La storia che voglio raccontarvi oggi potrebbe essere la trama perfetta per un thriller a metà strada tra il giallo deduttivo e una spy story alla John Le Carré. Considerato ancora oggi il più grande mistero della cronaca nera australiana, il caso dell’uomo di Somerton è un intricato groviglio di veleni misteriosi, codici indecifrabili e piste che vanno dalla delusione d’amore ai segreti della guerra fredda.
Somerton è un sobborgo di Adelaide nell’Australia Meridionale con una bella spiaggia che si affaccia sul mare; è qui che la sera del 30 Novembre 1948 una coppia, i signori Lyons, si stanno concedendo una passeggiata quando notano un uomo semidisteso sulla sabbia con la testa appoggiata all’argine, le gambe allungate e i piedi incrociati. L’uomo, ben vestito, non desta particolare attenzione, i Lyson lo notano sollevare un braccio e poi farlo subito ricadere come a peso morto, ma pensano che si tratti di un ubriaco talmente perso tra i fumi dell’alcool da non essere riuscito neanche ad accendersi una sigaretta. Mezz’ora dopo un’altra coppia nota lo stesso uomo nella medesima posizione, ma anche loro, se non per l’abbigliamento formale che sembra poco adatto a distendersi sulla sabbia, non vi fanno particolarmente caso ritenendolo a loro volta un ubriaco addormentatosi sulla spiaggia, sebbene si dissero scherzosamente, o almeno così credevano, che avrebbe potuto anche essere morto dato che non sembrava essere infastidito dai moscerini che gli giravano intorno.
Mattina del 1° Dicembre 1948, l’uomo è ancora lì immobile nella medesima posizione. Alla piccola folla che gli si fa intorno pare a prima vista dormire se non fosse per le mosche che gli ronzano insistentemente vicino alla testa e per il fatto che il corpo è completamente freddo; l’uomo infatti in realtà è morto. Il suo aspetto è di quanto più ordinario possibile; sarà descritto dai tratti britanni, di età intorno ai 40-45 anni, alto 1.80 con gli occhi nocciola e i capelli di un biondo rossiccio.
Alla polizia che giunge sul luogo il cadavere appare privo di qualsiasi segno di violenza, ha una sigaretta mezza fumata sul colletto come se gli fosse caduta di bocca rimanendo poi lì. Frugando nelle sue tasche vi trovano al loro interno un pettine d’alluminio, mezzo pacchetto di gomme da masticare marca Juicy Fruit, una scatola piena per un quarto di fiammiferi Bryant and May e un pacchetto di sigarette Army Club che però contiene al suo interno sette sigarette Kensitas, marca più costosa rispetto a quelle della scatola in cui sono inserite e ciò appare curioso perché in quegli anni di razionamento (siamo poco dopo la fine della seconda guerra mondiale) era più comune il contrario cioè inserire delle sigarette a buon mercato in una scatola di una marca più pregiata per darsi delle arie di maggior benessere economico. Non ci sono documenti, non c’è portafoglio né contanti di sorta, uniche due cose che sembrano poter essere d’aiuto alla sua identificazione sono due biglietti dei trasporti: uno usato per un autobus da Adelaide a St. Leonards a Glenelg (altro sobborgo della città australiana), e un altro non usato per il compartimento di seconda classe del treno sempre da Adelaide a Henley Beach.
Il cadavere dello sconosciuto viene portato al Royal Adelaide Hospital dove il Dr. John Barkley Bennett stimò l’ora della morte intorno alle due del mattino, ipotizzando un arresto cardiaco causato dall’assunzione di un veleno. L’esame autoptico infatti rivelò una milza tre volte più grande del normale, necrosi al centro dei lobuli epatici, emorragia gastrica acuta, vasta congestione del fegato, della milza e del cervello. L’esame tossicologico però non rilevò la presenza di alcun tipo di sostanza tossica nel corpo, lasciando il medico legale interdetto in quanto per lui l’avvelenamento rimaneva la causa più probabile di morte.
Con una decisione senza precedenti nella storia delle indagini criminali australiani, si decide di imbalsamarne il corpo al fine di preservarlo in vista di futuri ulteriori esami e per rendere possibile eventuali riconoscimenti; ed infatti a Giugno si decise di procedere ad un secondo esame autoptico. Ancora una volta si concluse che l’avvelenamento doveva essere considerata l’ipotesi principale, sebbene era impossibile indicare una causa certa di morte, e dall’Università di Adelaide giunse l’indicazione della digitale o della ouabaina quali sostanze che, anche se assunte in piccole dose al fine di renderle non individuabili dagli esami di laboratori, erano estremamente tossiche.
A rendere ancor più curiosa l’intera vicenda fu la scoperta che tutte le etichette degli abiti indossati dall’uomo, che avrebbero magari potuto contribuire ad accertarne l’identità risalendo ai negozi dov’erano stati comprati, erano state tagliate; altra cosa che venne notata fu che una tasca dei suoi pantaloni era stata rammendata con un particolare filo cerato arancione. Nel tentativo di ottenere aiuto dal pubblico nella identificazione dell’uomo, la polizia ne diffuse la foto sui giornali e nei successivi cinque anni le forze dell’ordine affermarono di aver ricevuto fino a 251 dichiarazioni di riconoscimento nessuna delle quali però, ad un’attenta verifica, si dimostrerà confermabile; anche le impronte digitali non danno riscontro né negli archivi australiani, né in quelli di Scotland Yard o dell’FBI. I patologi, basandosi sullo sviluppo muscolare affermano che l’uomo non appare aver svolto lavori manuali pesanti e che probabilmente era stato un ballerino o un fantino, dato il particolare tono della muscolatura degli arti inferiori.
La vicenda subisce una prima svolta il 14 Gennaio quando al deposito bagagli della stazione ferroviaria di Adelaide viene ritrova una valigia, anch’essa senza etichetta, che risultava essere stata depositata il 30 Novembre. All’interno della valigia una vestaglia rossa a quadri, un paio di pantofole rosse, pigiama, attrezzatura da barba, un cacciavite da elettricista, spazzola per stencil, un coltello da tavola che era stata ridotto per farne uno strumento affilato, matite e cancelleria varia e, soprattutto, un rocchetto di filo cerato arancione identico a quello usato per riparare i pantaloni dell’uomo di Somerton che appartiene alla marca Barbour non in commercio in Australia. Anche tutti gli indumenti all’interno della valigia sono privi di etichette, ma su alcuni di essi è stato scritto il nome T. Keane o Kean; la polizia però ha seri dubbi che questo possa essere il nome dell’uomo misterioso perché sembra strano lasciare un’indicazione così evidente dopo aver fatto tanto per nascondere la propria identità per cui si ipotizza che il nome Keane/Kean o sia un nome falso per depistare o sia il nome magari di un precedente proprietario dei vestiti che potrebbero essere di seconda mano. Controllando i registi ferroviari se accerta che l’uomo era giunto nella notte del 30 Novembre da una località tra Melbourne, Sidney o Port Augusta , aveva fatto una doccia e si era rasato nel vicino bagno cittadino per poi tornare in stazione dove, depositata la valigia, aveva comprato il biglietto per il treno delle 10:50 per Henley Beach, poi ritrovatogli addosso non utilizzato, finendo poi però per prendere l’autobus per Glenelg.
Fino a qui il tutto poteva essere classificato come un curioso caso di cronaca nera, ma non certo un mistero tale da restare negli annali della storia criminale australiana; ma la situazione cambia nell’Aprile del 1949 quando, esaminando di nuovo i pantaloni dell’uomo misterioso, viene trovata una tasca nascosta all’interno della quale vi è un pezzo di carta sul quale sono stampate le parole Taman Shud. Dipendenti della biblioteca pubblica di Adelaide riconoscono le parole come persiano e le riconducono al Rub’ayyat, una raccolta di poesie del matematico, astronomo e filosofo persiano dell’XI secolo Umar Khattam; per la precisione Taman Shud sono le parole finali dell’opera e significano “è finito” o “è concluso”. Ciò spinge la polizia a prendere in considerazione l’ipotesi del suicidio ritenendo il pezzetto di carta come un ultimo messaggio prima di togliersi la vita.
Il groviglio però si s ingarbuglia ancora di più a Luglio. La polizia, essendo il pezzo di carta chiaramente stato strappato da un libro, aveva cercato di rintracciarne la provenienza sempre nella speranza di poter giungere in questo modo all’identità del morto , quando all’improvviso si presenta un uomo, le cui generalità non saranno mai rivelate, il quale dichiara che, qualche settimana il ritrovamento del corpo, sul sedile posteriore della sua auto lasciata in un parcheggio di Jetty Road a Glenelg, aveva trovato una copia del Rub’ayyat in una rara prima edizione neozelandese del 1859. L’uomo, venuto a sapere dell’importanza del libro ai fini del caso dai giornali, decise di portarlo alla polizia anche perché da quella copia è stata strappata la frase finale Tamad Shud e, incredibile ma forse neanche troppo, ad un esame si scoprirà che il frammento di carta ritrovato sul morto di Somerton proviene proprio da lì . Se già ciò sembra assurdo, ancora più intrigante è il fatto che sul retro del libro vi sono cinque righe di annotazioni fatte a matita che paiono essere niente meno che un qualche tipo di messaggio in codice:
Ancora oggi queste scritte rappresentano un mistero. Se si tratta di un codice tutti i tentativi di decifrarlo, anche da parte di crittografi autorevoli, sono miseramente falliti e la sezione di crittografia del Dipartimento di difesa australiano ammise che il tutto poteva essere sia un codice a sostituzione complesso, quanto gli scarabocchi senza senso di una mente disturbata. Addirittura ci sono dubbi sulla lettura di alcune lettere come la prima della prima e della terza riga che per alcuni è una W per altri una M, nonché il senso da dare alla X al di sopra della O nella quarta riga.
Oltre a questo scritte sul retro del libro era annotato anche un numero di telefono al quale, una volta chiamato, rispose Jessica “Jestyn” Thomson, una ex infermiera ventisettenne che aveva fatto pratica in un ospedale di Sydney, ma che adesso vive a Moseley Streeta a Glenelg, circa 400m a nord del luogo dov’è stato ritrovato il cadavere. La polizia decise di non rivelare il nome della donna, che sarà reso pubblico solo nel 2013, riferendosi a lei solo con il suo soprannome appunto “Jestyn”. Alla signora Thomson venne mostrato un calco in gesso della parte superiore del torso dell’uomo e, stando ai testimoni presenti, reagì “completamente presa alla sprovvista, al punto da dare l’impressione di stare per svenire”; dichiarò che, pur non essendone sicura, gli sembrava di riconoscere in quei tratti Alfred Boxall, sottotenente dell’esercito australiano Sezione Trasporti Aquatici, al quale aveva appunto regalato nel 1945 una copia del Rub’ayyat.
Mistero risolto? Manco per niente perché Boxall non è morto, anzi si presenta alla polizia vivo e vegeto con anche ancora in possesso della sua copia del Rub’ayyat.
La presenza del codice misterioso unito all’apparente tentativo di nascondere la propria identità portò ad avanzare l’ipotesi che il morto potesse essere una spia, precisamente un agente dell’Unione Sovietica. Si fece infatti osservare che Adelaide era la capitale di Stato australiana più vicina a Woomera dov’era installata una base missilistica ed era presente una centrale dell’intelligence australiana. Inoltre la morte dell’uomo di Somerton venne messa in relazione con un altro decesso avvenuto tre mesi prima, il 16 Agosto 1948, cioè quello di Harry Dexter White funzionario del Dipartimento del tesoro statunitense morto per avvelenamento da digitale dopo essere stato accusato di essere un agente sovietico sulla base delle intercettazione del Progetto Venona. La teoria della spia riprese forza nel 2013 quando la figlia di Jessica Thomson, durante un’intervista televisiva, dichiarò che sua madre, prima di morire, le aveva rivelato che a suo tempo aveva mentito sull’identità dell’uomo di Somerton che era da lei ben conosciuto, così come era conosciuto a livelli istituzionali più altri di quelli della polizia australiana. Dichiarò anche che la madre effettivamente era stata una simpatizzante comunista, che conosceva anche il russo e che avrebbe potuto far parte, insieme all’uomo di Somerton, di un gruppo di spie al servizio dell’URSS.
Altri sostengono invece la pista del suicidio a seguito di una delusione d’amore. Ad esempio la moglie del figlio di Jessica, Robin, si è sempre dichiarata convinta che l’uomo di Somerton fosse il padre naturale del marito e chiede da tempo la riesumazione del cadavere per poter svolgere un esame del DNA. A contribuire a rendere non chiara la situazione è il fatto che all’epoca dei fatti Jessica si presentò alla polizia come Jessica Thomson sebbene Thomson fosse il nome del di lei marito, solo che nel 1949 non solo la donna non era ancora sposata, ma non si è mai neanche accertato con sicurezza se convivesse già col futuro sposo.
La vicenda dell’uomo di Somerton è davvero un gigantesco punto interrogativo. Chiunque vi si approcci si trova inevitabilmente a scontrarsi contro un muro di domande senza risposta, a partire dalla causa della morte, e di dubbi sul fatto che tutti coloro che abbiano in qualche modo preso parte alla vicenda siano stati onesti. Possibile infatti che il libro dal quale venne strappato il biglietto (nascosto poi apparentemente senza motivo) e sul quale era vergato quel misterioso codice sia apparso all’interno di un auto a caso? Perché la vittima ha apparentemente fatto di tutto per nascondere la sua identità? Qual è il verso ruolo di Jessica Thomson, infermiera simpatizzante comunista che parla russo e che porta dentro la storia un ufficiale dell’esercito australiano? Il caso è diventato talmente iconico nelle sue peculiarità che, quando nel 1970 a Isdal in Norvegia, verrà scoperto il corpo parzialmente carbonizzato di una donna anch’essa mai identificata, a causa di una serie di similitudini verrà immediatamente messo idealmente in correlazione con il mistero di Somerton.
Enza Coletta
22 Marzo 2021Molto coinvolgente,lascia l’amaro in bocca il rimanere senza soluzione certa