Il precedente articolo si è concluso con la nomina di Theobald von Bethmann Hollweg come cancelliere tedesco dopo l’uscita di scena di Von Bulow e con l’affermazione che sotto di lui la Germania avrebbe portato avanti gli ultimi concreti tentativi per un riavvicinamento con il Regno Unito. La prova della conferenza di Algeciras aveva infatti dimostrato la solidità dell’Entente che, dopo la convenzione anglo-russa 1907, andava sempre più assumendo l’aspetto di un’alleanza militare. Bismark, che ormai assumeva le sembianze di una Cassandra della diplomazia tedesca, a suo tempo aveva avvertito che la Germania non avrebbe mai dovuto avere l’Inghilterra come sua nemica e adesso, dopo la disastrosa gestione dei rapporti con Londra ad opera del trio Bulow – Holstein – Guglielmo II, si tentava di correre ai ripari affrontando quella che, apparentemente, era la madre di tutte controversie: la flotta tedesca. Già in un precedente articolo ho illustrato come molti storici mettano oggi in dubbi che la flotta tedesca fosse concretamente avvertita dall’Ammiragliato come una minaccia, ma tale era sicuramente sentita dalla popolazione inglese che sempre più stava divenendo anti-tedesca e pro-intesa. Bethmann Hollweg, sfidando le ire del potente ministro tedesco alla marina Tirpitz, decise di riaprire i negoziati con Londra, ma, commettendo lo stesso errore di Von Bulow, non fu in grado di leggere le intenzioni degli inglesi intestardendosi sulla forma piuttosto che sul concreto vantaggio conseguibile. I tedeschi infatti offrirono un rallentamento della costruzione, ma non una sospensione, in cambio della garanzia della neutralità inglese; Londra ovviamente rifiutò non però perché giudicava poco il semplice rallentamento, che comunque gli avrebbe permesso di ridurre nell’immediato le ingenti spese navali, ma perché non aveva intenzione di farsi legare diplomaticamente le mani in Europa. Già ai tempi della discussione di un’alleanza tra Regno Unito e Germania i negoziati erano falliti perché i tedeschi pretendevano la cieca adesione dei Londra alla Triplice mentre questa avrebbe gradito qualcosa più sulla linea della futura Entente, cioè un accordo che seppur non vincolando la politica estera inglese permettesse a questa di rimuovere una serie controversie con il paese firmatario. Adesso si stava ripetendo il medesimo spartito con i tedeschi che non volevano accettare nulla di meno che un trattato che mettesse nero su bianco la promessa inglese di restare neutrale in caso di guerra tra Triplice e Duplice, ipotesi difficile visto che dopo la prima crisi marocchina gli stati maggiori francesi e inglesi avevano inviato a dialogare di piani di guerra comuni; Londra dal canto suo era disposta a discutere sulla flotta e sulla ferrovia Berlino-Bagdad, le due principali controversie con la Germania, ma non di firmare un assegno in bianco al Reich. Nonostante al Foreign Office, sempre più tedescofobo, ci fosse la convinzione che non si sarebbe andati da nessuna parte il ministro Grey, che come raccontato nel precedente articolo ci teneva molto a dare all’esterno un’immagine di equidistanza dai due schieramenti continentali, scelse di aprire comunque una trattativa. Fu un lungo negoziato, interrotto nel 1910 dalle elezioni inglesi, durante il quale avvenne un evento importante per il Regno Unito: il 6 Maggio 1910 morì re Edoardo VII, la bestia nera del Kaiser Guglielmo, e a Berlino, dove ormai l’isteria del Kaiser per lo zio aveva contagiato tutti i rami del governo, ci si convinse che venuto meno l’architetto del male la trattativa sarebbe state più semplice… manco per niente perché la linea politica inglese non cambiò di una virgola. Dopo molte discussioni Londra sembrò intenzionata ad accettare che si parlasse solo di un rallentamento delle leggi navali tedesche, ma mise in chiaro che l’unica cosa che poteva fornire era la garanzia che nessun impegno era stato preso con Parigi e Pietroburgo in caso di guerra europea. Il tira e molla continuò per tutto il 1911, con la Germania che improvvisamente fece dietro front sull’offerta di rallentare le leggi navali, finché il Marocco non sembrò riportare l’Europa a un passo dal conflitto. Come si ricorderà la conferenza di Algeciras aveva stabilito la concertazione europea in merito al Marocco; Parigi aveva accettato perché in cambio, con la nomina di un istruttore francese insieme a uno spagnolo per la polizia marocchina, avrebbe potuto iniziare a mettere radici all’interno del paese Nord africano, ma la trasformazione del Marocco in una colonia era ancora l’obiettivo ultimo da conseguire. Nel 1911 un’insurrezione di tribù beduine mise in pericolo Fez e Parigi colse l’occasione per inviare le sue truppe ufficialmente allo scopo di difendere il legittimo governo marocchino. A tutta l’Europa parve che un’occupazione francese del Marocco fosse prossima e ciò scatenò la reazione delle potenze contro interessate, ma se la reazione spagnola, l’occupazione di Larache e di Kasr-el-Kebir, passò assolutamente in secondo piano altrettanto non fece la reazione tedesca: il 10 Luglio 1911 il cacciatorpediniere Panther gettava l’ancora nel porto di Agadir. Molti autori come Clark e Wesseling ritengono ciò come il naturale intervento del Reich a fronte dell’iniziativa francese, ma Luigi Albertini invece ricostruisce un percorso molto più tortuoso: secondo lo storico direttore del “Corriere della Sera” né Guglielmo II né il cancelliere avevano interesse a fare una guerra per il Marocco e, anzi, il Kaiser riteneva persino che l’intervento francese fosse in parte giustificato nonché utile a distrarre Parigi dai Vosgi. Fu il ministro degli esteri Kinderlen-Waechter, considerato il miglior diplomatico tedesco dopo Bismark seppur difettando di irruenza, a ritenere che l’occasione fosse propizia per chiedere alla Francia dei compensi che, in qualche modo, riequilibrassero la figuraccia di Algeciras; il suo ragionamento era che l’occupazione di Fez annullava il trattato del 1906 lasciando mano libera alla Germania di pretendere compensi coloniali occupando come pegno Agadir e Mogador. Ancora una volta Berlino si illuse che Londra sarebbe rimasta in disparte non considerando in gioco i suoi interessi, come se la stabilità dell’Entente non fosse un suo interesse primario. In Francia il governo Caillaux, col rischio d’inimicarsi l’opinione pubblica, si disse pronto a trattare offrendo il Congo, ma non accettando nessuna ulteriore mutilazione del Marocco; Kinderlen però giocò troppo lungo e pretese l’intero Congo francese riportando la discussione al punto di partenza perché a questo punto furono i francesi a ritenere che si stesse chiedendo troppo e vollero in cambio parti del Camerun e del Togo tedesco. Questo mercato delle vacche era ovviamente funzionale a una politica di prestigio, chi avesse strappato di più sarebbe stato considerato il vincitore della contesa e Kinderlen ritenne che puntando i piedi si sarebbe costretta la Francia a venire lì dove voleva; purtroppo per lui il Kaiser, terrorizzato all’idea di una guerra, gli remava contro e proibì ogni azione che potesse sembrare una minaccia esplicita alla Francia. Va detto che anche a Parigi Caillaux giocava quasi da solo perché il ministro degli esteri era completamente contrario a delle concessioni e ovviamente i nazionalisti anti-tedeschi urlavano nelle strade e in parlamento contro qualsiasi accomodamento con il nemico; il primo ministro però aveva ricevuto dal generale Joffre (futuro capo di stato maggiore francese nella Grande Guerra) l’esplicita affermazione che, in quel momento, la Francia non aveva neanche il 70% di possibilità di uscire vittoriosa da una guerra con la Germania e da Berlino l’abile ambasciatore Jules Cambon invitava alla moderazione. Il problema era trovare un giusto mezzo accettabile per entrambe le parti che ormai si erano impegnate nella lotta: da un lato la Germania non poteva uscire a mani vuote per cui chiedeva o il Congo o il rispetto del trattato di Algeciras, dall’altro lato la Francia non voleva dare l’impressione di essersi arresa alla Germania sia per ragioni di politica interna che di prestigio internazionale. Per Parigi poi c’era il problema dell’atteggiamento degli alleati perché né la Russia né il Regno Unito sembravano disposti a fare la guerra per il Marocco; ancora una volta però la Germania sbagliò completamente l’atteggiamento diplomatico perché a Londra, dove abbiamo detto molta parte dei funzionari del Foreign Office erano anti-tedeschi, Grey per placare i timori di chi pensava che Berlino volesse creare una base navale sull’Atlantico chiese a Kinderlen di chiarire i suoi propositi, ma il ministro tedesco non ripose con l’intenzione di dare ad intendere che la vicenda riguardava soltanto la Francia ed il Reich. L’atteggiamento tedesco produsse un discorso del cancelliere dello scacchiere Lolyd George in cui si affermava esplicitamente che il Regno Unito non avrebbe rinunciato al suo rango di grande potenza solo per mantenere la pace con qualsiasi altra potenza europea; la neanche troppo velata minaccia fece salire la temperatura dello scontro e Grey per la prima parlò con alcuni suoi colleghi di governo della capacità della flotta inglese di colpire per prima quella tedesca nel caso la situazione fosse peggiorata. A Parigi intanto Caillaux era arrivato ad aggirare il suo stesso ministero degli esteri conducendo personali e segreti negoziati con i tedeschi per uno scambio Marocco e porzioni di colonie tedesche in cambio di parte del Congo francese; allo stesso tempo a Berlino si scontrava da un lato la linea dell’intransigenza di Kinderlen e dall’altro il timore per una guerra da parte del Kaiser. Guglielmo II infine impose al suo ministro degli esteri di fare un passo nella direzione della Francia che, nella sua ultima proposta, aveva offerto una grossa parte del Congo mentre a Parigi Caillaux era riuscito a far accettare al suo governo lo scambio riferendo che l’ambasciatore russo, dopo le garanzie di rito di fedeltà alla Duplice, aveva invitato l’alleato a non irrigidirsi. Kinderlen però era ancora convinto di poter ottenere un grande successo e per tentare di forzare la mano a Kaiser e cancelliere orchestrò una campagna stampa in cui si chiedeva al governo di non cedere e di pretendere l’intero Marocco orientale per il Reich; l’azione fu assolutamente scriteriata perché provocò una contro reazione ultra-nazionalista a Parigi che per poco non fece cadere Cailluax già ai ferri corti con metà del suo gabinetto. A Berlino si capì che se fosse caduto Caillaux, l’unico francese che sembrava sinceramente intenzionato a mantenere relazioni quantomeno normali con la Germania, si correva davvero il rischio della guerra e il Kaiser fece una dura reprimenda al suo ministro degli esteri che dovette dimettersi il 17 Luglio. Il negoziato venne preso in mano dal cancelliere in persona che riuscì a giungere a un compromesso con la sua controparte francese: la Germania accettava che il Marocco diventasse un protettorato francese ricevendo in cambio parte del Congo francese (le zone intorno ai fiumi Ubanghi e Sangha utilissime per la sua colonia camerunense), per dare però l’impressione che Parigi non avesse ceduto il Reich a sua volta passava al suo vicino il così detto “becco d’oro”, un tratto di terra senza valore ad est del Ciad. Così si concluse la crisi di Agadir e se all’apparenza tutti potevano tirare un sospiro di sollievo in realtà c’era ben poco da festeggiare perché il livello di tensione raggiunto, a soli due anni dalla gravissima crisi bosniaca, era stato molto superiore rispetto alla precedente crisi di Tangeri. Come già nel 1909 le potenze avevano scelto la via dello scontro muscolare sulla linea della resistenza ad oltranza, ma se questa volta come già in occasione dell’annessione della Serbia alla fine una delle due parti aveva deciso di non tirare la corda fino al punto di rottura si stava andando ad affermare una metodologia di gestione delle crisi europee estremamente pericolosa. Fino ad ora infatti i militari non erano mai intervenuto nella gestione delle crisi, ma cosa sarebbe successo qualora ciò fosse successo visto che negli stati maggiori europei, tutti con nel cassetto dei piani di guerra dettagliati, si diffondeva il terrore di potersi far sorprendere dallo scoppio delle ostilità con “la pistola nella fondina”. Ancora la crisi di Agadir consegnava all’Europa altri tre importanti conseguenze che sarebbero state decisive sul lungo periodo: in primo luogo per la prima volta a Londra si era apertamente parlato di una guerra alla Germania per sostenere la Francia, tale ipotesi avrebbe portato a un’accelerazione degli incontri tra gli stati maggiori inglesi e francesi dai quali sarebbe emersa la prima teorizzazione del B.E.F. e del suo schieramento sul continente. Secondariamente la Germania accolse l’accordo con l’amaro in bocca; la crisi era stata aperta con lo scopo di vendicare Algeciras e ottenere finalmente quel grande successo diplomatico sulla Francia che avrebbe costretto il Regno Unito a ripensare all’Entente, invece aveva ottenuto solo 275.000 chilometri quadrati di foresta vergine e una crisi ai vertici del governo con l’uscita di scena del suo ministro degli esteri. Infine la Francia ufficialmente usciva con in tasca il Marocco, ma anche qui l’accordo non venne digerito dall’opinione pubblica e il Quai d’Orsay, indispettito dal modo in cui il primo ministro l’aveva aggirato, fece trapelare alla stampa la storia dei negoziati segreti tra Caillaux e i tedeschi generando un grande scandalo politico che avrebbe portato nel Gennaio 1912 alle dimissioni del primo ministro e nel 1914 a uno dei più incredibili casi giudiziari della storia francese quando madame Caillaux, tirata in ballo dai giornali nella vicenda, sparò al direttore de Le Figaro. A sostituire Caillaux giunse il più intransigentemente anti-tedesco politico francese cioè il lorenese Raymond Poincaré che avrebbe condizionato la politica francese sino alla fine della Grande Guerra, ma soprattutto, dopo l’esito di questa vicenda, nessun primo ministro francese si sarebbe più sognato di assumere un atteggiamento accomodante nei confronti della Germania per amore della pace. Christopher Clark aggiunge poi un altro dettaglio: poiché esternamente non si avvertì lo scontro in atto nel governo tedesco, l’atteggiamento altalenante di Berlino convinse Francia e Gran Bretagna che la Germania avesse bleffato fornendo così loro un’errata chiave di lettura dell’atteggiamento diplomatico tedesco. Accantonata la crisi, ricordiamo non voluta dal cancelliere tedesco, Bethmann Hollweg si trovò però subito a gestire l’estremo tentativo fatto da Londra di risolvere quanto meno la rivalità navale tra le due grandi potenze. Il governo inglese era ansioso di giungere a un accordo perché i costi per garantire il mantenimento del primato navale britannico lievitavano di anno in anno e i governi liberali avrebbero volentieri dato una sforbiciata a queste spese che, ripeto se prendiamo per giuste certe analisi formulate sul confronto navale, avevano più uno scopo di apparenza che di concreta utilità. In Germania Tirpitz, approfittando della delusione per l’esito della vicenda marocchina, riuscì a spingere un cancelliere riluttante a far approvare una nuova legge navale che prevedeva la creazione di una terza squadra navale nella quale avrebbero dovuto figurare tre nuove dreadnoughts da costruirsi in sei anni. Stavolta però anche il Kaiser, da sempre primo sostenitore di Tirpitz, ebbe il timore che il gesto fosse una sfida eccessiva agli inglesi e autorizzò, prima che la legge navale entrasse in vigore, un ultimo negoziato con Londra. Sotto richiesta di Bethmann Hollweg il governo inglese inviò un memorandum con i punti di partenza della trattativa: sospensione o rallentamento della costruzione della flotta tedesca in cambio di libertà al Reich in campo coloniale e garanzia di una non ostilità implicita alla Germania in merito alle questione mondiali. Bethmann Hollweg definì accettabile il memorandum, ma sin da subito un ostacolo si pose sulla strada del negoziato: la legge navale già approvata che il Kaiser dichiarò subito non si sarebbe dovuta cambiare. Nonostante questo intoppo, da Glasgow Churchill come Primo Lord dell’Ammiragliato ribadì che il primato navale era vitale per il Regno Unito, il governo inglese decise di inviare in Germania il ministro della guerra Haldane per negoziare e sembrò che si fosse a un passo da un accordo quando Bethmann Hollweg accettò che piuttosto di una generale garanzia di neutralità inglese in caso di guerra di parlasse di una neutralità per le guerre non provocate dalla Germania; anche le questioni coloniali vennero facilmente risolte, ma restava il problema della legge navale il cui testo, comunicato dai tedeschi a Londra, avrebbe comportato un’ulteriore espansione della flotta inglese il che all’opinione pubblica sarebbe sembrato in contrasto con il ritorno di relazione cordiali con la Germania. Haldane chiese dunque che il Reich modificasse la sua ultima legge navale in modo da andare incontro alle necessità interne del governo inglese; Bethmann Hollweg supplicò il Kaiser di accettare, ma Guglielmo invece impose che la legge venisse votata al più presto e fece comunicare all’ambasciatore tedesco a Londra che se in riposta il Regno Unito avesse richiamato nel Mar del Nord la sua flotta mediterranea questa sarebbe stata considerata come un’esplicita minaccia alla Germania. L’incauto intervento del Kaiser aprì una nuova crisi nel governo tedesco perché Bethmann Hollweg diede le dimissioni e allora Guglielmo per fargliele ritirare accettò che la legge fosse posticipata, ma a quel punto fu Tirpitz a minacciare di dimettersi; per qualche giorno si litigò finché, ancora una volta, non la ebbe vinta l’onnipotente ministro della marina. Questo atteggiamento di Berlino non fece altro che rafforzare lo scetticismo di chi in Inghilterra non aveva mai creduto nell’esito della missione Haldane e diffidava nel dare alla Germania qualsiasi tipo di garanzia di neutralità nell’ipotesi di una guerra europea; tra Grey e l’ambasciatore tedesco Metternich si discusse a lungo del concetto di neutralità e delle varie situazioni che si potevano creare (ad esempio se la Francia fosse stata la prima ad attaccare, ma come risposta ad un’esplicita provocazione tedesca) e Albertini conclude che in fondo il ministro degli esteri inglese cercava solo un modo per sfuggire a una formula che, comunque la si metteva, egli considerava troppo pericolosa. Il 14 Maggio 1912 il Reichstag approvò senza modifiche la legge navale facendo di fatto naufragare il negoziato e provocando immensa gioia a Parigi dove, per qualche giorno, si era trattenuto il fiato nel timore che si potesse giungere a un qualche tipo d’accordo che depotenziasse il valore dell’Entente. Va detto che anche all’interno del Foreign Office si fu molto felici che non si fosse raggiunto alcun compromesso sulla formula della neutralità perché, sebbene Londra nicchiasse ancora una volta alle offerte di Parigi di una vera alleanza militare, si riteneva che le intese raggiunte con Francia e Russia fossero molto più preziose di un mezzo accordo con la Germania. A pagare per tutti per il mancato accordo fu l’ambasciatore tedesco a Londra Metternich richiamato e sostituito da Marshall von Bieberstein che però non poté cambiare la situazione perché come scrisse Albertini “il dissidio non era tanto tra Grey e il cancelliere, quanto tra il cancelliere e Tirpitz”. Finì così l’ultimo tentativo di Gran Bretagna e Germania di giungere a un accomodamento reciproco; Tirpitz aveva vinto e nelle sue memorie difese la sua politica affermando che non era stata la flotta tedesca a provocare la guerra, ma anche anzi questa aveva impedito alla Gran Bretagna di prendere in considerazione di un attacco a sorpresa del Reich. Gli storici da Albertini in poi si sono premurati di affondare le argomentazioni del ministro della marina perché non solo la sua flotta di fatto fece in modo che nel 1914 il posto del Regno Unito fosse già deciso, e Dio solo sa quale peso ebbe il B.E.F. in quei primi due decisi mesi di guerra, ma poi per quattro anni la meravigliosa flotta di Tirpitz rimase a fare la muffa a Wilhelmshaven non tentando mai, se non senza convinzione nel 1916 con la battaglia dello Jutland, di rompere quel blocco che infine avrebbe ridotto alla fame il Reich.
Alla fine del primo articolo di questa serie avevamo lasciato i Balcani coi postumi dell’annessione austriaca della Bosnia e quindi una Duplice monarchia che, apparentemente aveva colto un brillante successo diplomatico, una Russia avvelenata per essere stata costretta a venir meno al suo ruolo di protettrice dei popoli slavi meridionali e infine una Serbia umiliata e incattivita. Dobbiamo adesso tornare a seguire le vicende della penisola perché, proprio in contemporanea con la conclusione della crisi di Agadir e il fallimento della missione Haldane, essa riprendeva fuoco come indiretta conseguenza della scelta italiana di fare la guerra all’Impero ottomano per avere quello che Gaetano Salvemini chiamò uno scatolone di sabbia: la Libia. Nei Balcani le tensioni tra popoli slavi e monarchia asburgica invece di affievolirsi erano andate costantemente ad aumentare anche a causa di una serie di clamorose gaffe commesse dai governi austriaci e ungheresi. Come si ricorderà l’Ungheria condizionava fortemente la politica balcanica della Duplice monarchia perché i magiari, temendo una riduzione del gigantesco potere che avevano ottenuto con il compromesso del 1867, impedivano qualsiasi concessione alle aspirazioni dei popoli slavi all’interno del grande impero (slovacchi, croati e serbo-bosniaci). Questa politica stava spingendo gli slavi meridionali, fino ad allora fedeli alleati degli Asburgo, verso un sempre maggior sostegno al progetto jugoslavo vedendo nella Serbia il loro Piemonte. Con incredibile stupidità le autorità austro-ungariche invece di portare avanti politiche che potessero riavvicinare alla monarchia i sudditi slavi fecero di tutto per umiliare questi popoli evidentemente con lo scopo di imporre l’obbedienza, ma riuscendo solo nell’obiettivo di incattivirli ancora di più. L’apice di questa scriteriata politica furono due processi farsa nei quali, mezzo documenti palesemente falsi forniti dall’alto, si tentava di dimostrare che i rappresentanti della coalizione serbo-croata erano al soldo della Serbia e che i cittadini di questo paese conducessero propaganda rivoluzionaria nella Duplice monarchia. I processi Friedjung e di Zagabria furono un completo fiasco per le autorità austro-ungheresi perché i falsi erano talmente fatti male che la magistratura, la quale a onor del vero funzionava molto bene in Austria-Ungheria come dopotutto tutta la burocrazia statale, non poté far altro che dare ragione in entrambi i casi alle parti slave. Gli errori austriaci però non furono solo di politica interna, ma anche estera in primis la decisione di Aehrenthal di non mantenere una golden share austriaca sul Sangiaccato. Era questa una striscia di terra, all’epoca ancora sotto il dominio turco, che impediva una diretta connessione, e dunque una possibile unione, tra Serbia e Montenegro; l’Austria vi aveva tenuto guarnigione come clausola del Congresso di Berlino del 1879, ma Aehrenthal aveva deciso di abbandonarlo nella speranza di rendere meno traumatica per l’Europa l’annessione della Bosnia. Dopo la conclusione della crisi bosniaca i turchi chiesero all’Austria di dichiarare pubblicamente che non avrebbero mai acconsentito a un’occupazione serbo-montenegrina del Sangiaccato, ma Aehrenthal rifiutò sottovalutando l’importanza strategica di un eventuale collegamento diretto della Serbia con il Montenegro. Altra grave sottovalutazione del ministro degli esteri austro-ungarico fu quella rispetto alle aspirazioni italiane nei Balcani; l’Italia guardava con sospetto a ogni ingrandimento asburgico nella penisola e pretendeva che ogni mutamento dell’equilibrio balcanico non fosse più un gioco a due tra Austria e Russia e che eventuali ulteriori ingrandimento della Duplice monarchia fosse compensati da concessione territoriali all’Italia. Se Aehrenthal era disposto a concedere la promessa di compensazioni per casi specifici (ad esempio una rioccupazione del Sangiaccato che però abbiamo visto non era nei suoi piani) rifiutava di stringere con l’Italia un’intesa generale sui Balcani che impedisse all’Austria di negoziare direttamente ed esclusivamente con la Russia come si era fatto prima dell’inizio della crisi bosniaca. Inutilmente Berlino, che fu sempre in grado di leggere con estrema lucidità gli atteggiamenti italiani, avvertì Vienna di non irrigidirsi perché altrimenti Roma sarebbe potuta andare a negoziare direttamente coi russi; Aehrenthal continuò a traccheggiare e così il 24 Ottobre 1909 l’Italia compì un altro dei suoi giri di valzer concludendo con Pietroburgo la convenzione di Racconigi, dal nome del castello dove per la prima volta se ne parlò in occasione di una visita dello Zar a re Vittorio Emanuele III; in essa si affermava che Italia e Russia si impegnavano ad agire perché nessuna variazione allo status quo avvenisse nella penisola balcanica, se non quelle che andassero incontro alle legittime aspirazioni nazionali dei popoli locali, e che sopratutto qualsiasi intesa con una terza potenza in materia di Balcani doveva avvenire solo previa concordia tra i governi italiani e russi. Può non sembrare, ma il peso della convenzione era immenso perché come compresero tanto il Kaiser quanto Poincaré, forse per l’unica volta d’accordo nella loro vita, nell’art 1 si parlava di status quo quando poi nell’art. 2 lo si supponeva già distrutto a sfavore dell’Austria. La sufficienza con cui la Duplice monarchia da sempre trattava l’Italia aveva spinto il nostro paese a negoziare direttamente con la Russia su posizioni anti-austriache; è difficile dire se, come qualcuno a sostenuto, Italia e Russia già preventivassero l’esplodere delle guerre balcaniche, certo è che entrambi i paesi ritenessero che qualsiasi ulteriore mutamento della situazione balcanica non sarebbe dovuto andare a vantaggio dell’Austria Ungheria. Ovviamente la convenzione essendo contraria allo spirito della Triplice venne tenuta segreta, ma era un segreto a metà visto che non si poteva negare che lo Zar fosse stato in visita a Racconigi. La strategia del governo italiano, per una volta davvero machiavellico o quasi, fu di negare che si fosse giunti a qualsiasi accordo, ma dare ad intendere a Vienna che le cose sarebbero cambiate se la Duplice monarchia insisteva a non voler intendersi con Roma integralmente sui Balcani. La Germania sentì puzza di bruciato, ma Aehrenthal invece si bevve l’assicurazione del nostro ministro degli esteri Tittoni che nessun accordo scritto od orale era stato concluso con la Russia. L’Austria respinse un tentativo finale italiano di coinvolgerla in un accordo a tre con la Russia sui Balcani e non solo perché Aehrenthal aveva ancora il dente avvelenato con Iswolsky, ma anche perché egli ovviamente temeva che in questo modo si sarebbe dato semaforo verde agli stati balcanici per spartirsi la parte europea dell’Impero ottomano; così nel Diecembre 1909 Austria ed Italia si accordarono unicamente sul diritto del nostro paese a compensazioni qualora la monarchia asburgica avesse dovuto rioccupare il Sangiaccato e sul principio che nessuno dei due paesi avrebbe concluso accordi sui Balcani con una terza potenza senza una previa consultazione con l’altro firmatario. Ancora una volta gli storici delle relazioni internazionali fanno osservare che tecnicamente il secondo punto della convenzione austro-italiana non nasceva già violato da Roma perché la convenzione di Racconigi era stata conclusa prima che si concordasse ciò, ma è ovvio che è un’argomentazione di lana caprina in quanto l’Austria-Ungheria firmava la convenzione del Dicembre 1909 sulla base della garanzia italiana che nessun intesa era stata da questa raggiunta con la Russia. Dopo la convenzione Visconti-Barré del 1901, la convenzione di Racconigi fu un ulteriore passo dell’Italia nella sua marcia d’allontanamento dalla Triplice. Nelle cancellerie dell’Intesa era ormai opinione comune che in caso di guerra europea il partito dell’Italia non dovesse essere dato per certo in quanto appariva evidente che gli interessi nazionali del nostro paese, in particolar modo nel vicino Oriente, fossero sempre più in contrasto con quelli dei suoi alleati della Triplice; eppure Roma non sembrava ancora disposta a buttare a mare la sua alleanza e ciò lasciava supporre che lo schieramento dell’Italia sarebbe infine dipeso da quanto l’Austria-Ungheria sarebbe stata disponibile a compensare con modifiche alla frontiera del Trentino e del Veneto la fedeltà del nostro paese. Certo nessuno immaginava che a breve l’Italia avrebbe indirettamente contribuito ad accendere la miccia balcanica. In ogni singolo trattato sottoscritto dalla fine dell’ottocento in poi il nostro paese aveva sempre richiesto un articolo che riconoscesse la preminenza dei nostri interessi riguardo alla Libia, ma lo scotto dello schiaffo di Tunisi del 1881 si faceva ancora sentire e c’era il generale timore che se l’Italia non si fosse mossa un’altra potenza, magari di nuovo la Francia, potesse precederci. Giolitti, in quel momento al governo del paese, non era mai stato un fan delle colonie e nel suo pragmatismo riteneva che la Libia sarebbe stata più un costo che un vantaggio, probabilmente in cuor suo condivideva l’accezione di scatolone di sabbia di Salvemini anche perché che sotto quella sabbia ci fosse il petrolio nessuno ancora lo sapeva, ma la Libia era ormai diventato qualcosa di irrazionale e romantico per il paese con l’Italia trasformata da Pascoli nella grande proletaria e la sponda africana cantata come “Tripoli bel suol d’amore”. A spingere Giolitti per la guerra fu la constatazione che la nostra penetrazione economica si era arenata di fronte a un tacito embargo dell’Impero Ottomano, i turchi dopo la Bosnia non era disposti a accettare passivamente un’ulteriore mutilazione, a cui poi si aggiunse il timore che la Francia, dopo essersi assicurato il Marocco al termine della vicenda d’Agadir, potesse mutare atteggiamento rispetto alle aspirazioni italiane nel Nord Africa; soprattutto però, come fa osservare Montanelli, si fece la guerra perché l’Italia tutta voleva la guerra e non una qualche conclusione diplomatica della vicenda. Da che infatti si era raggiunta l’unità nel 1861 l’Italia era andata incontro a una serie di umilianti sconfitte: Custoza, Lissa e infine Adua; gli italiani avevano bisogno di una grande vittoria militare, non importava contro chi o in che modo ottenuta, per guadagnare fiducia in se stessi e smetterla di sentirsi come il parente povero delle altre grandi potenze europee. Il peso dell’opinione pubblica nella scelta di Giolitti di inviare un ultimatum irricevibile al governo turco il 27 Settembre 1911, per poi aprire le ostilità il 29, è dimostrato dal fatto che l’esercito non era assolutamente pronto a compiere i due sbarchi preventivati a Tripoli ( sulla spiaggia di Tagiura e su quella degli ebrei) e solo il 9 Ottobre i primi trasporti truppe poterono lasciare Napoli. Apparentemente sembrava che il tutto dovesse essere una passeggiata militare, c’erano a malapena 7.000 soldati turchi contro 34.000 italiani, ma dopo aver occupato la costa la nostra avanzata si impantanò sia per la resistenza delle tribù arabe dell’interno sia per il fantasma di Adua che costantemente aleggiava suoi nostri comandanti spingendoli a una prudenza che rasentava l’immobilismo. La reazione dell’Europa all’iniziativa italiana fu ondivago; tendenzialmente nessuno fu contento che l’Italia avesse scelto la guerra per risolvere la questione, ma si decise di tapparsi il naso nella speranza che le cose sarebbero finite alla svelta mettendo però in chiaro con Roma che nessuna iniziativa militare sarebbe dovuta essere diretta contro la parte europea dell’Impero Ottomano. La speranza era ovviamente quella di circoscrivere l’incendio evitando che andasse a lambire i Balcani, ma l’incapacità italiana di costringere i turchi a capitolare iniziò a provocare la tachicardia in alcune cancellerie come quella di Londra e di Vienna. Il 5 Novembre 1911 l’Italia proclamò l’annessione della Tripolitania e della Cirenaica, un atto recepito molto male dal resto dell’Europa in quanto incoraggiava i turchi alla resistenza ad oltranza e impediva di trovare un compromesso diplomatico come ad esempio un’occupazione italiana pur col mantenimento formale della sovranità del Sultano. Presa da una sorta di sindrome dello sfavorito accerchiato l’Italia iniziò a litigare con le altre potenze europee nella convinzione che queste remassero contro di lei; in effetti è vero che il Kaiser nelle sue note esprimesse simpatia per la resistenza libica, che la Francia chiudesse un occhio sui contrabbandieri di armi per la Libia insediati a Marsiglia o che in Austria l’anti-italiano capo di stato maggiore Konrad suggerisse di approfittare del momento per attaccare il nostro paese venendo per questo licenziato da Francesco Giuseppe, ma in realtà la preoccupazione principale del continente era che più a lungo la guerra durava e più era possibile che paesi come Serbia, Bulgaria e Grecia decidessero di approfittare della debolezza turca. Il timore non era campato in aria perché già nel settembre 1911 l’ultra-panslavista ambasciatore russo Hartwig era riuscito a far iniziare dei colloqui tra Serbia e Bulagaria allo scopo di giungere a un’alleanza anti-turca. Il 1912 si aprì con la richiesta diretta dall’Italia alle altre grandi potenze di poter estendere il teatro di guerra ai Dardanelli per costringere la Turchia alla resa; la Russia si disse possibilista mentre Londra e sopratutto Vienna, dove si era appena insediato il nuovo ministro degli esteri Berchtold dopo la morte di Aehrenthal, erano assolutamente contrarie a qualsiasi azione italiana nell’Egeo. A giungere in aiuto dell’Italia fu la Germania che, volendo approfittare delle tensioni sorte tra Roma e Parigi per la vicenda di alcune navi da contrabbando sequestrate dalla nostra flotta, suggerì agli austriaci flessibilità in modo da far guadagnare punti alla zoppicante Triplice. Riuscendo a restare serio nel farlo il nostro ministro degli esteri San Giuliano ottenne il via libera austriaco all’occupazione del Dodecaneso, argomentando che queste isole essendo più vicine alla costa anatolica non potevano essere considerate tecnicamente parte dell’Egeo; purtroppo però l’Italia fece di tutto per mal disporre i suoi alleati perché invece delle tre isole promesse le occupò tutte e il capitano di vascello Enrico Millo fece un inutile e assolutamente velleitario tentativo di forzare i Dardanelli scambiando qualche colpo a vuoto con le fortificazioni turche. L’azione nell’Egeo irritò l’intera Europa che non solo intimò all’Italia di non azzardarsi ad annettere anche il Dodecaneso, ma vietò l’occupazione di altre isole e addirittura l’Austria minacciò di stracciare ogni accordo con l’Italia in materia di Balcani, anche quelli previsti dai trattati della Triplice, se il nostro paese avesse condotto altre azioni contro la Turchia europea. Comunque neanche l’occupazione del Dodecaneso smosse la volontà di resistenza dei turchi che, infine, si arresero solo per le pressioni del resto dell’Europa a chiudere la vicenda libica e per le sempre più manifeste intenzioni ostili degli stati balcanici. Il 13 Marzo 1912 Serbia e Bulgaria avevano infatti sottoscritto, sotto supervisione russa, un’alleanza in cui i due paesi si garantivano vicendevolmente l’integrità territoriale e di impedire, anche con la forza, che terze potenze, leggi Austria, occupassero parti balcaniche dell’Impero Ottomano. Il trattato però prevedeva anche un annesso segreto in cui Serbia e Bulgaria si accordavano di consultarsi sul momento in cui muovere congiuntamente guerra alla Turchia, previo via libera russo, e di come ripartirsi i territori conquistati. Seguirono nei mesi successivi ulteriori incontri serbo-bulgari per mettere a punto i dettagli politici e militari del prossimo conflitto contro gli ottomani, mentre il 12 Giugno 1912 veniva firmata l’alleanza difensiva greco-bulgara trasformata poi il 13 ottobre in un accordo anche offensivo; infine il Montenegro si aggregò anche lui alla banda con accordi verbali nell’estate 1913. Di fronte a questi sempre più evidenti segnali Costantinopoli si decise ad archiviare la questione libica nonostante la contrarietà delle popolazioni locali e del comandante ottomano in loco Ismail Enver (futuro Enver Pascià uomo forte del regime dei giovani turchi) che si disse pronto a continuare la guerra anche contro la volontà del suo governo. Il 15 ottobre 1912 a Ouchy presso Losanna vennero firmati i preliminari di pace ed entro il 20 Ottobre Inghilterra, Germania, Austria e Francia (quest’ultima un po’ contro voglia perché Poincaré, non proprio amante dell’Italia, aveva sperato di approfittare del momento per aumentare la colonia tunisina) riconobbero l’annessione italiana della Libia. L’Italia aveva vinto la guerra, ma la pace era giunta troppo tardi per impedire lo staccarsi della valanga balcanica: l’8 Ottobre 1912 il Montenegro dichiarava guerra all’Impero Ottomano dando inizio alla Prima guerra balcanica.
Bibliografia:
- Luigi Albertini, Le origini della Grande Guerra Vol. 1
- Christopher Clark, I sonnambuli – Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra
- Henri Wesseling, La spartizione dell’Africa 1884-1914
- Indro Montanelli, L’Italia di Giolitti
Fortunato Turrini
23 Maggio 2017Chiarissimo nelle sue linee fondamentali e altrettanto chiaro sul ruolo delle varie Potenze europee. Non si fa cenno ancora agli interessi degli USA riguardo all’Europa.
Eduardo D'Amore
23 Maggio 2017Per ragioni di spazio quando creai questa rubrica decisi di seguire nello specifico le vicende dei sei paesi che nell’Agosto 1914 si sarebbero ritrovate in guerra. Usa, Giappone e gli altri stati europei saranno citati e analizzati volta per volta nelle singole occasioni in cui la loro strada ha incrociato quella maggiore dello scoppio della Grande Guerra; è il caso dell’Italia in questo articolo sarà ad esempio il caso del Belgio nell’ultimo articolo dedicato alla fine della Crisi di Luglio