“Le fila del Vietcong si stanno sempre più assottigliando” e “Le speranza del nemico sono alla fine”; nel lungo, e spesso tragicomico, elenco delle ultime parole famose un posto d’onore può essere occupato da queste e altre frasi di simile tenore pronunciate nel Novembre del 1967 dal generale William Westmoreland, comandante delle forze americane in Vietnam. Appena due mesi dopo quel nemico le cui file si stavano assottigliando e che stava rimanendo senza speranze lanciò un’offensiva generale che travolse l’intero Vietnam del sud portando la guerra sin dentro l’ambasciata americana. Con l’articolo di oggi non solo vi racconterò dell’offensiva del Tet, definita da James Arnold come una delle poche battaglie della storia a poter essere definite decisive, ma cercherò anche di spiegare perché uno scontro che, usando i metri di valutazione classici della scienza militare, andrebbe classificata come una grande successo difensivo degli americani, sia stato invece una sconfitta dopo la quale gli Stati Uniti persero progressivamente ogni speranza di poter uscire vincitori dal Vietnam.
Contrariamente a quanto a volte si crede la grande offensiva del 1968 non venne lanciata per colpire l’opinione pubblica americana così da portarla a pronunciarsi contro la guerra, ma aveva come obiettivo impressionare la popolazione del Vietnam del Sud e spingerla a dare inizio a quella sollevazione generale i cui tempi la dirigenza di Hanoi riteneva fossero maturi. Il Tet rimane probabilmente, insieme a Pearl Harbor , le Ardenne e il contrattacco cinese in Corea, il più efficiente attacco a sorpresa della storia delle guerre moderne. Un’operazione preparata accuratamente in ogni dettaglio e nella quale si riuscì a trarre completamente in inganno la controparte grazie a un eccellente lavoro di dissimulazione delle proprie intenzioni. La mente dietro al piano era il generale Vo Nguyen Giap, l’uomo che già era riuscito a cacciare i francesi dal sud-est asiatico, il quale iniziò a lavorare al progetto di un’offensiva generale nel Sud sin dal Luglio 1967. La decisione partiva da un’analisi estremamente lucida dell’attuale situazione in Vietnam: tanto l’esercito del Vietnam del Nord (d’ora in poi NVA) e Vietcong quanto gli Stati Uniti erano giunti in una situazione di stallo in quanto i primi non avevano le risorse per fronteggiare la superiore potenza di fuoco statunitense, mentre gli americani non potevano vincere senza un maggiore impegno di forze che però avrebbe voluto dire richiamare truppe dall’Europa e da altri scacchieri parimenti importanti. Giap era convinto che si potesse uscire dall’impasse con un attacco in grande scala, esteso a tutto il territorio del Vietnam del Sud, che impressionasse la popolazione locale spingendola a sollevarsi contro il governo filo-americano per instaurarne uno neutralista. Venuto meno il suo alleato gli Stati Uniti sarebbero stati costretti a trattare il loro ritiro, precondizione per la successiva riunificazione del Vietnam in un unico stato sotto la guida del Partito Comunista. Con questo ragionamento Giap metteva chiaramente in luce quale fosse la sua visione strategica: essendo impossibile una vittoria militare, le azioni belliche andavano condotte allo scopo di ottenere un risultato politico-diplomatico. Era una logica completamente opposta a quella americana che si basava sulle così dette missioni search and destroy e sulla conta dei corpi. Anni dopo i vertici militari statunitensi ammisero che il principale difetto della loro strategia in Vietnam, oltre al disgraziato sistema di rotazione che impedì il formarsi di una forza di veterani, fu la mancanza di un’autentica strategia per la vittoria; come scrisse in seguito il generale Edwin Simmons “Non avevamo un obiettivo chiaro. Non avevamo unità di comando. Non abbiamo mai preso l’iniziativa. La frase più comune era “forza di reazione”, stavamo reagendo al nemico”. Teoricamente l’idea di Westmoreland era di usare le forze USA, con la loro impressionante potenza di fuoco, per logorare la NVA e i Vietcong mentre le forze Sud vietnamite si addestravano e facevano opera di pacificazione nelle retrovie (il così detto conquistare i cuori e le menti). Questa strategia però presupponeva che le missioni di search and destroy fossero in grado di colpire duramente il potenziale umano del nemico (cosa che non avveniva perché intere aree si ritenevano bonificate quando invece i comunisti si erano solo ritirati nei loro tunnel sottoterra) e che le perdite subite fossero in grado di piegarne il morale (altra illusione in quando Ho Chi Minh e la dirigenza di Hanoi aveva fatto appello al fortissimo sentimento nazionale vietnamita, induritosi nel corso di secoli di resistenza al bulimico vicino cinese). Paradossalmente l’unico risultato che Westmoreland ottenne con le sue grandi operazioni del 1967 fu di convincere ancor più Giap della necessità di battere un colpo. Come detto fu nel Luglio 1967 che Hanoi decise per un’offensiva generale che andasse a colpire tutti i grandi centri urbani del Sud, fino a quel momento risparmiati dal conflitto, scegliendo come data per l’attacco la festività del Tet, cioè il capodanno lunare, posta alla fine di Gennaio. Sebbene si trattasse di una festività sacra, il Tet aveva anche un ruolo importante nella mitologia nazionale vietnamita in quanto fu nel Tet del 1789 che iniziò la sollevazione contro l’occupazione cinese di Hanoi. Da che venne presa la decisione di lanciare l’attacco una gran quantità di uomini e materiali iniziò ad essere fatta segretamente affluire in punti di raccolta nel Sud attraverso la rotta di Ho Chi Minh, cioè quel percorso che attraverso la giungla dei neutrali Cambogia e Laos permetteva al Nord di rifornire i Vietcong. Con grande attenzione vennero individuati nelle città luoghi sicuri all’interno dei quali, al momento opportuno, le squadre d’assalto si sarebbero dovute radunare; grazie all’aiuto di agenti civili, spesso donne e bambini, le armi vennero fatte sgusciare sotto il naso dei controlli delle autorità sud vietnamite (a cui il 15 Dicembre gli americani trasferirono la responsabilità della difesa di Saigon). Altri agenti in borghese giravano per le città al fine di raccogliere tutte le informazioni possibili sugli obiettivi da colpire e fu così che, alla vigilia dell’offensiva, le squadre d’assalto ebbero a disposizione delle notizie molto precise (a volte persino dei plastici fatti in sabbia) sulla natura delle difese; in alcuni casi si riuscì persino ad infiltrare uomini del Vietcong tra il personale di strutture sensibili come l’ambasciata americana o la stazione radio governativa. Non solo però preparazione tecnico-logistica, ma anche psicologico-propagandistica. La dirigenza comunista era consapevole che uno sforzo del genere avrebbe provocato molti caduti tra le file sia della NVA che dei Vietcong due forze che, col passare del tempo, sebbene non perdessero la volontà combattiva stavano iniziando a sviluppare una forma di rassegnazione all’inevitabilità del protrarsi del conflitto per un tempo indeterminato. Per risvegliare l’entusiasmo si diede grande pubblicità al fatto che l’offensiva sarebbe stata qualcosa di gigantesco e unico, in grado da sola di mettere fine al conflitto; venne garantito che la popolazione del Sud si sarebbe rapidamente unita a loro e lo stesso Ho Chi Minh, ormai anziano e molto malato, spese in prima persona il suo prestigio per propagandare l’azione. Lì dove però Giap ottenne il suo maggior successo fu nel mantenere il segreto su ciò che si stava organizzando, riuscendo altresì a trarre in inganno tanto gli americani quanto i sud vietnamiti sulle sue reali intenzioni. In parte questa segretezza era dovuta al rigidissimo sistema di compartimentazione delle informazioni; tutte le unità coinvolte sapevano che avrebbero preso parte a una grande offensiva, ma ognuna di queste conosceva nello specifico solo il suo obiettivo senza avere il quadro completo dell’intera operazione. Così quando l’intelligence americana iniziò a captare i primi segnali che qualcosa stava bollendo in pentola (diminuzione delle diserzioni tra il nemico, attacchi di natura diversa dal solito mordi e fuggi o ancora affermazioni da parte dei prigionieri di una futura liberazione del sud) non riuscì a dare una forma precisa al puzzle. A Dicembre 1967 l’idea che i comunisti fossero prossimi a lanciare una qualche operazione su grande scala si fece largo tra i vertici militari statunitensi in Vietnam (lo stesso Westmoreland informò Washington che era prossima “un’impresa di vaste proporzioni estesa a tutto il paese), ma non venne mai presa in considerazione l’ipotesi che la NVA e i Vietcong potessero attaccare le città. Questa convinzione era un frutto avvelenato del sistema della conta dei corpi, Westmoreland era infatti convinto che le sue missioni search and destroy avessero procurato tali e tante perdite al nemico da rendere impossibile a questi un attacco contro quelli che, teoricamente, erano gli obiettivi meglio difesi di tutto il Sud Vietnam. L’opinione generale era invece che Giap intendesse colpire una qualche base isolata presso la zona demilitarizzata che divideva il Nord dal Sud; tale idea può essere definita come l’ossessione di Dien Bien Phu. Dien Bien Phu è una località nel Nord-Ovest del Vietnam dove, nel 1953, i francesi costruirono una grande base che, nei loro pani, doveva essere un punto d’appoggio per colpire alle spalle la guerriglia di Vietminh; poco importava che questa base sarebbe stata completamente isolata in quanto le colline tutt’attorno avrebbero impedito al nemico di schierare l’artiglieria. Invece non solo i Vietminh portarono i loro mortai in cima alle colline, ma Giap strinse la base d’assedio concentrandovi trentatré battaglioni di fanteria. Dien Bien Phu divenne la tomba del colonialismo francese in Asia con oltre duemila morti e più di undicimila prigionieri, una sconfitta completa che divenne l’incubo di Westmoreland e dell’intera dirigenza americana. A suo merito va detto che Giap fece di tutto per convincere gli americani che fosse sua intenzione tentare di bissare il capolavoro di Dien Bien Phu; a Dicembre iniziò infatti a spostare ingenti forze verso la zona demilitarizzata e agli inizi di Gennaio fece convergere 40.000 uomini verso la base dei marines di Khe Sanh. Questa sembrava avere tutte le caratteristiche per poter essere una nuova Dien Bien Phu e i vertici militari americani si convinsero a tal punto di ciò da contagiare nella loro ossessione per la sconfitta francese anche la Casa Bianca (Lyndon Johnson esclamò “Non voglio un’altra Dien Bien Phu”) nonché la stampa la quale venne convinta che tenere Khe Sanh fosse decisivo in quanto questa base era “il punto cruciale della catena difensiva di quel settore”. In realtà le analogie tra Khe Sanh e Dien Bien Phu erano solo sulla carta e la differenza cruciale tra le due battaglie venne ben messa in luce da un ufficiale comunista che disse “a Dien Bien Phu i francesi e noi stessi ci ammassammo per quella che entrambi ritenevamo una battaglia risolutiva. Gli americani, invece, erano forti in ogni zona del Sud: quindi ci rendemmo conto, sin dall’inizio, che non eravamo in grado di infliggere una sconfitta decisiva in un unico scontro come quello di Khe Sanh”. Oltre a ciò, come fa notare Stanley Karnow nella sua storia della guerra in Vietnam, l’ampia disponibilità americana di elicotteri per rifornire la base e il totale controllo dei cieli rendeva impossibile quell’isolamento completo cui invece erano andati incontro i francesi nel 1954. Il concentramento di forze attorno alla base di marines in realtà era allora fumo negli occhi al fine di attrarre l’attenzione di Westmoreland e renderlo cieco a ciò che si stava preparando nel resto del Sud Vietnam; l’inganno fu così efficace che, anche dopo il Tet, i vertici militari e politici americani continuarono a temere che l’attacco contro le città fosse un tentativo dei comunisti di distrarre forze dalla difesa di Khe Sanh per poi colpire la base dei marines. Comunque qualche comandante americano dovette avere sentore che qualcosa di diverso si stesse preparando e prese delle contromisure che, dopo l’attacco, si sarebbero rivelate decisive. Ad esempio il generale Weyand, responsabile del III corpo d’armata che copriva anche l’area di Saigon, insospettito da alcune intercettazioni radio, ottenne da Westmoreland il richiamo del grosso delle sue forze dal confine cambogiano per poterle ricondurre nei pressi dei centri urbani; altro caso citabile fu quello del generale Stone, comandante della 4a divisione, che organizzò preventivamente la difesa della zona di Pleiku. Chi invece fu estremamente lento e poco deciso fu il governo sud vietnamita del presidente Thieu; questi aveva accettato l’offerta dei comunisti per una tregua di quarant’otto ore durante la festività del Tet, ma ai primi di Gennaio Westmoreland, convinto ormai che un attacco nemico fosse prossimo, fece pressioni perché questa tregua venisse sospesa. Thieu si oppose affermando che una decisione del genere avrebbe avuto un pessimo impatto sulla popolazione e suoi soldati, ma infine accondiscese a una sua riduzione a sole trentasei ore a partire dalla sera del 29 Gennaio. Quest’ordine venne però diffuso in maniera sporadica e confusionaria così che, ad esempio, nella zona di Saigon venne comunicato alle 22:00 del 29 Gennaio appena quattro ore e mezza prima dell’inizio dell’offensiva. Fu così che centinai di soldati sud vietnamiti di guarnigione nelle città, convinti che il divieto di uso di fuochi d’artificio fosse ancora sospeso, scambiarono i primi colpi d’armi da fuoco per l’esplosione di petardi festivi.
A Saigon l’offensiva del Tet ebbe inizio alle 2:00 del mattino del 31 Gennaio 1968. Sei erano gli obiettivi principali presi d’assalto da una forza di 4.000 uomini: il palazzo presidenziale, il quartier generale degli stati maggiori riuniti del Sud Vitenam (JGS), l’ambasciata americana, la base aerea di Tan Son Nhut, il quartier generale della marina e la sede della radio nazionale. Quest’ultimo bersaglio era considerato di particolare importanza in quanto si intendeva prenderne il controllo così da poter trasmettere all’intero Vietnam del Sud un messaggio di Ho Chi Minh nel quale si invitava la popolazione a sollevarsi contro il governo e i suoi alleati americani. L’assalto ebbe successo e, grazie all’effetto sorpresa, i Vietcong riuscirono rapidamente a prendere il controllo della struttura, ma non poterono trasmettere il messaggio perché un tecnico, sentendo gli spari, inviò un segnale in codice permettendo il repentino stacco della corrente elettrica della stazione. Fallito il loro principale obiettivo la forza d’attacco si trincerò nell’edificio, infatti l’ordine era che, una volta preso un obiettivo, questo andasse tenuto fino all’arrivo dei rinforzi; in realtà però questi rinforzi, che implicavano lo scoppio della sperata insurrezione generale, non giunsero mai, ma i Vietcong tennero comunque la posizione per sei ore finché, sopraffatti, decisero di falsi saltare in aria con la dinamite rimasta insieme all’edificio piuttosto che rischiare di farsi catturare. Fallimentare fu invece l’assalto al palazzo presidenziale, difeso da un’ingente guarnigione composta anche da due carri armati; rapidamente respinti gli attaccanti si rifugiarono in un vicino edificio che venne difeso per due giorni. Ancor peggio andò alla forza che attaccò il quartier generale della marina, questo obiettivo era stato scelto per portare avanti un ambizioso piano: impadronirsi delle navi ormeggiate e usarle per portare la popolazione delle zone rurali in città a prendere parte all’insurrezione; nulla di tutto ciò avvenne in quanto, in un combattimento di appena cinque minuti, la squadra d’assalto dei Vietcong venne completamente annientata. L’attacco al JGS fu uno dei primi ad essere lanciato, ma il sopraggiungere di una jeep americana nelle prima fasi dell’assalto permise alle forze sud vietnamite di mettersi in allarme e reagire prontamente. Teoricamente il perimetro del JGS avrebbe dovuto essere colpito da tergo da un’unità locale chiamata Go Mon, ma questa non riuscì ad arrivare in zona prima delle 7:00. Nonostante questo contrattempo il Go Mon riuscì a forzare le difese e a penetrare all’interno del perimetro, ma fatto ciò, seguendo rigorosamente gli ordini ricevuti, si trincerò in attesa anche stavolta dei rinforzi che non giunsero mai. Se avesse insistito nel suo attacco il Go Mon avrebbe potuto prendere facilmente il controllo dell’intero quartier generale mettendo fuori gioco il centro nevralgico dell’intero esercito sud vietnamita; invece persero l’occasione e subirono il contrattacco dei paracadutisti e dei marine sud vietnamiti che, infine, riuscirono ad espellere il nemico dalla struttura. La memoria del Tet a Saigon resta però indissolubilmente legato all’attacco contro l’ambasciata americana. Diciannove Vietcong partirono da un’officina meccanica il cui proprietario, nonostante fosse noto alla polizia come simpatizzante comunista, era stato lasciato incredibilmente a piede libero e senza alcuna sorveglianza; gli autori anche di parte americana comunque non gettano troppo la croce sulle deficienze della sicurezza sud vietnamita visto che i Vietcong ebbero i dettagli sulla struttura dell’ambasciata da un autista che per anni aveva indisturbatamente lavorato nell’edificio. Il gruppo d’attacco giunse all’ambasciata verso le tre del mattino e immediatamente i quattro poliziotti sudvietnamiti incaricati della difesa del perimetro esterno si diedero alla fuga senza combattere. Dopo un breve conflitto a fuoco con due guardie della military police, i Vietcong fece brillare una carica d’esplosivi aprendosi una breccia nel muro esterno; dimostrando grande coraggio, ma anche poche senso tattico, i comandanti furono i primi a sciamare all’interno del cortile venendo abbattuti subito lasciando così l’intera squadra d’assalto senza ufficiali. Nonostante ciò i Vietcong rimanenti riuscirono rapidamente a prendere il controllo del cortile uccidendo cinque soldati americani e colpendo la facciata esterna dell’ambasciata con granate e razzi. Anche qui però i comunisti commisero il medesimo errore fatto durante l’assalto al JGS e cioè non sfruttarono il loro successo iniziale. Infatti i Vietcong avevano a disposizione un’ampia quantità d’esplosivo con cui si sarebbero potuti facilmente aprire un accesso all’edificio per poi conquistarlo date le scarse forze che lo presidiavano; invece, senza la direzione dei loro ufficiali, gli attaccanti scelsero di attenersi rigidamente alle istruzioni ricevute di aspettare i rinforzi e presero posizione difensiva dietro i grandi vasi di fiori. Caso volle che l’ambasciata fosse vicinissima alla sede della stampa occidentale e così i giornalisti, sentiti i primi spari, accorsero sul luogo per vedere cosa stesse succedendo; ovviamente non poterono accedere all’edificio e così si basarono sulle dichiarazioni di un agente della military police sul luogo che, evidentemente in preda alle emozioni, fece intendere che l’intero edificio fosse stato conquistato. Fu così che in pochi minuti la Associated Press batté la notizia che l’ambasciata americana era stata conquistata mentre le televisioni di tutta l’America iniziava a trasmettere le immagini della battaglia con i cadaveri in strada e i soldati americani che cercavano rifugio dai colpi d’arma da fuoco che provenivano dal cortile dell’ambasciata. Consapevole di quale fosse la reale situazione il generale Weyand non intendeva rischiare un assalto notturno per riprendersi il cortile dell’ambasciata, tenuto anche contro che l’intera Saigon era sotto attacco, ma da Washington Lyndon Johnson in persona, consapevole del devastate effetto che la cosa stava avendo sull’opinione pubblica, ordinò a Westmoreland di riconquistare l’edifico. Weyand tentò allora di portare un plotone di soldati dentro l’ambasciata tramite un elicottero che doveva atterrare sul tetto, ma i Vietcong nel cortile respinsero il velivolo a colpi di AK-47 e così il generale americano decise di attendere il giorno per non rischiare perdite inutile; scelta tatticamente e strategicamente irreprensibile, ma che fa capire quanto poco i comandanti americani intuirono la portata politica e morale del Tet. In effetti non appena fu giorno la military police entrò senza difficoltà nel cortile e, con un breve combattimento, riuscì a uccidere facilmente i Vietcong superstiti riprendendo completamente il controllo dell’area dopo quasi sei ore dall’inizio dell’attacco. Westmoreland si presentò alle 9:20 all’esterno dell’edificio per una dichiarazione ufficiale alla stampa; fu una delle scene più famose e irrealistiche dell’intera guerra: mentre tutt’attorno erano ben visibili i cadaveri dei Vietcong e lo stemma degli USA giaceva a pezzi al suolo il comandate americano, con l’uniforme perfettamente stirata e inamidata, spiegava con tutta calma che il nemico non era mai penetrato nell’ambasciata vera e propria e che comunque, nonostante il proditorio attacco a tradimento, la situazione a Saigon era sotto controllo. Un giornalista del Washington Post in seguito ricordò la scena dicendo “non potevamo credere alle nostre orecchie. Westmoreland era in piedi in mezzo alle macerie e affermava che tutto andava bene.”; a rendere ancor meno credibili le dichiarazioni appena fatte un nuovo scontro si accese a poca distanza di lì a breve sempre in diretta televisiva. Effettivamente, nonostante le rassicuranti parole di Westmoreland, Saigon era un immenso campo di battaglia. I Vietcong avevano tra l’altro colpito il comando dello stesso Westmoreland, quello di Weyand (dove erano riusciti a far saltare in aria un deposito d’esplosivi) e la base aera di Bien Hoa; qui l’assalto era stato particolarmente violento e dovettero intervenire varie unità della cavalleria blindata per respingerlo. Fu uno degli scontri più duri che si verificarono nella capitale sud vietnamita perché l’attacco era stato portato avanti da unità veterane che sfruttarono ogni anfratto per colpire gli autoblindo e i corazzati provocando molte perdite tra i mezzi (ad esempio in un plotone rimasero in funzione solo sei dei dodici ACAV partiti). Un altro combattimento particolarmente violento si ebbe presso l’ippodromo di Phu Tho strategicamente importante sia perché situato all’incrocio di molte strade principali sia perché conquistandolo si toglieva agli elicotteri americani una “pista d’atterraggio” per scaricare i rinforzi in città. Solo alle 16:30, con i supporto degli elicotteri d’attacco, l’ippodromo fu riconquistato, ma i Vietcong invece di ritirarsi si dispersero negli edifici intorno costringendo gli americani a un difficile combattimento strada per strada. In linea di massima il Tet a Saigon fu un fallimento, nessuna insurrezione generale era scoppiata e, a causa della compartimentazione delle informazioni, le varie unità non erano a conoscenza dei rispettivi obiettivi non potendo così supportarsi a vicenda. Nonostante molti successi iniziali già il 1° Febbraio il comando supremo comunista diede ordine di sospendere gli attacchi contro le postazioni nemiche e di trincerarsi; si accesero così una serie di micro scontro tra singole unità Vietcong e le forze americane e sud vietnamite che tentavano di riprendere il controllo della città. Progressivamente i membri di queste unità Vietcong isolate si andarono ad unire alla battaglia presso l’ippodromo che infuriò ancora per molti giorni; solo il 7 Marzo, cinque settimane dopo l’attacco, fu possibile dichiarare Saigon sicura.
Anche nel resto del Vietnam del Sud il Tet può essere riassunto come una serie di successi iniziali, dovuti all’effetto sorpresa e all’impreparazione degli avversari, ma fallimenti nel medio lungo termine per l’assenza di un’attiva collaborazione della popolazione nonché per la pronta reazione delle forze americane. Senza fare un lungo e sterile elenco di ogni singola battaglia citerò solo alcuni degli scontri più rilevanti per dare delle coordinate generali. A Da Nang, la seconda città del Sud, l’attacco fallì perché un infiltrato tra i Vietcong ne diede preventiva notizia; nonostante ciò una squadra d’assalto riuscì a penetrare nel campo base del locale corpo d’armata sud vietnamita. Questa situazione di pericolo si risolse però rapidamente grazie alla pronta e audace reazione del generale Hoang Xuan Lam che ordinò all’artiglieria americana di bombardare le postazioni dei Vietcong nonostante queste fossero a meno di 200 m da lui. Nell’area del delta del Mekong i Vietcong mandarono tutti i loro battaglioni disponibili all’attacco di tredici delle sedici città provinciali. Qui l’urto fu sostenuto in gran parte dalla Mobile Riverine Force (MRF) che dovette impegnarsi in una serie di duri scontri per riconquistare ogni singola posizione persa; i combattimenti durarono oltre trenta giorni e molte città furono riprese solo attraverso l’uso intensivo di artiglieria e aviazione che provocò distruzione oltre che pesanti perdite tra i civili. Lapidaria rimase la frase con cui un maggiore americano spiegò alla stampa quello che era successo nella città di Ben Tre “Si rese necessario distruggere la città per salvarla.”. Anche l’intera fascia centrale del Sud Vietnam venne travolta dall’offensiva che colpì sette delle capitali provinciali, ma entro una settimana gli americani e le forze sud vietnamite riuscirono a contenere l’attacco. Il 21 Febbraio il comando supremo comunista valutò che gli spazi per continuare l’offensiva si erano ormai esauriti; le perdite erano altissime e l’agognata sollevazione generale della popolazione non vi era stata per cui insistere con gli attacchi avrebbe avuto come unico risultato quello di distruggere completamente i Vietcong come forza militare. Venne dunque dato l’ordine alle forze che ancora combattevano nelle città di ritirarsi e tornare nella giungla per riprendere con la guerriglia; solo un’eccezione venne fatta: Hue.
Hue è l’antica capitale dell’Impero della dinastia Nguyen con una cittadella fortificata, ispirata alla Città Proibita di Pechino, che circonda il Palazzo della pace. Si trattava quindi di un obiettivo dall’alto valore simbolico, ma anche strategico visto che il suo ponte ferroviario sul fiume dei profumi era una delle principali arterie di comunicazione con le basi americane nei pressi della zona smilitarizzata. L’intelligence dei Vietcong qui aveva fatto un lavoro sopraffino nell’individuare ogni singola installazione militare in città; inoltre aveva stilato un’ampia lista di personale civile, militare e cittadini stranieri da catturare ed evacuare come prigionieri di guerra se possibile, se no da uccidere sul posto. Anche nel caso di Hue vi furono dei segnali premonitori che avrebbero potuto mettere in allarme le forze locali, ma forse confidando troppo nella natura sacra della città il generale sud vietnamita Ngo Quang Truong escluse un attacco al centro cittadino schierando le sue forze fuori dall’abitato. Nelle prime ore del 31 Gennaio il 12° battaglione Vietcong, un battaglione di genieri, due reggimenti di fanteria della NVA ed un battaglione missilistico investirono Hue. Due erano gli obiettivi militari di primaria importanza e cioè il quartier generale della 1a divisione sud vietnamita sulla riva Nord e il compound che ospitava i consiglieri militari americani e australiani sulla riva Sud. Una gragnuola di missili si abbatté su quest’ultimo, ma i Vietcong invece di attaccare subito dopo la fine del fuoco di sbarramento attesero cinque minuti buoni durante i quali i marines poterono prendere posizione e iniziare una disperata difesa. Nonostante questo grave errore tattico il resto della città cadde rapidamente in mano degli attaccanti e sul pennone della cittadella, il punto più alto dell’intero Vietnam del Sud, fu innalzata la bandiera rosso-blu del Vietcong. Alla base americana di Phu Bai il generale Foster LaHue non si avvide subito della gravissima situazione e, ricevuti i primi rapporti di un attacco contro Hue, inviò in soccorso solo due plotoni e mezzo del marine accompagnati da quattro carri Patton. Questo convoglio venne falcidiato dalle imboscate nemiche, i Vietcong e NVA oltre alla città avevano assunto il controllo delle campagne circostanti, e dovette ben presto chiedere aiuti per evitare di essere annientato. Un’altra compagnia venne così spedita verso Hue e, preso contatto con il convoglio, lo aiutò a raggiungere il compound alleato sulla riva sud; l’azione, sebbene certamente salvò la vita al personale della struttura, costò gravi perdite che aumentarono ulteriormente quando LaHue diede lo scriteriato ordine a quelle poche forze di passare sulla riva Nord. L’azione fu un massacro e cinquanta dei centocinquanta marines che vi presero parte vennero uccisi o feriti. La stabilizzazione del perimetro intorno al compound della riva Sud e del quartier generale sud vietnamita della riva Nord creò comunque le precondizioni per la controffensiva perché così gli elicotteri ebbero due aree sufficientemente sicure dove scaricare i rinforzi. Sin dal 1° Febbraio iniziò un violento e sanguinoso scontro tra le vie della città nel tentativo di riconquistarla metro per metro. Le cose si fecero sin da subito difficili intanto perché, sia a causa della natura storica della città che delle pessime condizioni metereologiche, gli americani dovettero fare a meno del supporto aereo e dell’artiglieria; inoltre i Vietcong e le forze della NVA crearono una serie di posizioni fortificate negli edifici della città così che ogni finestra o angolo poteva nascondere un’insidia… per non parlare poi dei cecchini appostati in ogni dove e pronti a fare strage delle squadre dei marines. Anche sulla riva Nord i sud vietnamiti non se la passavano meglio: ogni tentativo di portare rinforzi via terra si concludeva con pesanti perdite causa le imboscate, il campo d’aviazione di Tay Loc fu riconquistato a caro prezzo e le mura nord-ovest della cittadella, riconquistate il 4 Febbraio, vennero nuovamente perse il 6. Anche il tentativo di tagliere la via di rifornimento che supportava i comunisti a Hue fu un fallimento sanguinoso: due battaglioni della NVA supportati dal pesante fuoco dei mortai respinse con gravi perdite l’attacco di un battaglione della 1a divisione cavalleria aerea americana; questa si rese autrice di un’eroica ritirata notturna di undici ore attraverso le risaie, azione straordinaria che però non poteva nascondere il fatto che il tentativo di tagliare i viveri a Hue era miseramente fallito. Solo il 10 Febbraio la riva sud della città fu completamente ripresa mentre i sud vietnamiti avevano riconquistato i tre quarti della riva Nord, ma i comunisti erano ancora in possesso di ampi settori della cittadella e lanciavano spettacolari contrattacchi a dimostrare come il loro spirito combattivo non fosse per nulla scosso. Gli assalti alla cittadella restano alcuni degli scontri più feroci mai sostenuti dai marines dopo la seconda guerra mondiale, James Arnold ricorda come nella settimana che andò dal 13 al 20 Febbraio quattro compagnie contarono quarantasei morti, duecentoquaranta feriti gravi e sessanta feriti considerati comunque ancora abili a combattere. La situazione era così grave che le perdite venivano supplite con giovani reclute spedite direttamente dagli Stati Uniti dove avevano da poco concluso il corso d’addestramento. Il 21 Febbraio il 1° cavalleria riuscì finalmente a interrompere i rifornimenti alla città, l’assalto finale alla cittadella venne lasciato alla compagnia Pantere Nere della 1a divisione sud vietnamita che spezzò la resistenza nemica e ammainò la bandiera del Vietcong dopo venticinque giorni di scontri. Hue era ridotta in macerie, i sud vietnamiti avevano avuto 384 morti e 1800 feriti, gli americani, tra esercito e marines, 216 morti e 1364 feriti mentre i Vietcong e la NVA ebbero forse 5000 caduti. Anche le perdite civili furono altissime, oltre 5800 morti parte a causa degli scontri all’interno della città, parte a cause delle purghe operate dai comunisti durante i giorni in cui la città fu sotto il loro controllo.
Senza mezzi termini il Tet fu un bagno di sangue per i Vietcong che ebbero tra i quaranta e i cinquantamila morti. Si può dire che nessuno degli obiettivi iniziali che Giap si era posto venne raggiunto: l’insurrezione generale non vi era stata e non era stato possibile tenere nessuna delle posizioni conquistate nei primi giorni dell’offensiva. Guardandolo da un punto di vista esclusivamente militare il Tet, come già detto, può essere considerato una grande vittoria difensiva delle forze americane e sud vietnamite. Nonostante infatti il devastante effetto sorpresa iniziale e le perdite non indifferenti, circa quattromila tra gli americani e tra i quattro e gli ottomila tra i sud vietnamiti, il Vietcong era stato quasi completamente annientato e la reazione era stata sufficientemente pronta. Le unità statunitensi si erano comportante molto bene mentre più ondivago era stata la qualità delle forze sud vietnamite, alcune avevano combattuto accanitamente mentre altre si erano semplicemente messe in coda agli americani per depredare i cadaveri dei nemici. La realtà del Tet però va ben al di là del semplice dato militare e viene chiaramente messa in luce da questa rabbiosa constatazione di un ufficiale americano “Con nostro grande stupore nelle settimane che seguirono, nessuno rese nota questa impresa descrivendola come una vittoria sul campo di battaglia. Anzi leggevamo che eravamo stati sconfitti!”. L’offensiva infatti fu un devastante trauma psicologico per l’opinione pubblica americana che vi assistette praticamente in diretta televisiva e da quel momento progressivamente iniziò a perdere fiducia nelle possibilità di vincere la guerra. Esercito e Casa Bianca in seguito diedero la colpa di ciò a una non corretta copertura degli eventi da parte degli organi d’informazione, ma in realtà i primi da biasimare per questo devastante contraccolpo dovevano essere loro stessi. Il Tet giunse infatti dopo che per due mesi, Novembre e Dicembre 1967, Johnson aveva spinto l’esercito a portare avanti una campagna di pubbliche relazioni tesa a convincere il paese che la vittoria fosse a portata di mano. Completamente assorbito dai preliminari della campagna per le primarie il Presidente decise di non preparare l’opinione pubblica all’eventualità di un’offensiva nemica neanche quando Westmoreland gli comunicò di considerarla imminente. Così gli americani, a cui fino a poche ore prima era stato ripetuto che i Vietcong erano sul punto di essere sconfitti, videro il nemico travolgere l’intero Vietnam del Sud come un’onda di mare entrando persino nel sancta sanctorum della loro ambasciata. Una delle immagini che sconvolse di più il pubblico americano venne filmata e fotografata da Eddie Adams della Associated Press la mattina del 31 Gennaio a Saigon: vicino al tempio di An Guang alcuni soldati sud vietnamiti avevano catturato un Vietcong e lo portarono al generale Nguyen Ngoc Loan, capo della polizia nazionale, che immediatamente tirò fuori la pistola e sparò alla testa del prigioniero. La foto che ritraeva il momento esatto dello sparo, con la smorfia del giovane Vietcong, e le immagini registrate nelle quali si vedeva lo schizzo del fiotto di sangue vennero riproposte più volte sui giornali e nelle televisioni. Fu quello il momento in cui l’opinione pubblica iniziò a perdere fiducia nella sua classe politica e nelle dichiarazioni che da essa provenivano; le bare dei caduti che tornavano a casa avvolte nelle bandiere a stelle e strisce vennero progressivamente guardate in maniera diversa mentre tra i giovani si diffondeva l’opposizione all’idea di essere mandati a morire in una guerra che sembrava impossibile da vincere. A scontentare ulteriormente l’opinione pubblica fu l’annuncio dato a Giugno che la base di Khe Sanh, “il punto cruciale della catena difensiva di quel settore”, sarebbe stata demolita e abbandonata dopo che oltre mille marines vi avevano perso la vita per difenderla. Si ritiene che il punto di svolta del Vietnam fu la sera del 27 Febbraio 1968 quando Walter Cronkite, il conduttore del telegiornale della CBS e definito “l’uomo più credibile d’America”, al termine di un servizio sul Tet tenne un suo editoriale nel quale disse “Dire che oggi siamo più vicini alla vittoria significherebbe credere a quegli ottimisti che in passato si sono spesso sbagliati. Suggerire che ci avviamo alla sconfitta vorrebbe dire cedere a un pessimismo irragionevole. Affermare che siamo impantanati in un punto morto è la sola conclusione realistica… diventa sempre più chiaro a chi vi parla che l’unica via d’uscita razionale sarà negoziare.”. In effetti se ci fu una vittima eccellente del Tet questa fu la strategia di Westmoreland e i suoi ottimistici calcoli sulle perdite “irreparabili” subite dal nemico a seguito delle operazioni search and destroy. A fronte di un Vietcong e di una NVA che evidentemente avevano ancora un ampio potenziale umano da sfruttare, e che facendo leva sul nazionalismo vietnamita non rischiavano di subire un crollo morale, restavano sul campo solo due opzioni: o un’escalation dello scontro con l’invio di ingenti forze o trattare. La prima opzione era impercorribile sia perché gli USA non potevano distogliere forze da altri settori come l’Europa sia perché gli umori del paese non lo permettevano. Si doveva dunque trattare cioè andare esattamente lì dove Giap e Ho Chi Minh volevano giungere attraverso la strategia del trattare e combattere allo stesso tempo al fine di sfibrare il nemico e costringerlo ad accettare le loro condizioni. Per gli americani insomma si stava avverando quella profezia che Ho Chi Minh aveva già fatto ai francesi quasi un ventennio prima “Potete uccidere dieci dei miei uomini per ognuno dei vostri che ucciderò io, ma anche così voi perderete e io vincerò!”. Oltre a ciò l’offensiva dei Vietcong mise bruscamente fine all’opera di pacificazione delle campagne portata avanti dalle forze sud vietnamite, che dovettero essere velocemente richiamate nei centri urbani per far fronte all’attacco. Questo, unito con le pesanti perdite civili e l’uso di armi pesanti sui centri abitati per contenere l’assalto, aumentò ulteriormente la sfiducia della popolazione sud vietnamita nel proprio governo e negli americani; i civili del Sud non erano certo pronti ad accogliere a braccia aperte i comunisti, ma sicuramente dopo il Tet la noia per la guerra e una generale neutralità verso di essa si diffusero in tutto il paese. Altra “vittima” del Tet fu il Presidente Johnson che dopo l’offensiva vide costantemente crollare la sua popolarità; amareggiato a Marzo, poco dopo la fine dei combattimenti principali, annunciò in diretta televisiva che non si sarebbe ripresentato per ottenere un nuovo mandato. Nixon, che sarebbe stato eletto a fine anno, non cercò mai di vincere la guerra, ma di concluderla quanto meno senza che si dicesse che gli Stati Uniti l’avessero persa; diede così inizio alla vietnamizzazione, precondizione per l’inizio del ritiro, mentre l’America scivolava in una delle fasi di più forte conflittualità interna dai tempi della guerra civile. Forse la miglior analisi del Tet la diede il generale nord vietnamita Tran De, intervistato anni dopo da Stanley Karnow, “In tutta onestà, dobbiamo ammettere che abbiamo mancato il nostro obiettivo, che era quello di provocare una sollevazione nel Sud. Eppure, abbiamo inflitto perdite pesanti agli americani e ai loro fantocci e questo è stato un grande successo per noi. Non era nostra intenzione influenzare la politica interna americana; questo è stato comunque un effetto favorevole della nostra condotta.”.
Bibliografia:
- Stanley Karnow, Storia della guerra del Vietnam
- James Arnold, L’offensiva del Tet
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