero Bizantina e dunque l’ambizione di riconvertire Santa Sofia in una chiesa era sempre stata nella mente degli Zar; ma soprattutto c’erano ragioni di carattere strategico perché Costantinopoli voleva dire il controllo sui Dardanelli e quindi la possibilità per i russi di mandare nel Mediterraneo le proprie navi da guerra di stanza nel Mar Nero. Già nel 1853 il timore inglese di una Russia nel Mediterraneo contribuì allo scoppio della Guerra in Crimea al termine della quale fu sancita la chiusura degli stretti alla flotta russa; San Pietroburgo però non accettò mai questo stato di cose e rimase in attesa del momento giusto per mandare al macere il Tratto di Parigi magari accordandosi proprio con l’Austria-Ungheria per una spartizione dei possedimenti ottomani in Europa. Oltre a ciò però l’interesse russo per i Balcani era anche accresciuto da ragioni di carattere ideologico perché, proprio alla metà dell’ottocento, Nikolaj Danilevkij diede forma alle teorie panslaviste nate all’inizio del secolo nel suo saggio “Russia ed Europa” in cui sosteneva l’idea di una federazioni di stati slavi con a capo, ovviamente, Impero Russo; passaggio fondamentale per giungere a ciò era la liberazione dei popoli slavi sotto il gioco ottomano e asburgico. Il Panslavismo si diffuse rapidamente come una nuova fede sia negli ambienti intellettuali che diplomatico-militari tanto della Russia che della Serbia; chi però vi rimase freddo fu lo Zar Alessandro II che, interamente preso dai suoi progetti di riforma della società russa, non aveva alcuna voglia di lanciarsi in avventurose conquiste dall’esito per nulla scontato.
Nel 1875, sobillati sia dall’ambasciatore russo a Costantinopoli Generale Ignatief che dal governatore austriaco della Dalmazia, bosniaci e bulgari si ribellarono al dominio turco. Né Vienna né San Pietroburgo volevano entrare in guerra con la Turchia e il loro obiettivo era di porsi come arbitri tra ribelli e turchi in modo tale da creare una situazione di fatto che portasse almeno al distacco della Bosnia-Erzegovina dal dominio degli ottomani; ma se la Sublime Porta si disse disponibile a fare delle concessioni i ribelli non furono altrettanto disponibili e la rivolta bulgara fu repressa nel sangue. In Bosnia-Erzegovina le cose stava invece prendendo una piega pericolosa perché gli insorti avevano proclamato come loro sovrani i principi di Serbia e di Montenegro e a Belgrado il nuovo re Milan era spinto obtorto collo dai panslavisti a scendere militarmente in campo a fianco dei fratelli. Alla fine nel maggio 1876 la Serbia ruppe gli indugi e, insieme al Montenegro, dichiarò guerra alla Turchia uscendo però pesantemente sconfitta e costretta a chiedere l’aiuto delle grandi potenze per ottenere una pace che Costantinopoli non sembrava intenzionata a concedere così a buon mercato. Alessandro II e Andrassy avevano cercato di mantenere il controllo della situazione stabilendo le modalità di divisione della Bosnia in caso di vittoria Serba o di ritorno allo status quo in caso di sua sconfitta; l’ostilità turca a una pace senza vantaggi però spingeva inevitabilmente la Russia nel conflitto perché, sebbene lo zar non vi fosse entusiasta, egli restava pur sempre il protettore degli ortodossi e il suo prestigio sarebbe rimasto leso da un mancato intervento. Per ottenere la neutralità austriaca Alessandro II stipulò la convenzione di Budapest che non prevedeva alcuna concessione ai serbo-montenegrini, ma solo vantaggi diretti per la Russia, in particolare la rimessa in discussione della questione degli stretti, oltre che la creazione di alcuni nuovi stati autonomi come la Bulgaria e l’Albania nonché il passaggio della Bosnia agli Asburgo. La narrazione della guerra russo-turca del 1877 sarebbe troppo lunga e ci porterebbe troppo lontano dal nostro tema per cui basti dire che i turchi furono un avversario molto più ostico di quanto ci si era aspettati e che, quando infine gli eserciti dello Zar furono alle porte di Costantinopoli, il Regno Unito fu a un passo dall’intervenire al fianco della Sublime Porta per impedire il crollo dell’Impero Ottomano. Questo rischio comunque non si concretizzò mai perché i turchi si affrettarono ad accettare l’offerta di pace fattagli dalla Russia, la così detta pace di Santo Stefano, in cui però tutto ciò che si era stabilito con l’Austria-Ungheria venne bellamente ignorato: infatti oltre a una Bosnia-Erzegovina autonoma, a un’indipendenza piena per Romania, Serbia e Montenegro nonché all’annessione russa della Bessarabia veniva creata una grande Bulgaria che andava dal
Danubio alla Macedonia sino a lambire Salonicco. Tanto Londra quanto Vienna andarono su tutte le furie soprattutto per quel grande stato slavo alle porte di Costantinopoli su cui i russi avevano per due anni il diritto di mantenere un esercito. Il gabinetto inglese pareva sul punto di aprire le ostilità con la Russia e Alessandro cercò di nuovo un accordo con Andrassy per isolare diplomaticamente il Regno Unito; il conte magiaro però, consapevole di avere il coltello dalle parte del manico, giocò al rialzo pretendendo oltre a una riduzione della Bulgaria in favore di una Macedonia indipendente anche l’annessione all’Austria-Ungheria non più solo della Bosnia-Erzegovina, ma anche del Sangiaccato di Novi Pazar, una striscia di terra che impediva un collegamento diretto dei confini di Serbia e Montenegro, nonché del territorio albanese sino al lago di Scutari. Andrassy però commise un errore perché, convinto di poter forzare la mano russa anche senza una guerra, temporeggio rispetto alle richieste inglesi di un accordo indispettendo Londra e facilitando la salita in cattedra di Bismark che, desideroso di dare alla Germania il ruolo d’arbitro d’Europa, invitò tutte le grandi potenze a Berlino per ridiscutere i termini della pace di Santo Stefano.
Il congresso di Berlino si aprì il 13 Giugno del 1878 e le decisione che vennero prese furono un tornante per la storia dei Balcani e un tassello fondamentale nella sequela di eventi che avrebbe portato all’esplosione della guerra del 1914. In primo luogo si discusse della Bulgaria che tutti erano d’accordo, tranne forse i panslavisti, andasse diminuita rispetto al trattato di Santo Stefano; l’accordo finale fu che questa, privata della Macedonia interamente restituita ai turchi, sarebbe stata divisa in due: una Bulgaria vera e propria parzialmente autonoma sotto Alessandro di Battenberg, nipote dello Zar, e il territorio meridionale detto della Rumelia Orientale che restava sotto il governo turco pur con un’ampia autonomia amministrativa. La Romania, che riceveva la Dobrugia in compensazione della Bressarabia che tornava ai russi, veniva elevata a stato pienamente autonomo insieme a Serbia e Montenegro che ricevevano a loro volta piccole concessioni territoriali. Nessuna concessione venne invece fatta alla Russia in merito alla questione degli stretti su cui pesava il veto assoluto del Regno Unito: mai si sarebbe dovuto concedere il libero passaggio di navi da guerra russe attraverso i Dardanelli mentre gli inglesi avrebbero sempre potuto inviare la propria flotta nel Mar Nero per difendere gli interessi della Turchia. Per quanto riguardava la Bosnia-Erzegovina l’Austria, sebbene tutte le potenze si fossero dette favorevoli all’annessione, accettò invece la strana formula di un suo controllo amministrativo (teoricamente temporaneo) delle due province che però sarebbero rimaste soggette all’autorità del Sultano. Anche per quanto riguardava il Sangiaccato la duplice si accontentò del diritto di potervi stanziare guarnigioni quando la completa occupazione, su cui alla fine il governo russo sembrava pronto a cedere, avrebbe significato impedire ogni possibilità di una futura unione della Serbia col Montenegro. L’atteggiamento di Andrassy a Berlino destò in seguito molte critiche perché difficilmente l’Austria-Ungheria si sarebbe trovata di nuovo nella situazione di poter ottenere la Bosnia-Erzegovina e il Sangiaccato praticamente col pieno consenso internazionale; è probabile che il ministro degli esteri della duplice non se la sentisse di tirare troppo la corda ritenendo sufficiente porre le basi per il suo progetto di una avanzata verso Salonicco. Va inoltre considerato che Andrassy doveva far digerire il trattato ai suoi connazionali magiari i quali erano già sulle barricate all’idea di un ulteriore aumento della componente slava nell’Impero fonte solo di problemi dal loro punto di vista e non si sbagliavano perché i croati si fecero subito avanti chiedendo che la Bosnia-Erzegovina venisse unita alla Croazia e alla Dalmazia per creare un terzo regno all’interno della monarchia che desse finalmente agli slavi il ruolo politico a cui ambivano. Vienna non aveva alcun pregiudizio a un’ipotesi del genere perché, non solo avrebbe stabilizzato definitivamente l’Impero, ma avrebbe altresì fatto abbassare un po’ la cresta agli ungheresi; non vi era però la volontà di andare al muro contro muro con i magiari quindi la proposta, primo abbozzo di quel trialismo che avrebbe potuto salvare gli Asburgo, fu fatta cadere con grande delusione dei croati. Molto altro ci sarebbe da dire rispetto al congresso di Berlino come il passaggio agli inglesi di Cipro, il via libera dato ai francesi per l’occupazione della Tunisia e l’insuccesso italiano, ma avremo modo di parlarne successivamente essendo meglio mantenere la nostra attenzione centrata sulla penisola balcanica. Qui il trattato, eccezion fatta per l’Austria, produsse solo scontenti: era scontento l’Impero Ottomano per le amputazioni subite, lo era la Bulgaria per esser stata ridotta, lo era la Serbia per non aver ottenuto la Bosnia e infine lo era la Russia panslavista che si sentiva defraudata dei frutti della vittoria. Né Russia né Serbia però andarono sul drammatico ritenendo che, essendo l’occupazione austrica della Bosnia solo temporanea, la cosa si sarebbe sempre potuta rimettere in discussione in un secondo momento per cui bastava aspettare e avere pazienza; inoltre la Russia in quel momento non ci teneva troppo a litigare con l’Austria-Ungheria e tanto Alessandro II quando il suo successore Alessandro III optarono per una composizione delle controversie con gli Asburgo in tema di Balcani sulla base del mantenimento dello status quo creatosi con il trattato di Berlino o, in caso di impossibilità di ciò, di modifiche solo previo accordi. Il tutto rientrò nel più grande disegno di Bismark dell’Alleanza dei tre imperatori che, unito con il primo trattato della Triplice, aveva lo scopo di isolare diplomaticamente la Francia creando in Europa una pax germanica.
L’alleanza dei tre imperatori si fondava sull’idea che i Balcani fossero divisi in due sfere d’influenza una austriaca comprendente Bosnia-Erzegovina, Serbia, Montenegro e costa adriatica e una russa di cui facevano parte Romania e Bulgaria. La Russia era perfettamente d’accordo su una schema del genere e lo stesso valeva per Bismark che non intendeva in alcun modo coinvolgere il Reich nel groviglio balcanico (famosa è rimasta la sua frase che “I Balcani interi non valgono le ossa di un solo granatiere di Pomerania”), ma chi vi si opponeva era l’Austria-Ungheria ormai completamente vittima della schizofrenia del suo dualismo. I successori di Andrassy al ministero degli isteri intendevano infatti, insieme ai militari, portare avanti il suo progetto per Salonicco e un tale avanzata in profondità nei Balcani avrebbe infine reso inevitabile la creazione di un terzo polo slavo nell’impero, ma l’Ungheria ora guidata da Stefan Tisza, una sorta di Giolitti magiaro, mise il veto su qualsiasi ulteriore acquisizione di terre slave riuscendo infine a spuntarla. Lentamente infatti il ministero degli esteri rivide al ribasso le sue ambizioni finendo per limitarle all’annessione formale, prima o poi, della Bosnia. Se però la duplice rinunciava a espandersi nei Balcani era necessario allo stesso tempo impedire che nella penisola si formasse un grande stato slavo che potesse divenire un magnete per croati e sloveni; ciò era possibile solo garantendo lo status quo il che però era impossibile se la Russia fosse stata l’unica attrice in Bulgaria il più probabile candidato a divenire l’aggregatrice degli slavi meridionali. La completa incapacità austrica di cogliere il momento favorevole per fare dei Balcani il proprio giardino di casa è ben evidenziata dalla gestione del rapporto con Serbia nel ultimo ventennio dell’ottocento. Qui re Milan, indispettito dalla preferenza data dallo zar alla rivale Bulgaria, si gettò completamente nelle braccia di Vienna facendo della Serbia un satellite austriaco interamente dipendente da essa sia nei commerci che nella politica estera. Milan arrivò addirittura a offrire la propria abdicazione per permettere agli Asburgo di inglobare la Serbia; ovviamente la proposta fu lasciata cadere per il solito veto ungherese, ma viene da chiedersi, al netto della sua concreta realizzabilità, quali effetti avrebbe avuto sulla storia Europea se quest’annessione fosse andata a buon fine. La Russia era alquanto indispettita dalla mancanza di disponibilità dell’Austria a discutere di una equa ripartizione delle sfere di influenza e ciò contribuiva a mantenere i Balcani in uno stato di tensione anche perché, nel frattempo, anche l’Italia vi si era affacciata desiderosa di estendere il suo controllo sul mare Adriatico. Il principale obiettivo del nostro paese era l’Albania data la vicinanza di questa terra con le coste pugliesi, ma l’Austria, a margine delle trattative per la triplice, riuscì a strappare anche a Roma la garanzia dello status quo impegnandosi solo, nel caso questo fosse stato impossibile da mantenere, a offrire eque compensazioni che però non avrebbero riguardato terre già nel possesso dell’Impero (leggi Trento e Triste) né si sarebbero applicate nel caso di un’annessione della Bosnia.
Nonostante gli sforzi di Bismark per tenere Austria e Russia nello stesso campo, arrivò a minacciare Vienna che se fosse scesa in guerra per i Balcani non l’avrebbe supportata, l’alleanza da lui creata stava andando vero il baratro a causa dell’inconciliabilità dei due punti di vista. Il punto di rottura si ebbe nel 1885 quando, a seguito di un ammutinamento di truppe, venne unilateralmente proclamata unione della Bulgaria con la Rumelia occidentale . La Serbia, per nulla intenzionata a permettere un tale ingrandimento del pericoloso vicino, dopo aver ottenuto l’assenso di Vienna scese in guerra venendo però duramente sconfitta. L’Austria-Ungheria si affrettò a correre in aiuto del proprio alleato minacciando la Bulgaria che, se non avesse accettato di trattare la pace, avrebbe inviato le sue truppe in Serbia il che avrebbe portato a un contemporaneo ingresso dei russi in Bulgaria. All’epoca Alessandro di Bulgaria era ai ferri corti con San Pietroburgo a causa della sua volontà di avere una politica autonoma e quindi il timore che lo zar potesse cogliere l’occasione per costringerlo ad abdicare ebbe la meglio. La Russia però non aveva alcuna intenzione di forzare a tal punto la situazione e l’iniziativa austrica irritò enormemente la corte pietroburghese anche perché Vienna, allo scopo di guadagnare crediti con gli ungheresi russofili, garantì che a qualsiasi azione russa nei Balcani sarebbe seguita una reazione austriaca. La vicenda Bulgara si chiuse infine col segno positivo per i russi perché il Sultano fu costretto a nominare il principe di Bulgaria governatore della Rumelia orientale, mascherando così un’annessione di fatto, e allo stesso tempo Alessandro di Battemberg fu infine costretto ad abdicare sostituito con il molto più gradito a Pietroburgo Ferdinando di Sassonia-Coburgo-Gotha. Non è questa l’occasione per illustrare l’evoluzione diplomatica successiva allo scadere con mancata rinnovazione dell’alleanza dei tre imperatori nel 1887; per ora è sufficiente dire che Bismark, con la sua sagacia, riuscì a tenere la Russia amica della Germania attraverso quel capolavoro di machiavellismo che fu il trattato di controassicurazione, ma i suoi successi, stoltamente, non lo confermarono spingendo Pietroburgo ad accettare le sirene francesi che si concretizzarono nell’alleanza russo-francese del 1894.
Sarebbe lungo ed eccessivamente dispersivo seguire tutti i dettagli degli accordi diplomatici intercorsi tra l’Austria e Russia prima del 1908, anno dell’annessione della Bosnia, per cui mi limiterò a riassumerne i risultati. L’Austria insistette, ottenendo il consenso della Russia, a che la politica delle due potenze nei Balcani fosse imperniata sul mantenimento dello status quo o, nel caso ciò fosse divenuto impossibile a causa di un collasso dell’Impero Ottomano, su una sua modifica solo previo accordo e tale sistema dette buona prova di se quando, a seguito della rivolta macedone del 1902, Austria e Russia imposero in concerto un programma di riforme al Sultano che castrò le ambizione Bulgare a un’ulteriore espansione. Vienna tentò però anche di far accettare allo Zar come un fatto compiuto una sua futura annessione della Bosnia e del Sangiaccato, ma Alessandro III, alla testa di una corte dove il panslavismo era ormai trionfante, mise il chiaro che per il Sangiaccato non se ne parlava proprio mentre per la Bosnia a un’annessione austriaca sarebbe dovuto seguire un giusto conquibus. Per l’Austria quest’irrigidimento russo era ben poco incoraggiante tenendo anche conto che la nascente rivalità anglo-tedesca la stava anche privando della sua principale alleata in funzione anti-russa nei Balcani. A peggiorare ulteriormente il quadro venne anche il repentino raffreddamento delle relazioni con la Serbia a seguito del massacro degli Obrenovic. A Belgrado infatti morto Milan era salito al trono suo figlio Alessandro che, privo della spregiudicatezza e dell’intelligenza del padre, si riallineò alla Russia dando inizio a un regime reazionario e dissoluto, sua moglie Draga finì al centro dei più torbidi scandali, finché un gruppo di ufficiali guidati da Dragutin Dimitrievic e Voja Tankosic (due nomi che rincontreremo) misero in atto un colpo di stato nella notte tra il 10 e l’11 giugno 1903. Il re e la regine, insieme ai fratelli di questa e ad alcuni ministri, vennero assassinati e al trono venne chiamato l’ultimo discendente del casato rivale degli Obrenovic: Pietro Karageorgevic. Mentre buona parte dell’Europa rimase inorridita per il massacro, i corpi dei reali erano stati fatti a pezzi e gettati dalla finestra, né l’Austria né la Russia se ne turbarono più di tanto preferendo restare in attesa e vedere quale sarebbe stato il contegno del nuovo monarca anche se un indizio Vienna lo ebbe allorché questi, attraversando la Croazia, venne acclamato Re dei Croati. Per dare un minimo di credibilità al nuovo regime Pietro mise alla porta i congiurati, ma come vedremo a breve si trattava di una porta girevole, ripristinò, o meglio gli fu imposto di farlo, la costituzione liberale del 1889,ma la cosa più importante è che chiamò al governo il partito più importante del paese cioè i radicali guidati da Nicola Pasic. L’ascesa al potere dei radicali fu un evento di grande importanza perché questi erano risolutamente filorussi, austrofili e panserbisti. Va un attimo chiarito questo punto lo jugoslavismo non nacque in Serbia bensì tra gli slavi dell’Austria-Ungheria; i nazionalisti serbi avevo come obiettivo la riunione di tutta le terre “serbe” (Bosnia, Montenegro, Kosovo e Macedonia) e non si convertirono mai interamente alla Jugoslavia neanche dopo la guerra creando così alcune delle premesse per il fallimento di questo stato. Pasic si impegno a sanare le ferite lasciate dagli Obrenovic con gli altri stati balcanici normalizzando i rapporti con la Bulgaria fino a creare con essa un’unione doganale oltre che firmare un’alleanza smaccatamente anti-austriaca; allo stesso tempo il governo radicale agì per affrancare l’economia serba da quella austriaca e ciò diede inizio a una guerra doganale tra i due stati che si concluse con la duplice costretta a ritirarsi con perdite. Per l’Impero asburgico il nuovo contegno del suo vicino meridionale fu però foriero anche di problemi interni perché una violenta campagna filoserba, orchestrata da Belgrado, iniziò a scuotere la Bosnia diffondendosi poi tra il resto degli slavi del sud dell’Austria-Ungheria sempre più insofferenti per il ruolo subalterno da loro ricoperto nella duplice.
Siamo dunque giunti a un passo dall’annessione della Bosnia da parte austriaca con la conseguente crisi diplomatica che ne derivò; ripercorrendo la storia fin qui raccontata sorge automaticamente una domanda: perché l’Austria, che precedentemente aveva avuto occasione di procedere all’annessione in un contesto internazionale molto più favorevole, vi si decise invece con una Serbia ostile a sud e una Russia sulla cui benevolenza c’era da fare ben poco affidamento? Per capirlo dobbiamo fare la conoscenza con il primo dei due principali attori della vicenda il neo ministro degli esteri imperiali barone Alois Von Aehrenthal. Descritto sia dai suoi contemporanei che dagli storici moderni come un individuo intelligente e ambizioso era stato ambasciatore a Pietroburgo dove aveva tentato di riallacciare delle buone relazioni tra l’Impero e la Russia e per questo motivo la tesi da alcuni sostenuta che avesse optato per l’annessione solo allo scopo di ottenere un successo su russi e serbi pare irrealistica. E’ molto più probabile che Aehrenthal, vedendo lo scontro costituzionale accesosi tra Austria e Ungheria in merito all’esercito comune nel 1905, si fosse convertito al trialismo e intendesse usare l’annessione della Bosnia come battistrada per preparare l’autonomia degli slavi meridionali all’interno dell’Impero. In Europa nessuno, tranne forse i serbi, si era mai fatto illusioni che quell’occupazione temporanea della Bosnia fosse tale solo di nome, ma il ministro austriaco volle comunque evitare di incendiare di nuovo i Balcani per cui preparò la sua mossa con cura cercando di farla avvenire senza troppi scossoni. In primo luogo si preoccupò di non dare l’impressione di un’Austria arraffatrice stabilendo che contemporaneamente all’annessione la duplice avrebbe fatto il bel gesto di evacuare il Sangiaccato; in un ministero degli esteri che ormai aveva ampiamente cestinato il progetto Salonicco quest’abbandono non fu ritenuto fonte di problemi, ma allo stato maggiore, guidato dal bellicoso anti-italiano e anti-serbo generale Conrad, non la vedevano così sia perché l’esercito invece voleva ancora credere in un’espansione asburgica nella penisola sia perché le guarnigioni nel Sangiaccato erano l’unica cosa che poteva impedire un’unione tra la Serbia e il Montenegro. Per superare queste obiezioni, che avrebbero trovare ascolto presso anziano imperatore Francesco Giuseppe, Aehrenthal ingannò Conrad dandogli ad intendere che l’annessione della Bosnia fosse solo uno stratagemma per provocare una reazione Serba che giustificasse una spedizione contro di lei. Unito il fronte interno era ora il momento di trovare un accordo con quello che sarebbe potuto essere il principale ostacolo esterno all’annessione: la Russia nella persona del suo ministro degli esteri Aleksander Izvol’skij. In base a tutti i trattati stretti tra i due Imperi sin dai tempi dell’alleanza dei tre imperatori la Russia non aveva obiezioni a che occupazione della Bosnia passare da temporanea a permanente purché ne fosse preventivamente informata e ci si accordasse per uno scambio di favori. Tra i due ministri vi fu una fitta attività diplomatica che ci concretizzò nell’incontro riservato presso il castello di Buchlau di proprietà dell’ambasciatore austrico in Russia. Molto si è scritto nel tentativo di riscostruire questo incontro decisivo, ma ancora oggi bisogna procedere per ipotesi dato che non fu redatto verbale e le successive ricostruzioni dei protagonisti furono tutte post annessione quindi influenzate dagli eventi. Una cosa è ormai certa Izvol’skij non sollevò alcuna obiezione di sorta limitandosi ad affermare che l’Austria non avrebbe dovuto agire unilateralmente, ma inserire la vicenda all’interno di una conferenza internazionale nella quale si sarebbe dovuto ridiscutere dell’intero trattato di Berlino. In particolare si sarebbe dovuto ridiscutere della questione degli stretti e l’Austria, in cambio dell’appoggio sulla Bosnia, avrebbe dovuto dare il suo consenso a che fosse concesso il transito di navi da guerra russe attraverso i Dardanelli. Aehrenthal in seguito negò di aver accettato di rendere la questione bosniaca di rilevanza europea e di aver accettato di legarla alla faccenda degli stretti, ma pare realmente difficile da credere che il ministro russo fosse stato tanto ingenuo da accettare l’annessione senza pretendere nulla in cambio. Una cosa su cui sicuramente ci fu un misto di reticenza dell’austriaco e di pressappochismo del russo fu il non mettere in chiaro le tempistiche con cui l’Austria avrebbe proceduto e ciò aggravò il vero errore di Izvol’skij cioè barattare qualcosa che l’Austria aveva già (la Bosnia) con qualcosa che la Russia non aveva (il consenso internazionale, e soprattutto inglese, a ridiscutere dei Dardanelli). Comunque messo in tasca il consenso russo, ribadito da uno scambio di note riservate tra i due ministri di cui fu sicuramente messo a conoscenza lo Zar, Aehrenthal si sentì sufficientemente sicuro della sua posizione da permettersi di essere ambiguo con i tedeschi e volutamente reticente con gli italiani. In particolare il nostro ministro degli esteri Tittoni, che come vedremo avrà un ruolo di tragicomicamente di primo piano, venne a sapere delle intenzioni austriache da Izvol’skij e, invece di mettere subito in chiaro anche lui che la faccenda andava gestita dal concerto europeo, si limitò a chiedere che il tutto fosse sanzionato da un accordo italo-austro-russo che desse l’impressione di un ruolo di primo piano svolto dal nostro paese. Come detto fu Aehrenthal fu reticente col suo collega russo solo riguardi al momento dell’annessione e così Izvol’skij si convinse di avere tutto il tempo che voleva quando invece il ministro austriaca andava di fretta perché, essendoci stato nel Luglio del 1908 il colpo di stato dei “giovani turchi”, temeva che il nuovo governo di Costantinopoli si mostrasse più deciso nel difendere l’integrità dell’Impero Ottomano. Astutamente Aehrenthal tentò di far apparire la duplice come una vittima delle circostanze intrigando con Ferdinando di Bulgaria per spingerlo a dichiarare l’indipendenza del suo paese dalla Turchia, ricordiamo che una metà della Bulgaria era ancora ufficialmente provincia ottomana, così che a tutti sarebbe parso che fosse Sofia a scatenare la tempesta mentre l’Austria avrebbe solo reagito a una nuova situazione di fatto.
Il 5 Ottobre 1908 a Tirnovo Ferdinando di Bulgaria proclamava l’indipendenza del suo paese assumendo il titolo di Zar dei bulgari, ventiquattr’ore dopo, con una nota alle grandi potenze, l’Austria-Ungheria si dichiarava costretta dai recenti sviluppi a rendere definitiva la sua occupazione della Bosnia annunciando però allo stesso tempo il ritiro delle proprie truppe dal Sangiaccato. Il trucco per far sembrare l’iniziativa bulgara e quella austriaca completamente indipendenti non trasse in inganno nessuno anche perché, per errore, l’ambasciatore della duplice a Costantinopoli consegnò la nota in cui si faceva riferimento all’indipendenza bulgara due giorni prima che questa venisse dichiarata. Ovviamente la Turchia protestò, ma lo stesso fece l’opinione pubblica russa la quale ritenne di trovarsi davanti a un attacco dell’Austria ai popoli slavi. Izvol’skij non si era minimamente premurato di far conoscere nemmeno al suo stesso governo l’esito dell’incontro di Buchlau e adesso, colto di sorpresa lui stesso dalla mossa austriaca, non solo non era ancora in grado di riaprire la questione degli stretti, ma si trovava anche con il primo ministro Stolypin fermamente contrario a lasciar campo libero alla duplice qualsiasi fosse la contropartita promessa. Sentendosi franare il terreno sotto i piedi il ministro degli esteri russo iniziò ad affermare di essere stato ingannato dal suo omologo austriaco aprendo così uno scontro personale tra i due che sarebbe andato avanti a colpi di pubblicazioni di note e trattati segreti intercorsi tra le due potenze per dimostrare la reciproca malafede. Chi davvero reagì malissimo però era la Serbia dove il governo non solo affermò di non avere alcuna intenzione di riconoscere l’annessione, ma decretò anche la mobilitazione dell’esercito. Era la Serbia pronta a fare la guerra? A parole sì, ma è difficile credere che Pasic fosse davvero pronto a correre un rischio del genere; era più probabile che si trattasse di una sceneggiata per spingere le grandi potenze a fare pressioni sull’Austria affinché rinunciasse all’annessione. Anche in Italia l’iniziativa di Vienna fu accolta molto male e tanto il parlamento che l’opinione pubblica, entrambi fortemente anti-austriaci, attaccarono Tittoni il quale, commettendo un errore, per uscire dal pantano fece credere di esserci accordato con Aehrenthal per delle compensazioni. Precisamente Tittoni si riferì alla questione dell’università italiana a Trieste, ma Aehrenthal, che comunque non si sentiva per nulla obbligato col suo omologo italiano, non voleva e non poteva promettere nulla di più di fare pressioni per l’apertura di una facoltà di legge italiana all’università di Vienna. Non era questione di anti-italianismo, o meglio non solo, perché l’università italiana voleva dire toccare il tema delle nazionalità e nessuno vedeva il motivo per cui concedere agli italiani ciò che non era stato concesso a cechi, croati e polacchi. Avvertendo che la situazione poteva farsi incandescente inglesi e francesi appoggiarono la proposta russa di demandare l’intera questione a una conferenza internazionale, ovviamente si garantiva all’Austria che l’esito finale sarebbe stato comunque l’incorporazione della Bosnia però così si sarebbe data l’idea che non si trattava di un imposizione unilaterale di Vienna. Aehrenthal però non accettò alcuna conferenza che non si fondasse sul presupposto di considerare l’annessione come un fatto compiuto un po’ per principio perché convinto di non aver ingannato nessuno un po’ perché temeva che in una conferenza del genere l’Austria avrebbe si comunque avuto la Bosnia, ma sarebbe potuta essere costretta a dare qualcosa in cambio. A supportare l’Austria vi fu ovviamente l’alleata Germania con il suo cancelliere Von Bulow che però, invece di svolgere un’azione moderatrice per seguire la dottrina di Bismark di non farsi mai nemica la Russia, decise di spalleggiare Aehrenthal su tutta la linea un po’ per ripicca nei confronti di Izvol’skij, autore dell’odiato accordo anglo-russo del 1907 di cui parleremo in un’altra occasione, un po’ allo scopo di mettere sotto pressione la neonata triplice intesa nella speranza di riuscire magari a farla andare in mille pezzi. E’ proprio durante la crisi bosniaca che si inserisce un carteggio tra il capo di stato maggiore tedesco Von Moltke e quello austriaco Conrad, di cui Bulow ammise in seguito di esse stato a conoscenza, in cui di fatto si cambiava la natura della triplice alleanza senza informarne l’Italia. Rappresentando quasi perfettamente ciò che sarebbe successo nel 1914 Moltke affermava che se l’Austria avesse infine attacco la Serbia era probabile che la Russia sarebbe scesa a sua volta in campo, in questo caso la Germania dava garanzia alla duplice di adempiere ai suoi doveri di alleata anche se ciò volesse dire un’estensione del conflitto alla Francia e oltre. Si trattava di un clamoroso cambio di prospettiva da parte della Germania perché Bismark aveva voluto una triplice difensiva proprio per evitare che il Reich finisse dentro a una guerra nata nei Balcani (le famose ossa del granatiere di Pomerania), ma si deve tenere in considerazione, per sfuggire alla trappola della responsabilità tedesca, che la Germania aveva nell’Austria-Ungheria l’unico alleato sicuro nel continente per cui era quasi obbligata a darle pieno appoggio in un settore dove i suoi interessi vitali erano in gioco. La situazione frattanto si faceva sempre più pericolosa perché, sebbene la Serbia di fronte al pericolo di una spedizione punitiva austriaca avesse moderato i toni rimettendosi interamente alle grandi potenze, Izvol’skij, nel tentativo di salvare la faccia, insisteva nella tesi di una conferenza europea che ridiscutesse l’intera struttura del trattato di Berlino ottenendo come unico risultato di aumentare la spaccatura tra lui e Aehrenthal. Il ministro austriaco infatti insisteva nel non voler sentir parlare di una formula del genere tanto più dopo che, nel marzo 1909, era riuscito ad accordarsi con la Turchia per un risarcimento monetario all’annessione; dal suo punto di vista se ormai neanche più il proprietario originario della Bosnia aveva da ridire di che cosa si stava ancora a discutere? Fu Tittoni, anche lui alla ricerca del collega russo di una soluzione che lo cacciasse fuori dall’angolo di critiche nel quale si trovava, a proporre la quadratura del cerchio: si convocasse una conferenza che semplicemente ratificasse l’accordo raggiunto tra Austria e Turchia discutendo poi di alcune modifiche secondarie al trattato di Berlino. Aehrenthal, che non era mai stato contrario all’idea di una conferenza bensì solo al suo programma, ritenne questa formula accettabile, ma chi invece la respinse precipitando la crisi alla tensione massima fu la Germania. Come abbiamo detto Von Bulow era alla ricerca di un successo diplomatico che mettesse in difficoltà l’intesa per cui convinse Vienna a emettere solo una nota formale con la quale si chiedeva alle grandi potenze di sanzionare l’accordo raggiunto con la Turchia informando però preliminarmente la Russia che, qualora tale nota fosse respinta, “lasceremo che le cose seguano il loro corso”. Sebbene non ne avesse le forme di fatto si trattava di un ultimatum perché a fronte di una definitiva chiusura austriaca all’idea di una conferenza l’unica alternativa alla resa era la guerra, ma Pietroburgo, reduce da meno di cinque anni dalla sconfitta con il Giappone e dalla successiva rivoluzione interna, non era assolutamente in condizione di affrontare una guerra contro Austria e Germania. Per Izvol’skij non vi era alternativa per cui il 22 Marzo informò Berlino che la Russia lasciava cadere ogni obiezione a che l’Austria emettesse la sua nota in un formato però accettabile per la Serbia. Dopo ancora una serie di giornate di tensione in cui parve prossima una guerra tra Serbia e Austria, evitata solo perché gli ungheresi vi posero il veto, Aehrenthal si accordò col governo inglese sul testo di una nota con cui Belgrado riconosceva l’annessione, smobilitava e garantiva di voler perseguire una politica di buon vicinato con la duplice. La nota venne accetta il 30 Marzo 1909.
La crisi bosniaca si concluse con un grande successo diplomatico per l’alleanza austro-tedesca: Russia e Italia erano state costrette a piegarsi di fonte a una modifica dello status quo nei Balcani senza ottenerne nulla in cambio mentre la Serbia non era stata schiacciata sotto il tallone austriaco solo perché la schizofrenia interna alla duplice monarchia aveva paralizzato la possibilità di risolvere definitivamente il problema. Sul lungo periodo però le conseguenze dell’atteggiamento tenuto dagli imperi centrali si rivelò estremamente deleterio per loro: infatti al contrario di quanto aveva sperato Von Bulow l’intesa non collassò anzi si trovò ancora più unita nell’irritazione per il modo in cui la Germania aveva gestito la vicenda mentre Izvol’skij si legò al dito l’umiliazione subita divenendo il più acceso nemico di un riavvicinamento della Russia al Reich. In Austria la speranza di Aehrenthal che l’annessione fosse il prodromo per l’avvento del trialismo andò vanificata dalla persistente ostilità ungherese a qualsiasi obiezione per cui l’unico risultato conseguito fu di esacerbare ancor di più le tensioni etniche interne all’Impero. Le conseguenze più gravi si ebbero però in Serbia dove l’annessione fu vissuta come un lutto nazionale. L’idea che in futuro in una situazione simile bisognasse rischiare il tutto per tutto qualsiasi fossero le conseguenze iniziò a insinuarsi tanto tra la popolazione quanto nel governo; ma cosa ancora più importante al fine di tenere vive le rivendicazioni serbe sulla Bosnia gli stessi ufficiali che avevano messo in atto la strage degli Obrenovic fondarono la Narodna Obdrana (Difesa del popolo) all’interno della quale nel 1911 sarebbe nata la Crna ruka (Mano nera) con lo scopo di supportare atti terroristi anti-austriaci in Bosnia. La strada per lo sparo di Sarajevo era stata aperta.
La conseguenze più grave della crisi bosniaca fu però, a mio parere, l’eredità psicologica che lasciò nei due schieramenti. L’atteggiamento della Germania di tirare la corda fino al punto di tensione massimo nella convinzione che la controparte avrebbe ceduto prima che questa si rompesse, ereditato va detto in parte dal contegno francese durante la prima crisi marocchina, fornì un pessimo precedente sul modo di gestire situazioni del genere. I vincitori si sentirono confortati nella scelta della linea dura mentre gli sconfitti si convinsero che se solo avessero tenuto il punto un po’ più a lungo sarebbero riusciti a spuntarla. Russia e Serbia entrarono in una pericolosa mentalità di rivincita da cogliere alla prima occasione e l’ostilità personale di Izvol’skij per gli imperi centrali continuò ad avvelenare il ministero degli esteri russo anche quando alla sua guida vi giunse Sazonov pupillo del precedente ministro. In sintesi la crisi bosniaca non solo aumentò vertiginosamente il livello di tensione in Europa favorendo la polarizzazione del continente in due blocchi contrapposti, ma di fatto impossibile qualsiasi futura intesa pacifica tra Russia e Austria in materia di Balcani proprio quando si era alla vigilia di nuove e ancor più gravi scosse telluriche nella penisola.
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