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Pearl Harbour – Giorno dell’infamia o giorno del trionfo?

Infamia. Questo è l’aggettivo che giunge subito alla mente di chiunque pensando alla data del 7 Dicembre 1941, giorno in cui il Giappone lanciò il suo attacco a sorpresa contro la base di Pearl Harbour nelle Hawaii, dove era concentrata gran parte della flotta del Pacifico statunitense. Il grandioso incipit con cui Franklin Roosevelt aprì il suo discorso del giorno dopo, nel quale chiese al congresso di prendere atto dello stato di guerra tra le due potenze, si è impresso indelebilmente nella storia. L’attacco a Pearl Harbour fu un’infamia, una pugnalata alle spalle, quasi un atto di terrorismo e a tal punto questa idea è entrata nella mentalità non solo americana, ma occidentale in genere, che subito dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 molti giornalisti e osservatori per andare a ricercare un precedente storico sono finiti proprio a Pearl Harbour. In effetti i due eventi condividono un elemento, essi infransero di colpo una delle più assolute certezze degli Stati Uniti: quella della inviolabilità dei loro confini. Entrambi gli attacchi fecero sentire gli americani indifesi e vulnerabili, dopo anni di crogiolamento nell’idea che mai qualcuno sarebbe stato in grado di portare un’aggressione direttamente sul loro suolo, scatenando un’isteria collettiva che durò settimane se non mesi. A parte ciò però i due eventi sono effettivamente appaiabili? Davvero l’attacco a Pearl Harbour fu uno spregevole atto di tradimento oppure la verità è che fu una brillante vittoria militare conseguita da un nemico grossolanamente sottovalutato? Nell’articolo di oggi proverò a dare la mia risposta a questa domanda analizzando l’attacco da vari punti di vista senza però, e lo anticipo subito, andare a fare una cronaca minuto per minuto di come si svolse perché ritengo che nulla porterebbe in più alla discussione sapere a che ora l’Arizona fu colpita per la prima volta o quando la Nevada si andò a incagliare.

-Attacco a tradimento o attacco a sorpresa?

Tutti i più importanti studiosi di cose militari dall’antichità ad oggi sono concordi nell’affermare che un comandante dovrebbe sempre, per quanto ovviamente sia possibile, cercare di conseguire la sorpresa che colga il nemico in una posizione di svantaggio. Sun Tzu scrisse che “l’attacco diretto mira al coinvolgimento; quello di sorpresa, alla vittoria.”, Vegezio dirà che non c’è momento migliore per attaccare di quello in cui il nemico è impreparato perché diviso o nel pieno dell’attraverso di un fiume, mentre Clausewitz definirà la sorpresa “base a tutte le imprese belliche.”. L’autore prussiano dedicherà un intero capitolo del suo “Della guerra” a tale argomento sebbene riterrà, quasi con una nota di dispiacere, difficile conseguirla a livello strategico-politico come atto d’inizio delle ostilità in ragione degli elefantiaci eserciti della fine del settecento. Questa considerazione non devono essere prese per ciniche o machiavelliche, ma bensì dettate dall’essenza stessa della guerra. Lo scopo di qualsiasi comandante è vincere o, per usare sempre le parole di Clausewitz, “costringere l’avversario a sottomettersi alla propria volontà” e ciò va fatto nel modo che sia allo stesso tempo più rapido e meno dispendioso per le proprie forze. In tal senso aprire le ostilità con un attacco a sorpresa che infligga il massimo danno al nemico lasciandolo così nell’incapacità di continuare lo sforzo non è solo assolutamente sensato, ma anche, a mia opinione, perfettamente legittimo. Ciò è però ben diverso da un tradimento che consiste invece nel fingersi amici per colpire poi alle spalle. Il Giappone nel 1941 non fece nulla del genere anzi mise in chiaro che se fosse stato possibile giungere a un accomodamento diplomatico accettabile con gli Stati Uniti non vi sarebbe stata la necessità, per il momento, di un conflitto. Perfino i falchi del governo nipponico non misero mai in discussione che la ricerca di una soluzione diplomatica dovesse essere perseguita, ma pretesero, e ottennero, solo che fosse messo un preciso termine temporale a quest’opera di mediazione, decorso il quale l’opzione militare sarebbe divenuta la linea maestra. Il generale Tojo, capo del governo ultra-militarista giapponese, mise in chiaro con l’ambasciatore presso gli Stati Uniti Nomura che “Vi sono ragioni che vanno al di là delle sue capacità di comprensione per le quali vogliamo determinare i rapporti tra Giappone e Stati Uniti entro il 25 (Novembre)” poi prorogato sino al 29. Per cui il Giappone lasciò aperta la via della pace, magari non credendoci, sino a una settimana prima dell’attacco il cui ordine sarebbe stato revocato nell’ipotesi, molto improbabile, di un accordo in extremis. Dopo il 29 si può imputare ai giapponesi di aver tratto in inganno il governo americano continuando fingendo di voler continuare i negoziati, ma questo non credo possa essere iscritto alla categoria dei tradimenti bensì a quella, legittima, degli inganni. Tradimento ci sarebbe stato se il Giappone avesse fatto credere agli Stati Uniti di voler accettare le sue condizioni, magari firmando anche un trattato in tal senso, per poi lanciare l’attacco magari approfittando del calo di attenzione dovuto alla convinzione che il pericolo fosse passato.  Certo i nipponici potevano essere “onesti” e dichiarare guerra direttamente il 29 Novembre astenendosi da azioni offensive finché il rituale diplomatico non fosse stato soddisfatto, ma a parte il fatto che il Giappone tentò di rispettare il protocollo presentando la dichiarazione di guerra un’ora prima che l’attacco avesse luogo, cosa che non fu possibile per l’incompetenza di una dattilografa, una condotta del genere avrebbe imposto al paese di entrare in guerra contro una grande potenza senza tentare conseguire nessun vantaggio iniziale. Un’onestà che avrebbe rasentato la stupidità.

Va inoltre tenuto in considerazione che i giapponesi non furono assolutamente i primi a progettare e mettere in atto un attacco preventivo a sorpresa contro una flotta nemica come prima mossa strategica di un conflitto. Plutarco racconta di come Temistocle, alla fine della seconda guerra persiana, propose di distruggere le navi dei greci alleati, azione questa sì a tradimento, per garantire ad Atene la supremazia marittima. Nel 1807 gli inglesi attaccarono a sorpresa, e senza una dichiarazione di guerra, la flotta danese ancorata a Copenaghen per impedire che questa potesse unirsi a Napoleone. Da questo azione nacque il termine militare “copehanaghizzare” con cui si intende appunto la distruzione o la cattura preventiva di una flotta nemica con un colpo a sorpresa. In seguito prima dello scoppio della Grande Guerra più volte l’Ammiragliato britannico ipotizzò una copenaghizzazione della flotta imperiale tedesca  mentre proprio il Giappone nel 1905 diede inizio alla guerra contro la Russia attaccando la flotta nemica ancorata Port Arthur stavolta sì dopo una formale dichiarazione di guerra, ma con la flotta salpata ventiquattr’ore prima la rottura delle relazioni. Infine ancora gli inglesi il 3 Luglio 1940, quindi appena un anno prima di Pearl Harbour, affondarono la flotta francese, fino a un mese prima alleata e adesso tecnicamente neutrale, presso Mers-el-Kebir non fidandosi delle assicurazioni giunte dal governo di Vichy che mai avrebbe permesso ai tedeschi di impadronirsi delle sue navi. Visti questi precedenti mi sembra alquanto ipocrita gettare la croce sui giapponesi dipingendoli come autori di qual gigantesca scorrettezza; la loro fu una pura e semplice tattica militare etichettata come infamia per l’unica colpa di aver funzionato magnificamente. Voglio aggiungere però che nessuna di queste vicende da me appena rievocate, anche le più bieche come quella di Mers-el-Kebir, dovrebbero essere condannate perché in un conflitto, quando il nemico dispone di una flotta potente, non vi è alcuna scelta strategica più sensata che quella di annichilirla prima che possa essere adoperata. La ragione di ciò è molto semplice e l’ho illustrata già in un mio precedente articolo: cinicamente un soldato, se muore, può essere sostituito in tempi ragionevoli, una flotta invece, se distrutta, a causa dei tempi e dei costi di costruzione di una singola nave rischia di essere messa fuori causa per buona parte della durata di una guerra. E’ il motivo per cui, tendenzialmente, gli Ammiragli sono meno avvezzi a correre rischi e hanno un atteggiamento prevalentemente conservativo delle loro forze.

-I meriti giapponesi e la superficialità americana

La natura dell’attacco a Pearl Harbour come azione a sorpresa secondo me ha, indirettamente, contribuito allo stesso tempo a sminuire i meriti giapponesi e le colpe americane. Potrebbe essere infatti facile pensare che, fondamentalmente, i giapponesi non abbiano fatto nulla di eccezionale dato che chiunque sarebbe stato in grado di fare una cosa del genere fintanto che la controparte non se lo fosse aspettato; viceversa si potrebbe dire che ben poco si può imputare agli americani se non l’essere caduti nell’inganno nemico. Entrambe le sentenze sarebbero sbagliate perché da un lato i giapponesi riuscirono in qualcosa che non era mai stato tentato mentre gli americani gli facilitarono enormemente il compito compiendo alcuni grossolani errori.

L’idea di un’apertura delle ostilità con gli Stati Uniti tramite un attacco preventivo alla sua flotta trovava concordi tutte le correnti della marina nipponica; dopotutto gli Stati Uniti disponevano della seconda flotta al monda e un conflitto nel Pacifico inevitabilmente avrebbe comportato un confronto diretto con quella giapponese. Sebbene le navi dell’Impero del Sol levante fossero mediamente di qualità superiore sia in quanto a tecnologia che in quanto ad addestramento degli equipaggi, solo poche settimane dopo Pearl Harbour sarebbe entrata in servizio la Yamato che sarebbe stata la più grande corazzata del mondo, la dottrina della grande guerra totale non convinceva tutti gli Ammiragli della Marina imperiale. Stando a questa dottrina la flotta giapponese avrebbe dovuto, corazzate in testa, sfidare frontalmente il nemico per annientarlo in un unico grande e decisivo scontro come aveva fatto Nelson a Trafalgar o l’Ammiraglio Togo a Tsushima. Chi non era d’accordo erano le nuove leve degli ufficiali dell’aviazione, tra i più importanti Mitsuo Fuchida e Minoru Genda, convinti che questa nuova arma, ormai uscita dalla sua infanzia, offrisse la possibilità di reinventare completamente la guerra navale infrangendo il mito del primato delle grande corazzate. Leader di questa seconda corrente era l’ammiraglio Isoroku Yamamoto tra i primi al mondo a intuire l’immenso potenziale delle portaerei, ma allo stesso tempo contrario all’idea di una guerra con gli Stati Uniti perché consapevole dell’enorme potenziale nascosto all’ombra del “gigante addormentato”. Quando comprese che il governo del suo paese aveva ormai deciso per la guerra Yamamoto, interrogato in merito, espresse una famosa profezia e cioé che il Giappone aveva una finestra massima di sei mesi per ottenere una vittoria oltre la quale la forza economico-industriale degli Stati Uniti si sarebbe potuta dispiegare in tutta la sua devastante efficacia. In linea con un pensiero del genere il rischiare l’intera flotta in un’unica battaglia, come sostenevano i teorici della grande guerra totale, doveva apparire a Yamamoto un azzardo eccessivo oltre che inutile essendoci un’alternativa che, se messa in atto, avrebbe potuto produrre il massimo danno col minimo delle perdite. Nacque così l’operazione Hawaii o operazione Z che era qualcosa che non era mai stato tentato prima. L’idea non era altro che uno sviluppo dell’attacco che un anno prima gli inglesi avevano lanciato al porto di Taranto usando venti aerosiluranti, lanciati dalla portaerei Illustrius, e che aveva prodotto il danneggiamento di tre corazzate italiane. Yamamoto, che aveva ricevuto i rapporti dell’addetto militare giapponese in Italia, elevò tutto alla potenza progettando il più grande assalto aero-navale mai pensato prima nella storia. Un rapido confronto tra l’azione di Taranto e quella di Pearl Harbour aiuterà a capire la grandiosità del piano giapponese. Nel caso di Taranto questo fu un attacco notturno portato da una squadra navale partita da Malta (quasi 750 km in linea d’aria) e composta da una portaerei, quattro incrociatori e sei cacciatorpediniere; l’operazione Z prevedeva di spostare una flotta di 6 portaerei, 2 corazzate, 3 incrociatori, 9 cacciatorpediniere e 8 navi-cisterna dalle isole Curili a 400 km a nord delle Hawaii (più di 6000 km in linea d’aria) per poi lanciare un attacco diurno con 390 aerei! Già solo l’idea di poter portare una flotta di tali dimensioni sull’obiettivo passando inosservati, mantenendo il silenzio radio e seguendo una rotta molto a Nord così da restare lontani dalle zone ad ampio traffico navale, poteva far accapponare la pelle a molti, ma se la manovra avesse avuto successo la flotta americana sarebbe stata un gigantesco bersaglio immobile alla mercié degli aerei giapponesi. Sarebbe errato però credere che Yamamoto contasse solo sulla combinazione effetto sorpresa –  numero di arei impiegati pensando a null’altro che lanciare ondate su ondate di velivoli; la preparazione a cui si sottoposero i piloti giapponesi fu estenuante e merita di essere approfondita proprio per mostrare l’accuratezza con cui l’intera operazione venne organizzata. Nulla venne lasciato al caso sfruttando la grande superiorità tecnologica dei velivoli unita alla preparazione dei piloti; nel 1941 infatti l’aviazione giapponese disponeva di alcuni dei migliori aerei militari al mondo: accanto all’eccezionale Zero, nome dato dagli alleati al caccia A6M2 probabilmente il miglior caccia monoposto della seconda guerra mondiale per manovrabilità e autonomia, c’era l’eccellente bombardiere KATE, in grado di compiere attacchi sia in picchiata che ad alta quota e che sarebbe entrato nella storia per la precisione micidiale dei suoi attacchi, e l’aereo-silurante/bombardiere ad alta quota VAL che, sebbene prossimo alla dismissione in favore di nuovi modelli, era comunque superiore tanto al Devastator americano che allo Swordfish britannico usato a Taranto. A un tale patrimonio tecnico venne affiancato, come detto, un’attenta opera di preparazione dei piloti sotto la supervisione di Genda, che fu il vero artefice della strategia d’attacco alla base americana. Genda fece in modo che i piloti si addestrassero nelle medesime condizioni che avrebbero incontrato durante l’attacco, così portò gli equipaggi dei bombardieri presso la città di Kagoshima, con una geografia e delle infrastrutture simile a quelle di Pearl Harbour, e fece in modo che facessero volare i loro aerei oltre i monti che attorniavano la città per poi lanciarsi in picchiata sull’abitato prima di sganciare a 7 metri d’altezza una “bomba” d’acqua su obiettivi prefissati. Le percentuali di colpi a segno iniziarono a lievitare vertiginosamente. Per gli aereo-siluranti la situazione era un po’ più complessa perché l’abilità apparentemente non poteva nulla contro la natura dei fondali di Pearl Harbour, troppo bassi e melmosi per potervi usare i siluri con risultati soddisfacenti. Invece di darsi per vinti i giapponesi tentarono in tutti i modi di ovviare al problema elaborando una manovra d’attacco che riusciva a far scendere i siluri al di sotto dei 20 m standard, ma comunque non sino ai 10 m. necessari per Pearl Harbour. Alla fine si riuscì a trovare l’uovo di Colombo attraverso una brillante trovata tecnica che consisteva nell’aggiungere ai siluri degli alettoni in legno che garantivano una discesa sino a 12 m. e un percorso dritto; grazie a questa trovata tecnica le percentuali di colpi  a segno su navi in movimento raggiunse ben presto il 70%, con punte anche più alte se le imbarcazioni erano ferme come probabilmente sarebbero state quelle della base americana. Ogni elemento del piano d’attacco fu preparato con precisione maniacale e, al contrario di quanto può apparire guardando i film dedicati all’attacco, i piloti non si lanciarono alla rinfusa ognuno sulla prima cosa che gli si presentò davanti. L’attacco sarebbe stato in tre ondate, come gli inglesi a Taranto, e ogni ondata era composta da tre gruppi d’aerei divisi a loro volta in unità d’attacco ognuna con un suo preciso obiettivo; ad esempio la 3° unità d’attacco del primo gruppo della prima ondata avrebbe dovuto colpire la Tennessee, la West Virginia e la Nevada mentre la 15° unità d’attacco del secondo gruppo prima ondata avrebbe dovuto colpire le infrastrutture portuali e l’aeroporto di Hickam Field. I giapponesi misero in campo un’attenta opera di spionaggio che gli permise di avere una conoscenza approfondita di Pearl Harbour e delle navi che vi stazionavano, conoscenza che misero ampiamente a frutto sia facendo in modo che i piloti imparassero a riconoscere rapidamente le singole corazzate americane che avrebbero dovuto colpire sia organizzando i tempi e i modi dell’attacco. Con grande intelligenza infatti Genda e Yamamoto decisero che il primo colpo non avrebbe dovuto essere vibrato alla flotta, ma alle basi aeree così da paralizzare subito l’aviazione nemica impedendole di alzarsi in volo per andare a proteggere la flotta.

Se proprio vogliamo trovare degli  errori da parte dei giapponesi ne possiamo indicare due. In primo luogo la decisione di non colpire i depositi di carburante di Pearl Harbour, la cui ubicazione era conosciuta, perché si temeva che il fumo scaturito dagli incendi avrebbe potuto rendere più difficile l’attacco alle navi; il motivo è valido anche se resta il fatto che la distruzione di quei depositi, oltre ai prevedibili danni dovuti alle esplosioni, avrebbe lasciato la base senza carburante per giorni.  Secondo errore, questo invece più grave, fu sicuramente la decisione dell’ammiraglio Nagumo di non lanciare la terza ondata d’attacco perché ritenne che i danni prodotti fossero già più che sufficienti e che ormai le difese americane fossero pronte a respingere un nuovo attacco determinando perdite pesanti ed inutili. Studi successivi hanno dimostrato invece non solo che le difese americane non sarebbero state in grado di opporre una valida resistenza a un terzo attacco, ma che questi, se diretto com’era stato previsto ancora alle infrastrutture portuali, avrebbe causato danni tali da rendere la base inoperativa per lungo tempo, sia rendendo più difficile il recupero delle navi danneggiate che riducendo le possibilità di una reazione bellica americana nel Pacifico nel medio-breve periodo.

Non sempre i freddi numeri delle perdite subite servono a rendere la misura di una vittoria o di una sconfitta, ma in questo caso mostrano in maniera impietosa le proporzioni del successo nipponico: tutte e otto le corazzate presenti a Pearl Harbour furono ripetutamente  colpite, tre furono affondate e due, l’Arizona e l’Oklahoma, perse definitivamente mentre altre 13 navi di vario tipo furono danneggiate; a ciò va aggiunta la perdita di 169 aerei (più 150 danneggiati in vario modo) e i danni di varia natura alle infrastrutture portuali e agli aeroporti. All’opposto i giapponesi lamentarono la perdita di 29 aerei più i sei sottomarini che si era tentato di far infiltrare nella base per produrre ulteriori danni.

Fino adesso abbiamo illustrato quelli che ho definito i meriti del Giappone, ma come ho detto gli americani ci misero del loro nell’aiutare il nemico a ottenere un così grande successo. Per iniziare dobbiamo fare una distinzione terminologia fondamentale: parlando di attacco a sorpresa non dobbiamo intenderlo come inaspettato; cioè fu a sorpresa nel momento in cui si svolse, ma non fu, o meglio non fu del tutto, inaspettato. Sarebbe definibile infatti come inaspettato se nulla nel Dicembre 1941 lasciasse presagire un tale deterioramento dei rapporti tra America e Giappone da poter portare a una guerra tra i due paesi, ma la realtà storica è ben diversa. I sentieri dei due paesi erano entrati in rotta di collisione sin dalla fine della Grande Guerra quando, approfittando della guerra civile russa, tanto il Giappone che gli Stati Uniti avevano inviato proprie truppe nella Siberia Orientale per garantirsi una zona d’influenza nell’estremo oriente nell’ipotesi di un collasso del gigante russo. Gli anni venti e trenta furono un crescendo di tensione con il Giappone, che si sentiva maltrattato dal mondo occidentale, e gli Stati Uniti, che faticavano a riconoscere il ruolo di grande potenza a uno stato asiatico abitato da un popolo ritenuto ancora inferiore rispetto alla razza bianca. La natura delle isole giapponesi, prive di risorse naturali fondamentali per una potenza industriale-militare, costringevano l’Impero del sol levante a guardare a una politica espansionista in Asia orientale e nel Pacifico, scontrandosi però così con gli Stati Uniti che da tempo avevano varato la loro politica dei due oceani, cioè di ritenere di interesse strategico per l’America tanto l’Atlantico quanto il Pacifico. Quando il Giappone diede inizio alla seconda guerra sino-giapponese l’amministrazione Roosevelt varò la politica del contenimento diretta a ostacolare in ogni modo l’espansionismo giapponese sia inviando aiuti materiali alla Cina, sia facendo approvare dal Congresso una restrizione ai commerci col Giappone. Nel 1940 il grosso della flotta americana venne stanziata alle Hawaii, punto di partenza perfetto per qualsiasi offensiva nel Pacifico direzione Giappone, e lì vi rimase anche quando nell’Atlantico la minaccia degli u-boot tedeschi toccò il suo apice; nello stesso anno il Roosevelt mise l’embargo sulla vendita di petrolio, acciaio e ferro al Giappone praticamente tutte risorse primarie per la conduzione dello sforzo bellico nipponico. Date queste premesse era ovvio che, a meno che il Giappone non rinunciasse alla sua politica espansionista, un confronto armato tra i due paesi fosse ben più che probabile. Già il 5 Febbraio 1941 il segretario alla guerra Knox inviò una lettera all’Ammiraglio Kimmel, capo della flotta nel pacifico, in cui affermava “Nell’eventualità di una guerra col Giappone… le ostilità…inizierebbero… con un attacco a sorpresa a Pearl Harbour” e il 15 dello stesso mese Kimmel parlò in un rapporto della possibilità di un attacco a sorpresa alla flotta a Pearl Harbour. Date queste premesse ci si aspetterebbe che gli americani avessero preso tutte le misure necessarie a evitare che un simile attacco potesse produrre danni di grave entità e invece, con la sicurezza tipica che nella storia precede i disastri, si agì con la certezza quasi matematica che questo attacco non sarebbe venuto dal cielo. Un attacco a sorpresa della flotta giapponese, magari anche con tentativo di invasione, sì e quindi l’artiglieria costiera doveva essere sempre in stato d’allerta. Azioni di sabotaggio su larga scala ancora più probabili quindi tenere gli aerei molto vicini gli uni agli altri così da poterli sempre controllare, mettere le munizioni ben al chiuso e chiudere le stazioni radio sempre alle 7:00. Un attacco dal cielo? No dopotutto lo stesso generale Marshall aveva affermato che le difese aeree delle Hawaii erano tali che i giapponesi mai avrebbero osato tanto. Eppure appena un anno prima c’era stata Taranto dove 20 vecchi swordfish aveva messo fuori combattimento tre corazzate italiane al sicuro nella loro base con una facilità disarmante… ma un dubbio legato alla prudenza sembrò non sorgere mai nella testa dei comandanti americani che così fecero delle scelte che dire improvvide è un eufemismo. Si decise di non stendere le reti para-siluri perché l’operazione richiedeva troppo tempo e si pensava comunque che il basso fondale fosse una difesa più che sufficiente, inoltre invece di disporre le navi in modo tale che in caso d’attacco potessero immediatamente fare manovra per sottrarsi al pericolo le si tennero tutte ancorate come sempre così che il 7 Dicembre ben cinque corazzate erano disposte una dietro l’altra su due file parallele, il bersaglio perfetto. La sicurezza dei comandanti americani rispetto a un’incursione aerea derivava dalle forte aviazione presente a difesa della base, unita con le batterie contraeree sia terresti che montante sulle navi. Queste difese però erano solo all’apparenza robuste perché l’aviazione avrebbe potuto svolgere un’efficacie opera di contrasto ad un attacco nemico solo se fosse riuscita a decollare prima che questo si scatenasse e invece i piloti americani si accorsero di ciò che stava succedendo solo quando gli aerei nemici iniziarono a bombardare e mitragliare gli aeroporti. La maggior parte dei velivoli statunitensi fu distrutta a terra, essendo stipati gli uni accanto agli altri bastava un singolo attacco andato a segno per colpirne molti, mentre chi riuscì a prendere il volo lo fece senza che vi fosse un piano, trovandosi a combattere spesso da solo contro le organizzate squadriglie giapponesi. L’affidamento poi che si faceva sulla contraerea era puramente teorico perché se c’era una cosa che la guerra in Europa aveva ormai ampiamente dimostrato era che queste armi non erano in grado di opporre una valida resistenza ai veloci aerei da combattimento. Unica misura preventiva che venne presa e che poi ebbe effetti decisivi sul corso della guerra nel Pacifico fu la decisione di una rotazione delle portaerei presenti alla base così che non ve ne fosse ancorata mai più di due. Grazie a questa decisione, unita a un incredibile colpo di fortuna, tra il 3 e il 5 Dicembre entrambe le portaerei presenti a Pearl Harbour, l’Enterprise e la Lexington, presero il mare sfuggendo così al destino del resto della flotta, in modo da potersi trovare pronte per l’appuntamento col destino alle Midway neanche un anno dopo.

Detto tutto ciò va però chiarito un punto fondamentale: l’attacco a Pearl Harbour non era militarmente evitabile. L’unico modo per farlo sarebbe stato infatti conoscere anticipatamente le intenzioni dei giapponesi e questo era pressoché impossibile data l’attenzione maniacale che venne data alla segretezza. Nemmeno l’ambasciatore Nomura era a conoscenza né dell’intenzione del suo paese di entrare in guerra con gli Stati Uniti né del piano d’attacco alle Hawaii il che rese inutile l’unico reale vantaggio a disposizione degli americani e cioè l’aver da tempo decodificato il codice criptato nipponico (codice Purple). L’unica cosa che i crittografi statunitensi poterono sapere in anticipo fu che il 7 Dicembre sarebbe giunta a Nomura un’importante comunicazione da portare a conoscenza del governo di Washington; pretendere che da questo si giungesse a supporre data, ora e luogo di un attacco era chiedere doti da profeta. Inoltre, come già detto, Yamamoto fu ben attento a ordinare il silenzio radio a tutta la sua flotta durante la navigazione che si sarebbe svolta in una zona molto lontana dalle rotte più trafficate. Si è spesso discusso del fatto che la mattina del sette un centro radar avesse rilevato l’avvicinarsi di un gran numero di aerei, ma i radaristi sapevano che uno stormo di bombardieri doveva giungere dal continente e ancora una volta prendere che queste persone immaginassero che quel segnale potesse essere invece un’imponente forza d’attacco è voler cercare a tutti i costi un capro espiatorio. Molto semplicemente l’attacco, a meno di un evento fortunoso a vantaggio degli americani, si sarebbe comunque verificato, ma come ho tentato di dimostrare sino ad ora ciò che invece si poteva evitare erano i terribili danni che ne derivarono. La convinzione quasi fideistica che dal cielo non sarebbe mai venuto niente di male impedì l’approntarsi anche delle più ovvie misure di prevenzione, come appunto le reti para-siluro, è questa è una colpa a mio parere gravissima perché offrì ai giapponesi, che già avevano fatto del loro meglio per dare vita a un piano devastante, la possibilità di massimizzare il risultato come forse neanche loro avevano sperato.

La grave sottovalutazione della minaccia rappresentata dai giapponesi, nonostante le ripetute indicazione di un pericolo attacco su Pearl Harbour, può essere spiegato da un insieme di eccesso di fiducia nell’inviolabilità del suolo americano, dopotutto era dal 1812 che una potenza straniera non portava un attacco diretto contro gli Stati Uniti, unito con il già citato razzismo che permaneva nei confronti dei popoli asiatici. Pensare che dei “musi gialli” potessero imbarcarsi in un operazione così rischiosa sfidando la superiorità tecnico-militare americana dovette contribuire a fare in modo che non tutti i segnali fossero presi in considerazione con il dovuto rispetto, anche perché  già nel 1941 Roosevelt aveva stabilita la linea dell’Europe First cioè di ritenere che la Germania fosse il nemico numero uno su cui concentrarsi

-Leggende della storia: la leggenda dell’inside job

All’inizio ero indeciso se aggiungere all’articolo questa appendice della mia rubrica “Leggende della storia”, ma poi mi sono ricordato che in occasione dell’ultimo anniversario dell’attacco, di cui si è molto parlato per la visita a Pearl Harbour del premier giapponese Shinzo Abe (che a mio parere giustamente non si è scusato perché non aveva niente di cui scusarsi) su Facebook  sono appari numerosi post e meme che denunciavano il presunto complotto che vi sarebbe stato dietro l’attacco. In particolare un meme mi è rimasto impresso in quanto affermava che gli americani avessero fatto tutto da soli perché nel 1941 i giapponesi non avevano aerei in grado di attaccare le Hawaii partendo dal Giappone, attraversando tutto l’Oceano Indiano poi il Sud dell’Atlantico per risalire infine la costa pacifica del sud America! Era talmente esagerato che ho sperato fosse una burla per prendere in giro i complottisti, ma, dato che negli anni ho visto anche di peggio, ho infine deciso fosse meglio fare un po’ di chiarezza sulla questione dell’inside job.

La prima volta che sentì questa teoria fu in un documentario su History Channel, che ancora non parlava solo di alieni nella preistoria e banchi dei pegni, e sebbene siano passati credo quasi dieci anni fondamentalmente l’asserzione è rimasta la stessa. Sostanzialmente l’amministrazione Roosevelt, al fine di coinvolgere gli Stati Uniti nel conflitto europeo, avrebbe provocato deliberatamente il Giappone, alleato della Germania, così da spingerlo a lanciare un attacco di cui si conoscevano tutti dettagli. Questa teoria gira in varie gradazioni sin dalla fine della guerra ed eminenti storici, cito solo Basil Liddel Hart, hanno provveduto a smontarla riconducendola allo shock subito dagli americani per la dimensione del disastro.

Da par mio ritengo siano tre gli argomenti che possono essere opposti a questa tesi cospiratoria:

-in primo luogo l’affermazione che l’amministrazione Roosevelt avesse provocato l’attacco del Giappone è mal posta. Sicuramente gli Stati Uniti tennero un atteggiamento estremamente provocatorio verso l’Impero del sol levante, arrivando sino all’embargo delle risorse belliche essenziali, ma ritenere che questa linea d’azione sia stata dovuta alla volontà di provocare un attacco per portare il paese in guerra avrebbe senso se essa avesse rappresentato un cambio di rotta nei rapporti americano-giapponesi, cosa non vera. Come ho già detto era dal 1919 che gli Stati Uniti guardavano al Giappone con diffidenza a causa delle mire espansionistiche nipponiche nel Pacifico. Dati i convergenti interessi delle due potenze in quell’Oceano uno scontro era nell’ordine naturale delle cose (a Tokyo se ne ragionava sin da dopo la guerra con la Russia nel 1905); l’unico modo che avrebbero avuto gli americani per evitarlo sarebbe stato accettare l’espansionismo giapponese il che però voleva dire rinunciare a tutte le posizioni nel Pacifico che rientravano in quella fascia di sicurezza (detta Grande sfera di coprosperità dell’Asia Orientale) che il Giappone intendeva creare.

-in secondo luogo l’argomentazione che Roosevelt fosse a conoscenza dell’attacco e che decise di non fare niente per evitarlo è assurda sul piano logico e priva di riscontri storici. I suoi sostenitori hanno scartabellato gli archivi della marina e dell’FBI alla ricerca di ogni singolo messaggio decodificato prima del 7 Dicembre, ma nulla di provante è stato mai trovato e tutti i documenti citati sono talmente generici nel loro contenuto che solo una mentalità a posteriori li può vedere come strumenti utili a predire le intenzioni giapponesi. Oltre a ciò credo sia assolutamente illogico ritenere che Roosevelt pensasse di far entrare gli Stati Uniti in guerra facendo mettere fuori combattimento l’intera flotta del Pacifico, regalando così quell’intero teatro alla libera azione del nemico. Va bene sottovalutare la minaccia, ma qui si tratta di un autentico suicidio e la controprova è data che alle Midwey gli americani dovettero giocarsi il tutto per tutto mettendo in campo, con un azzardo non da poco, il poco che era sfuggito alla furia del 7 Dicembre. Se davvero si voleva solo l’attacco per giustificare la guerra dinnanzi all’opinione pubblica si potevano escogitare cento modi per renderlo il meno dannoso possibile, così che non avesse un contraccolpo sulla conduzione del conflitto nell’immediato.

-infine l’argomento che ritengo più importante e che, guarda caso, i teorici della cospirazione “dimenticano” sempre: l’attacco a Pearl Harbour non era automaticamente causa di guerra con la Germania. Il Patto tripartito che legava la Germania, il Giappone e l’Italia era infatti un’alleanza difensiva che obbligava le parti alla reciproca assistenza solo se una di queste fosse stata aggredita; non a caso quando Hitler invase la Russia il Giappone rimase neutrale, anzi firmò pochi mesi dopo un Patto di non aggressione con Mosca che sarebbe rimasto in vigore fino all’Agosto 1945, quando i russi invasero la Manciuria. Nel caso di Pearl Harbour, essendo senza ombra di dubbio il Giappone l’aggressore, né Berlino né Roma erano obbligati a scendere in campo al fianco di Tokyo e in Germania alcuni gerarchi nazisti non era d’accordo con l’idea di entrare in guerra con gli Stati Uniti viste le difficoltà crescenti in  Russia. Furono Hitler e Mussolini a spingere perché i rispettivi paesi, quattro giorni dopo Pearl Harbour, rompessero gli indugi e si schierassero al fianco del Giappone il primo perché magari sperava che in cambio i nipponici avrebbero fatto lo stesso con l’URSS mentre il secondo perché convinto che tanto più il conflitto si sarebbe esteso tanto più probabile sarebbe stata una pace di compromesso che salvasse l’autonomia dell’Italia. Quando Roosevelt pronunciò il suo discorso dell’infamia non vi era dunque alcuna certezza che la Germania si sarebbe schierata al fianco del Giappone e se così non fosse avvenuto ben difficile sarebbe stato spiegare all’opinione pubblica statunitense, in cui vi era una forte comunità tedesca, una dichiarazione di guerra americana a Berlino che avrebbe dirottato lo sforzo bellico contro un paese sicuramente non simpatico, ma che non aveva compiuto nessun atto d’aggressione verso l’America.

Due considerazioni finale. Intanto è interessante notare come i primi accenni di queste teorie del complotto siano giunte da ufficiali della marina, il sospetto è che questi volessero diminuire la responsabilità di quell’arma nella più grave sconfitta in cui gli Stati Uniti erano mai incorsi. Infine, secondo me, queste teorie del complotto rientrano comunque in una logica di svilimento della vittoria giapponese. Di fatto neanche i dietrologi ammettono che la causa del disastro di Pearl Harbour fu, innanzitutto, l’abilità bellica del Giappone, ma degradano i nipponici a semplici burattini del machiavellico piano di Roosevelt. E’ come se gli americani facciano ancora fatica ad accettare che il Giappone sia riuscito a infliggere un colpo che andò così vicino dal poter essere mortale; sia la tesi dell’attacco a tradimento che quella del complotto finiscono comunque per affermare lo stesso principio: i giapponesi riuscirono nel loro intento solo o perché imbrogliarono o perché gli fu permesso di vincere.