Il 13 Marzo 1912 Serbia e Bulgaria siglarono l’alleanza difensiva/offensiva che gettava le basi per la grande alleanza balcanica anti-turca. Ufficialmente l’accordo tra Belgrado e Sofia non sembrava diretto contro l’Impero Ottomano, bensì contro l’Austria infatti i due paesi balcanici si garantivano reciprocamente l’integrità territoriale e si impegnavano ad agire qualora una terza potenza (che non poteva che essere Vienna) avesse tentato di impossessarsi di una qualsiasi parte del dominio turco in Europa. A questo trattato “ufficiale” era però aggiunto un annesso segreto in cui invece Serbia e Bulgaria si impegnavano a consultarsi per decidere il momento opportuno per un’azione militare, previo consenso russo, e ci si accordava per la successiva metodologia di spartizione delle conquiste ottenute in danno dei turchi. Come già riferito nel precedente articolo questo trattato venne poi completato da un accordo greco-bulgaro, che da semplicemente difensivo divenne offensivo a Ottobre, e dall’adesione verbale del Montenegro; era nata la Lega balcanica. La diplomazia russa, in particolare il turbo panslavista l’ambasciatore russo a Belgrado Hartwig, si impegnò molto per favorire questo accordo che però, come osserva Albertini, non sarebbe comunque mai giunto a compimento se non vi fosse stata la guerra italo-turca che venne subito percepita dagli stati balcanici come un’irripetibile occasione per chiudere i conti con l’Impero ottomano. A Pitroburgo la poltrona di ministro degli esteri era adesso occupata da Sergej Sazonov la cui libertà d’azione era però limitata dal timore reverenziale che provava per il suo predecessore Iswolsky, retrocesso ad ambasciatore a Parigi, ma ancora in grado di orientare la politica estera russa grazie alla debolezza del suo protegé. Iswolsky non aveva dimenticato “l’offesa” fattagli da Berchtold con l’annessione della Bosnia ed era fermamente intenzionato a vendicarsi dell’Austria e quale miglior modo per farlo che realizzando il più grande timore di Vienna: l’affermarsi di una potente Serbia che facesse da polo d’attrazione per le componenti slave all’interno dell’Impero asburgico. Apparentemente Sazonov non si rese subito conto della portata esplosiva che l’alleanza serbo-bulgara poteva avere non solo sui Balcani, ma sull’intera Europa e infatti non si preoccupò di informare Parigi di quanto si stava tramando tra Belgrado e Sofia; ciò nonostante l’alleanza franco-russa prevedesse la concertazione in tutte quelle situazioni che potessero portare a un conflitto con la Triplice Alleanza. Non a caso quanto ad Aprile 1912 finalmente la Russia decise di mettere Parigi al corrente del trattato, ma non dell’annesso segreto, Poincaré ne fu alquanto contrariato perchè comprendeva chiaramente quale effetto a catena poteva nascere: se infatti l’Austria avesse ritenuto che una vittoria dell’alleanza balcanica fosse contraria ai suoi interessi c’era la concreta possibilità che entrasse in guerra al fianco della Turchia; in questo caso cosa avrebbe fatto la Russia? Se fosse infatti a sua volta scesa in campo al fianco degli stati balcanici era probabile che la Germania, sebbene non obbligata in base alla natura difensiva della Triplice, sarebbe a sua volta andata in soccorso di Vienna e a quel punto sarebbe stata Parigi a dover decidere il da farsi. Tecnicamente l’alleanza franco-russa, essendo formalmente difensiva, avrebbe dovuto evitare il rischio di essere trascinati all’interno di una guerra offensiva, ma tale e tanto era stato l’investimento della Francia su quell’accordo che, anche nell’ipotesi in cui fosse stata la Russia a muoversi per prima, Parigi non avrebbe potuto mai lasciare solo l’alleato pena il suicidio diplomatico. Ovviamente il medesimo ragionamento può essere fatto per la Triplice sostituendo l’Austria alla Russia e Berlino a Parigi. Il contegno francese comunque subì ben presto un’interessante, e soprattutto importante in vista degli eventi del 1914, modifica; ad Agosto infatti Poincaré si recò in visita a Pietroburgo e né fece troppe pressioni a Sazonov perchè trattenesse Serbia e Bulgaria né pose la questione del casus Foederis anzi diede a intendere che, se la Germania avesse dichiarato guerra alla Russia per proteggere Vienna, la Francia avrebbe tenuto fede a tutti i suoi impegni. Il peso di queste dichiarazioni erano immense perchè non solo legava i destini francesi agli avvenimenti balcanici, ma lasciavano intendere che, almeno Poicaré, ritenesse ormai giunto il momento in cui la Francia non dovesse temere la possibilità di un conflitto con la Germania. Insomma Parigi sembrava tendere a rinunciare a un ruolo di moderatore di Pietroburgo nell’ipotesi in cui i Balcani divenissero l’apripista di una conflagrazione europea. Non era l’esplicito “assegno in bianco” che il Reich firmò all’Austria nel 1914, ma ci andava molto vicino. Che una slavina si fosse ormai messa in moto è reso evidente dalle conversazione tenute da rappresentanti serbi e bulgari dopo la conclusione del trattato. C’era infatti la comune idea che bisognasse agire al più presto perchè qualora fosse salito al trono austriaco l’arciduca Francesco Ferdinando, fautore del trialismo, c’era il rischio che l’Austria-Ungheria riuscisse a riportare a sé i suoi elementi slavi spingendo nell’angolo la Serbia che avrebbe dovuto scegliere se farsi assorbire dall’impero asburgico o porsi sotto la sua ala; in entrambi i casi il risultato sarebbe stato un ritorno del progetto Salonicco di Andrassy e un primato asburgico sui Balcani. Probabilmente Sazonov, iniziando a intuire il meccanismo diabolico che si era attivato, contava su quella clausola che imponeva agli stati balcanici di astenersi dalla guerra in presenza di un veto russo, ma Serbia e Bulgaria usarono le medesime motivazioni che le spingevano all’azione per mettere sotto pressione l’Intesa: o questa garantiva loro mano libera e protezione oppure avrebbero dovuto rivedere la loro politica estera in senso filo-austriaco determinando così un rafforzamento della Triplice. Dall’altro lato della barricata Vienna si affannava per costringere Costantinopoli a fare quelle concessioni alle sue nazionalità interne (da che pulpito!) che disarmassero la Lega balcanica. In estate invece esplosero rivolte in Albania mentre i turchi, in risposta a una serie di attentati ad opera di nazionalisti bulgari, commisero una serie di eccidi nella Rumelia Orientale. Tutti questi eventi ovviamente facevano gioco alla narrazione della Lega balcanica per giustificare la sua azione di “liberazione” dei popoli oppressi dal giogo ottomano. Si giunse così a Settembre quando, a seguito dell’iniziativa del Montenegro, gli altri membri della Lega mobilitarono rendendo plateale all’Europa intera ciò che si stava preparando; Sazonov, terrorizzato sia all’idea di una sconfitta che minasse il prestigio russo che di una vittoria che potesse portare a una guerra europea, chiese alla Francia di farsi promotrice di un’azione europea per costringere la Turchia alle riforme e garantire lo status quo della penisola. Faticosamente si giunse a una formula di compromesso che accontentasse anche Austria e Inghilterra, grandi sponsor della Turchia e contrari a riforme che ne minassero l’integrità, ma prima che si potesse fare altro il Montenegro aprì le ostilità l’8 Ottobre 1912. Nove giorni dopo Serbia, Bulgaria e Grecia ruppero a loro volta le relazioni con la Turchia a seguito della mancata risposta data alle loro richieste di garanzie in merito al realizzarsi delle riforme domandate dal concerto europeo. La Lega balcanica era così riuscita a disarmare il tentativo delle grandi potenze di salvare ancora una volta il barcollante Impero Ottomano, ma paradossalmente nelle cancellerie europee c’era la convinzione che la cosa si sarebbe rigirata a suo svantaggio poiché l’opinione generale era che la Turchia avrebbe vinto facile. La previsione si rivelò terribilmente sbagliata perchè in pochi mesi i turchi furono in rotta su tutti i fronti e costretti in Rumelia Occidentale a ritirarsi sulla linea di Ciatalogia, l’ultima prima di Costnatinopoli. Quando infine il 31 Marzo 1913 la Sublime Porta chiese l’intercessione delle potenze europee per negoziare una pace, fatta eccezione che per Scutari, tutta la parte europea dell’Impero Ottomano era stata occupata dalla Lega balcanica. Prima di passare a vedere i negoziati di pace e di come questi portarono alla seconda guerra balcanica, è opportuno fermarci un attimo ad analizzare il comportamento tenuto durante il conflitto da Russia ed Austria perchè per certi versi anticiperanno e condizioneranno la condotta da loro tenuta nel Luglio 1914. Come detto Sazonov aveva cercato fino all’ultimo di trattenere la Lega, ma questo suo pacifismo non era condiviso in patria da molti elementi del governo, dell’esercito e del suo stesso ministero tutti completamente inebriati dalla retorica pan-slavista. In particolare il comandante in capo dell’esercito Suchomlinov, che sarà ancora in carica durante la crisi di Luglio, sin dal momento della mobilitazione della Lega pretese che la Russia assumesse un atteggiamento duro nei confronti dell’Austria per far comprendere alla monarchia asburgica che non si sarebbero accettate sue intromissioni nel conflitto balcanico. La prima mossa fu usare la scusa di una prova di mobilitazione per concentrare più di 200.000 al confine con la Galizia, ma a fine Novembre l’esercito si spinse fino a chiedere allo Zar di autorizzare la mobilitazione parziale dell’esercito contro l’Austria. Questa strana formula, che sarebbe tornata nel 1914, prevedeva di mobilitare solo quei distretti militari vicini alla frontiera austriaca (Kiev e Varsavia) nella teoria che evitando una mobilitazione completa non si sarebbe dato motivo alla Germania di sentirsi minacciata. Ovviamente, e gli eventi della crisi di Luglio l’avrebbero dimostrato, era una vana speranza credere che il Reich sarebbe rimasto spettatore a una mobilitazione ostile contro il suo principale alleato. Fortunatamente il primo ministro Kokovcov, appoggiato da un sempre titubante Sazonov, riuscì a mettere in luce la follia diplomatica nonchè l’illogicità militare della proposta che così venne fatta cadere. La tensione al confine galiziano rimase però alta anche perchè Sazonov, stretto tra il desiderio di raffreddare gli animi e il timore di sembrare debole in patria, offrì a Vienna una riduzione delle truppe solo però nel caso l’Austria avesse smobilitato per prima. Ovviamente l’impero asburgico rifiutò visto che anche al suo interno, seppur per motivi differenti, la conflagrazione balcanica aveva provocato una crisi di nervi ai piani più alti del governo. Nel primo dopo guerra si diffuse la voce che Vienna avrebbe voluto intervenire nella prima guerra balcanica, ma fu fermata da un veto tedesco; questa tesi, sostenuta da molti statisti austriaci dell’epoca, fu smentita da Luigi Albertini che, in due capitoli della sua monumentale opera, dimostrò documenti alla mano come questo veto fosse un’autentica leggenda (anche se ancora oggi vi sono degli storici che ne parlano). Il ministro degli esteri austriaco Berchtold comprese subito, come molti altri nella Duplice, i pericoli di una vittoria della Lega balcanica, ma la sua libertà d’azione era compromessa dai mille scontri intestini che si animavano nel copro dell’Impero tra la componente ungherese, i filo-trialisti vicini all’erede al trono, i militari e infine il vecchio Imperatore Francesco Giuseppe che cercava di accontentare un po’ tutti per mantenere la pace. In realtà Berlino era favorevole a un intervento austriaco che garantisse lo status quo balcanico, il problema era che sulla natura di questo intervento non c’era accordo all’interno della stessa Duplice perchè, e questo sarà il leitmotiv da qui fino allo scoppio della Grande Guerra, non c’era accordo tra chi voleva fagocitare la Serbia (o comunque ridurla a mero satellite di Vienna) e chi non voleva assolutamente altri slavi all’interno dell’Impero. La dimostrazione di come le convulsioni interne al governo dell’Impero fosse ormai paralizzanti per l’Impero stesso è data dal mancato esercizio dell’unica azione che avrebbe potuto rivolgere la situazione a favore dell’Austria: decidere per la rioccupazione del Sangiaccato. Vero è che Aehrenthal aveva rinunciato a questo diritto sancito dal Tratto di Berlino all’epoca dell’annessione bosniaca, ma è altrettanto vero che in un Europa che preferiva non vi fossero mutamenti nei Balcani nessuno, neanche la Russia, avrebbe protestato se Vienna, invece di scendere in campo a favore della Turchia, avesse inviato le sue truppe nel Sangiaccato per impedire un’unione tra Montenegro e Serbia. A quel punto la palla sarebbe passata alla Serbia che avrebbe dovuto decidere se accettare il fatto compiuto oppure fare la guerra anche all’Austria per il Sangiaccato entrambe ipotesi graditissime a Vienna perchè: nel primo caso si sarebbe sterilizzata la vittoria della Lega balcanica, nel secondo si sarebbe avuta la possibilità di regolare i conti con i serbi. Berchtold però un po’ credendo che sarebbe stato il concerto europeo a fermare la Lega, un po’ per evitare difficoltà interne, un po’ per timore delle possibili conseguenze internazionali e un po’ per non dover discutere di compensazioni con l’Italia decise di lasciar cadere l’ipotesi di una rioccupazione del Sangiaccato perdendo l’attimo fuggente. Di fronte però al collasso militare della Turchia, che di per sé escludeva un ritorno allo status quo, Berchtold ritenne che la posizione dell’Austria e il suo prestigio potesse essere garantita dall’impedire alla Serbia di guadagnare uno sbocco sul Mar Adriatico . Per far ciò si fece promotore in sede europea, dove già si stava discutendo di come risistemare i Balcani dopo la vittoria della Lega, dell’indipendenza dell’Albania trovando consensi in molte cancellerie, anche a Pietroburgo. Paradossalmente Albertini ritiene che l’Austria commise un incredibile errore perchè se avesse invece agito per soddisfare il desiderio serbo di un porto adriatico, magari condendo il tutto anche con allettanti offerte di natura economico-commerciale, si sarebbe potuto ridar vigore ai rapporti con Belgrado tenuto conto che, agli inizi del 1913, la Russia non aveva ancora deciso su chi scommettere nei Balcani tra Serbia e Bulgaria. Quando nel Dicembre 1912 si aprì la conferenza degli ambasciatori a Londra il rappresentante austriaco fu sorpreso nel constatare l’unanimità attorno alla proposta austrica di un’Albania indipendente, alla Serbia sarebbe stato garantito l’accesso a un porto albanese ad esclusivo uso commerciale. Apparentemente la stessa Serbia si era detta pronta a riconoscere l’indipendenza dell’Albania, ma in realtà giocò sin da subito sulla questione spinosa di quali dovessero essere i confini di questo nuovo stato. L’unico precedente storico era infatti l’Albania di Scanderbeg nel quattrocento e la generica affermazione che le aree etnicamente albanesi dovessero essere assegnate al nuovo stato era di difficile attuazione tenuto conto che nei Balcani, e la storia del novecento ha provveduto drammaticamente a dimostrarlo, zone etnicamente omogenee ve ne sono poche alla luce di secoli di commistione tra i popoli. A Marzo comunque la conferenza di Londra trovò l’accordo sui confini albanesi e sull’assegnazione alla Serbia del porto di Giacovo, ma la situazione parve tornare sul punto di precipitare a causa della città di Scutari. Questa era stata assegnata dalla conferenza degli ambasciatori all’Albania, ma era assediata dalle truppe serbo-montenegrine di re Nicola I del Montenegro che rifiutava sprezzantemente di ritirarsi. Berchtold decise stavolta di puntare i piedi ritenendo che il prestigio dell’Austria e il suo peso specifico nei Balcani dipendeva dal riuscire ad imporre un’Albania indipendente entro i confini concordati, stavolta Serbia e Montenegro avrebbero dovuto piegare la testa. Per un po’ si temette che l’Austria potesse sfruttare la vicenda di Scutari per intervenire militarmente nei Balcani, anche perchè da Berlino si invitava l’alleato a battere un colpo per dimostrare all’Europa che la monarchia asburgica era ancora una grande potenza. Tra il 22 e il 23 Aprile Scutari si arrese a Nicola I che fece innalzare la bandiera montenegrina sulla città in aperta sfida all’Austria e alla conferenza di Londra. Il porto albanese, come sarebbe avvenuto dopo la guerra in merito a Fiume, stava così assumendo un peso politico ed ideale molto più grande del suo peso strategico effettivo; mentre infatti l’opinione pubblica slava considerava Scutari il frutto della vittoria che mai si sarebbe dovuto cedere, per Berchtold nessuna nuova concessione si sarebbe dovuta fare agli stati balcanici già eccessivamente ebbri della loro vittoria. Il ministro degli esteri di Vienna fu esplicito: o il concerto europeo obbligava il Montenegro a rispettare ciò che si era deciso a Londra o ci avrebbe pensato l’Austria da sola. Stavolta non era una minaccia a vuoto perchè Berchtold era sostenuto sulla linea della fermezza tanto dall’Imperatore che dall’erede al trono, inoltre i militari non vedevano l’ora di avere l’occasione di poter imporre l’ordine asburgico nei Balcani. La situazione era davvero grave perchè, nonostante a Pietroburgo Sazonov ce la stesse mettendo tutta per costringere re Nicola a lasciare Scutari, l’opinione pubblica russa non avrebbe accettato che lo Zar restasse ad osservare nel caso in cui l’Austria si fosse mossa contro Montenegro e Serbia. Preoccupati di come si stavano mettendo le cose Italia, Francia e Regno Unito chiesero tempo a Vienna mentre tentavano di comprare la ritirata montenegrina con l’offerta di un prestito di 1.200.000 sterline. Fortunatamente per l’Europa Berchtold non perse la testa dichiarando che un intervento austriaco era prossimo, ma non imminente; allo stesso tempo Cettigne, dove probabilmente in un primo tempo si era creduto che l’Austria bleffasse, comprese il rischio che stava correndo e decise di prendere i soldi. A Vienna qualcuno avrebbe voluto comunque che si mandasse un ultimatum a re Nicola I in modo che questi dichiarasse pubblicamente la sua resa, ma Berchtold ritenne fosse meglio non tirare inutilmente la corda visto che l’Austria era comunque riuscita a imporre la sua posizione. Con un sospiro di sollievo generale la crisi fu così superata e il 14 Maggio 1913 un corpo di spedizione internazionale prendeva provvisoriamente possesso di Scutari a nome del futuro stato albanese; non ci fu però neanche il tempo di festeggiare lo scampato pericolo che improvvisamente la penisola balcanica riprese fuoco a causa dello sgretolamento della Lega sulle spoglie di guerra della Turchia. Venuto meno il comune nemico era infatti inevitabile che le tensioni e le rivalità tra gli stati balcanici, momentaneamente accantonate, tornassero prepotentemente al centro della scena. Fondamentalmente lo scontro per la spartizione dei frutti della vittoria vedeva Serbia e Grecia opposti alla Bulgaria, il cui re Ferdinando aveva ambizioni da grande potenza e aveva ritardato fino all’ultimo la pace con la Turchia nella speranza di poter sfondare le difese ottomane ed entrare a Costantinopoli da conquistatore. Nello specifico con la Serbia era in questione la Macedonia che nel trattato di alleanza si era deciso di dividere equamente, ma di cui adesso Belgrado, accampando la rinuncia che aveva dovuto fare all’Albania, pretendeva la fetta più grande; con la Grecia invece il contendere si chiamava Salonicco porto di grandissima importanza strategica ambito tanto da Atene che da Sofia. Comunque non bisogna lasciarsi ingannare perchè in senso più ampio in questione c’era il primato nella penisola balcanica, posizione ambita tanto dalla Serbia che dalla Bulgaria. Il problema era ampiamente conosciuto in Europa e preoccupava soprattutto la Russia che, fino a quel momento, aveva tenuto il piede il due scarpe tentando di non sbilanciarsi mai né a favore di Sofia né di Belgrado; una politica questa che però non poteva durare per sempre. Che poi nessuno degli alleati si fidasse completamente dell’altro è dimostrato dal fatto che nel trattato di alleanza serbo-bulgaro si era messo per iscritto che in caso di disaccordo in merito alla spartizione delle terre turche conquistate, eventualità evidentemente ritenuta già prima della guerra realistica, ci si sarebbe rimessi ad un arbitrato dello Zar. Questo arbitrato non ci sarebbe mai stato perchè la notte tra il 29 e il 3o Giugno, a un mese esatto dalla firma della pace di Londra, re Ferdinando ordinò alle sue truppe, senza consultare il governo, di attaccare a tradimento gli ex alleati serbi e greci. L’iniziativa bulgara riapriva improvvisamente, ma non inaspettatamente, la partita nella penisola Balcanica obbligando ancora una volta Austria e Russia a dover prendere posizione. A Pietroburgo Sazonov, di fronte ai primi scricchiolii della Lega, aveva messo in chiaro con tutte le parti che chi si fosse comportato da aggressore non avrebbe potuto contare sulla solidarietà russa. Fondamentalmente la Russia avrebbe preferito una sopravvivenza della Lega balcanica in modo da poter continuare a non scegliere tra Sofia e Belgrado, ma re Ferdinando era poco popolare presso la corte dello Zar sia perchè di dinastia tedesca (era un Sassonia-Coburgo-Gotha) sia perchè le sue mire su Costantinopoli cozzavano contro l’antica ambizione della Russia di essere lei a restaurare il dominio cristiano su Bisanzio. Durante la guerra con la Turchia Pietroburgo era andata in aiuto della Bulgaria facendo pressione sulla Romania, che aveva con Sofia una questione aperta per il possesso della Dobrugia, perchè restasse neutrale; ma l’aggressione proditoria del 29-30 Giugno spinse Sazonov a rompere gli indugi e a dichiarare l’appoggio russo alla Serbia che diventava così il referente principale di Pietroburgo nei Balcani. Allo stesso tempo Vienna vide nell’azione di re Ferdiando la possibilità di scongiurare all’ultimo momento il formarsi di una grande Serbia. Come detto Ferdinando di Bulgaria era di origini tedesche e a Sofia si erano sempre scontrati un partito filo-russo e uno filo-tedesco; ora c’era l’occasione di attrarre nell’orbita della Triplice un potente alleato nei Balcani che, tra l’altro, non avrebbe esercitato il ruolo di centro d’attrazione per le popolazione slave dell’Impero come invece faceva la Serbia. Per questi motivi Berchtold non solo tentò nuovamente di frenare la Romania dall’approfittare della situazione per colpire alla spalle Sofia, ma prese in seria considerazione la possibilità di un’alleanza austro-bulgara in funzione anti-serba. Berchtold era fermamente intenzionato ad evitare una sconfitta bulgara, perché ciò avrebbe fatto venir meno un importantissimo contrappeso alla nuova Serbia ingrandita, e allorché il capo di stato maggiore imperiale Conrad gli chiese se intendesse cercare con questa linea la guerra con la Russia, che da par suo sembrava non intenzionata a veder sconfitta Belgrado, rispose “Cercarla no, ma la lasceremo venire.”. Questa frase è fondamentale perchè segna il momento in cui l’Europa entrò nell’ordine di idee che avrebbe portato alla conflagrazione del 1914: Berchtold afferma che per la sopravvivenza della Duplice monarchia l’affrontare il problema serbo rende accettabile, anche se non desiderato, il rischio di una guerra con la Russia. Bisogna comprendere che Berchtold non aveva paura di un fantasma; una grande Serbia egemone avrebbe infatti voluto dire la fine di quasi ogni speranza di tenere i popoli sud-slavi all’interno dell’Impero esattamente com’era successo a metà dell’ottocento in Italia con l’emergere del Piemonte nel ruolo di leader degli stati della penisola. Berchtold stavolta però non potè contare sulla solidarietà di Berlino che invitava esplicitamente l’Austria a non fare colpi di testa e non assecondò la richiesta del ministro degli esteri di Vienna di intervenire presso la Romania, a quel tempo orbitante nei pressi della Triplice, perchè non cogliesse l’occasione di colpire alle spalle la Bulgaria. Frattanto l’andamento del conflitto tra gli ex-alleati della Lega aveva rapidamente prese la direzione meno auspicabile dall’Austria. Come detto re Ferdinando aveva ordinato l’attacco senza sentire il suo governo filo-russo che, per tutta risposta, il 1 Luglio all’insaputa del re ordinò alle truppe di fermare l’offensiva e chiese la pace; era però troppo tardi perchè l’iniziativa bulgara aveva dato l’occasione ai serbo-greci di ottenere tutto ciò che desideravano senza dover cedere niente. In pochi giorni i bulgari furono in rotta e la Romania, sentendo odore di sangue, passò anch’essa all’azione occupando la Dobrugia mentre anche i turchi riaprivano le ostilità di Sofia per recuperare un po’ del terreno perso. Di fronte al disastro completo Berchtold tentò di intercedere presso re Carlo di Romania perchè firmasse una pace separata con la Bulgaria, ma questi rifiutò e invitò anzi tutti i belligeranti a Bucarest per una conferenza di pace. Re Ferdinando, con i nemici a un passo dalla capitale, avrebbe voluto accettare, ma Berchtold, sperando ancora di evitare una disfatta diplomatica, lo trattenne cercando disperatamente qualcuno che lo appoggiasse. Incredibilmente l’appiglio lo trovò in Sazonov che non voleva un annientamento completo della Bulgaria nè un’eccessiva espansione della Grecia nell’Egeo; si venne così a creare un’asse austro-russo dal quale nacque una proposta ai belligeranti per una sistemazione definitiva dei confini dei Balcani . Questa proposta, in particolare l’assegnazione del porto di Cavala alla Bulgaria anziché alla Grecia, venne però duramente osteggiata sia dalla Francia che, soprattutto, dalla Germania che non voleva in nessun modo rovinare le ottime relazione instaurate dalla Triplice con Romania e Grecia per fare un favore ai bulgari considerati infidi e null’altro che una propaggine della Russia. Probabilmente mai come nel Luglio 1913 Vienna e Berlino furono così lontane con Berchtold che supplicava il Reich di comprendere la situazione disperata in cui si trovava la Duplice monarchia e la Wilhelmstrasse (sede del ministero degli esteri tedesco) che invece rifiutava di appoggiare la politica balcanica austrica, preferendo invece assecondare le ambizioni di rumeni e greci al fine di attrarli vieppiù nell’orbita della Triplice. Sconsolato il ministro austrico si ritirò sulla ultima trincea della vaga affermazione fatta dalla Gran Bretagna che ogni decisione sui confini presa a Bucarest sarebbe potuta essere oggetto di rettifiche ad opera della conferenza degli ambasciatori a Londra. Contando anche loro su questo miraggio i bulgari firmarono il 10 Agosto la pace di Bucarest con la quale cedevano alla Romania la Dobrugia e perdevano la Macedonia a favore di Serbia e Grecia; Atene otteneva poi anche sia Cavala che Salonicco acquisendo così una posizione predominante nell’Egeo in forza anche dell’annessione di Creta in danno alla Turchia. In realtà la speranza bulgaro-austriaca nasceva morta perchè Francia, Germania e Italia si dichiararono sin da subito contrarie a ogni revisione di quanto si era deciso tra i belligeranti stessi e la Russia rinunciò ad insistere su questo punto. Per Vienna era la completa disfatta diplomatica non solo perché adesso al suo confine sud c’era una Serbia ingrandita e trionfante, ma anche perchè Berlino non aveva assecondato Berchtold nel suo progetto di creare un’alleanza con Bulgaria e Romania che facesse da contraltare al nuovo dinamismo di Belgrado. L’unico risultato che Vienna sembrava così in grado di portare a casa era rappresentato dall’Albania indipendente, ma anche su questo fronte in problemi non era ancora conclusi. Come si è detto disegnare i confini di questo nuovo stato non era stato facile e in molti casi si era dovuto andare a decidere città per città; almeno però per quanto riguardava quello settentrionale esso era stato chiaramente deciso dalla conferenza degli ambasciatori a Londra. Nonostante ciò la Serbia continuava a tenere truppe in zone assegnate con l’Albania nella speranza di costringere le grandi potenze di accettare il fatto compiuto di un confine più favorevole per Belgrado; il 20 Settembre scoppiava poi una rivolta delle popolazioni albanesi contro il duro regime di occupazione dei serbi. Belgrado soppresso con ferocia l’insurrezione e approfittò dell’occasione per invadere l’Albania con la scusa di togliere la volontà agli albanesi di riprovarci una seconda volta. Quando il rappresentante serbo a Londra dichiarò che le grandi potenze avrebbero dovuto rivedere la frontiera serbo-albanese portandola sul Drin Berchtold andò su tutte le furie. Il ministro degli esteri austriaco era convinto che la vittoria nelle due guerre balcaniche avesse dato alla testa a Belgrado che adesso si sentiva libera di sfidare impunemente l’Austria: non solo per mesi ogni volta che si chiedeva ai serbi di lasciare l’Albania questi si limitavano solo a indietreggiare di qualche km, ma adesso sembravano anche intenzionati a prendersi con la forza quel pezzo di costa adriatica che la conferenza gli aveva negato. Nessuna ulteriore concessione alla Serbia fu dunque la la linea d’azione assunta da Berchtold e stavolta non si sarebbe aspettato il concerto europeo; ma anche se pubblicamente faceva la faccia feroce, in privato il ministro degli esteri era come sempre titubante sull’atteggiamento da assumere. Va detto che a Vienna, per una volta, c’era una comunanza d’opinioni che la Serbia andasse regolata possibilmente attraverso un conflitto; certo poi c’erano le solite divisioni sul come con i militari guidati da Conrad che volevano sic e simpliciter l’annessione di Belgrado, gli austriaci che volevano trasformarla in un satellite degli Asburgo e infine gli ungheresi, guidati adesso dall’energico primo ministro Tisza, che intendevano solo umiliare il riottoso vicino non volendo sentir parlare di un ulteriore aumento della popolazione slava dell’impero. A far decidere Berchtold per la linea della fermezza fu comunque Francesco Giuseppe che, a sorpresa, si dichiarò favorevole a una linea d’azione decisa; forte di questo imprimatur il ministro degli esteri inviò un duro messaggio a Belgrado in cui si ingiungeva ai serbi di ritirarsi dall’Albania informandoli che l’Austria era pronta a garantire con ogni mezzo il rispetto delle decisioni prese dalla conferenza di Londra. Probabilmente tradito dalla hybris, ma probabilmente temendo anche l’ira delle potenti società segrete nazionaliste serbe, l’astuto primo ministro serbo Pasic non rifiutò di ritirare le truppe dall’Albania, ma inviò anche note in tutte le cancellerie europee con la quale si auspicava una revisione del confine a vantaggio di Belgrado. Di fronte a questa risposta, e con la Russia che tergiversava nel ricondurre i serbi alla ragione, Berchtold non ebbe altra scelta che dar seguito alle sue minacce inviando la notte del 18 ottobre 1913 un ultimatum alla Serbia ingiungendo un ritiro entro otto giorni, trascorsi i quali l’Austria “si vedrebbe… nella necessità di ricorrere ai mezzi adatti ad assicurare il compimento della sua richiesta. L’ultimatum partì quando già l’Europa si stava orientando per rimettere in riga la Serbia e molte potenze rimasero seccate da come Vienna avesse precipitato la situazione senza darne preventivo preavviso, Grey da Londra parlò di ultimatum all’Europa. A risentirsi in particolar modo, o a fingere di esserlo, fu l’Italia che ricevette comunicazione dell’ultimatum solo quando questo era già stato presentato; giustamente Roma affermò che, in qualità di alleato di Vienna, si sarebbe aspettata di essere informata in anticipo di un passo di tale gravità che avrebbe potuto portare a una guerra europea. Va detto che il nostro paese commise un’ingenuità con questa dichiarazione perchè, contrariamente a quanto avrebbe fatto nel 1914, non mise in luce con gli alleati che un’iniziativa unilaterale austrica di questo tipo non avrebbe mai configurato il sorgere del casus foederis. Difficile dire se fu un semplice errore o il tipico atteggiamento sornione con cui l’Italia agiva all’interno della Triplice; comunque nel Luglio ’14, quando la situazione si sarebbe ripetuta praticamente nei medesimi termini, l’atteggiamento di Roma sarebbe stato sin da subito ben diverso. Piena solidarietà a Vienna giunse invece da Berlino dove il governo, dopo un’incertezza iniziale durante la quale si era parlato di mero “appoggio morale”, si allineò con il Kaiser il quale, non amando la Serbia, dichiarò “Si deve una buona volta stabilire ordine e pace laggiù!”. Come detto non è chiaro se la risposta di Pasic sia stata dovuta a un eccesso di sicurezza, tesi di Christopher Clark e Margaret MacMillan, oppure, come ha suggerito Albertini, dal timore di entrare in contrasto con la potente Narodna Odbrana e il suo braccio armato Mano Nera; comunque l’ultimatum di Vienna e l’assenza di ogni solidarietà internazionale tolse a Belgrado ogni velleità di resistenza. Il 20 Ottobre, sei giorni prima della scadenza dell’ultimatum, il governo serbo comunicò alle grandi potenze di aver iniziato il ritiro delle proprie truppe dietro la linea di confine serbo-albanese che la conferenza di Londra aveva stabilito. Vienna era riuscita ad imporsi, ma c’era poco di cui andare felice; la vicenda delle guerre balcaniche si chiudeva infatti con il segno nettamente negativo per la Duplice monarchia e anche la sua decisione finale di reagire alla provocazione serba con un ultimatum era dovuta, più che all’evento in sé, alla sensazione che un ulteriore cedimento avrebbe significato il definitivo affossamento del prestigio dell’Impero. In tal senso non c’è da stupirsi che in Austria alcuni elementi, ad esempio Conrad, si rammaricassero che la Serbia non avesse respinto l’ultimatum; l’opinione pericolosa che si andava affermando nei vertici della monarchia asburgica era che un conflitto con la Serbia fosse ormai inevitabile e quindi tanto valeva rimuovere il bubbone appena possibile indipendentemente dall’eventualità che ciò potesse portare a una guerra con la Russia.
Di fatto le due guerre balcaniche segnano l’inizio del contro alla rovescia per la conflagrazione finale del 1914. La pace di Bucarest creava infatti una situazione che rendeva inevitabile nuovi violenti scossoni nella penisola perché gli slavi era eccessivamente inebriati dal successo serbo, mentre l’Austria sentiva che si era ormai all’ultima chiamata per la sopravvivenza del suo grande impero multinazionale. Berlino e Parigi, che in teoria avrebbero dovuto agire per evitare che le vicende orientali incendiassero l’intera Europa, avevano invece accettato e benedetto una balcanizzazione delle rispettive alleanze, legando di fatto i loro destini alle vicende della rivalità austro-serbo(russo). Più grave ancora in tutte le capitali europee si andava diffondendo l’idea che un conflitto, sebbene non augurabile, fosse comunque accettabile perché entrambe le coalizioni ritenevano di trovarsi nella condizione migliore per affrontarlo rispetto all’avversario. Tutti gli attori che occuperanno la scena della crisi di Luglio sono già in capo e hanno già quella forma mentis, prodotto di timori, rancori e convinzioni, che renderà possibile il precipitare della situazione in un conflitto mondiale.
Prima di concludere questo articolo e rimandarvi al prossimo e penultimo di questa serie, in cui vedremo l’attentato a Sarajevo e l’inizio della crisi di Luglio, conviene riferire brevemente due ulteriori eventi che si verificarono prima della fine del 1913 e che contribuirono a riscaldare ulteriormente la temperatura europea. Sto parlando della ferma triennale in Francia e del caso Liman Von Sanders.
In Francia Raymond Poincaré era passato da capo del governo a Presidente della Repubblica nel Febbraio 1913. L’azione era stata voluta dai suoi avversari per ridurne il potere, il Presidente nella Terza Repubblica era una figura meramente istituzionale, ma invece Poincaré, sfruttando il suo prestigio e il grande vento nazionalista che in quel momento spirava nel paese, riuscì a trasformare la Presidenza in un formidabile centro di controllo e indirizzo della vita politica francese. Non appena assunta la carica infatti il neopresidente inviò un messaggio alle camere in cui invitava il Parlamento a prendere tutte le misure per garantire la forza militare del paese. Il governo si affrettò a far votare un credito di 500 milioni per le spese militari e tra Luglio-Agosto, dopo un serratissimo dibattito sia dentro che fuori il parlamento, riuscì a far approvare la ferma triennale. Il dibattito su questa legge, insieme al processo a madame Caillaux di cui ho accennato nel precedente articolo, avrebbe infiammato la Francia fino allo scoppio della guerra mondiale.
La vicenda Liman Von Sanders esplose invece negli ultimi mesi del 1913. A Costantinopoli il governo dei Giovani Turchi, dopo la doppia mazzata della guerra con l’Italia e la Lega balcanica, decise per una riorganizzazione dell’esercito scegliendo per questo compito il cinquantenne generale tedesco Otto Liman Von Sanders. Sia l’ambasciatore tedesco che il Kaiser accettarono subito la proposta in quanto era ovvio che l’indiretto controllo sull’esercito metteva Berlino in una posizione di vantaggio nella ricerca dei favori Turchi nell’eventualità di una guerra europea. La Russia guardò immediatamente con molta apprensione alla vicenda, per poi divenire esplicitamente ostile non appena vennero resi pubblici i termini dell’incarico di Von Sanders. Questi, accompagnato da quarantadue ufficiali anche loro tedeschi, avrebbe non solo dovuto istruire l’esercito turco, ma anche sovraintendere alla nomina degli ufficiali superiori e assumere il comando del I corpo d’armata di stanza a Costantinopoli. In particolare era quest’ultimo punto a preoccupare Sazonov il quale riteneva che in questo modo la Germania avrebbe assunto il controllo degli Stretti, minando così la posizione russa nel Mar Nero. Già fa tempo il Reich guardava con interesse ad Oriente e non a caso aveva finanziato generosamente la strategica linea ferroviaria Berlino-Baghdad. Sazonov fece subito presente a Berlino essere inaccettabile che Von Sanders fosse al comando militare di Costantinopoli trovando la solidarietà degli alleati dell’Intesa, tutti egualmente preoccupati all’idea di un primato tedesco sugli Stretti. Berlino era disposta ad andare incontro alle richieste russe, ma non così il governo turco che rivendicava la sua autonomia nelle scelte di politica interna. In Russia la questione era molto sentita e dagli ambienti più sciovinisti di governo ed esercito si parlò esplicitamente di fare la guerra pur di impedire che Von Sanders assumesse il comando del I corpo d’armata. La situazione poteva diventare davvero pericolosa perché se Berlino si era detta pronta a cercare un accomodamento, e stava lavorando alacremente a Costantinopoli per trovare una soluzione che salvasse il prestigio di tutti, non era altresì disposta a farsi mettere i piedi in testa e far dettare la linea da Pietroburgo. Ancora una volta la Francia, e questo era un triste presagio, invece di agire come moderatore della Russia si limitò a dire che sarebbe andata “tanto lontano quanto vorrà la Russia”; più prudente invece il Regno Unito che si trovava nell’imbarazzante situazione di avere a Costantinopoli un Ammiraglio che svolgeva per la flotta turca i medesimi incarichi di Von Sanders. Il 13 Gennaio 1914 si tenne a Pietroburgo una drammatica riunione di governo dove i militari, dopo aver ripetuto che era militarmente inaccettabile avere i tedeschi a Costantinopoli, dichiararono che il paese era pronto alla guerra sia contro la sola Germania, che contro la Triplice al completo per cui bisognava chiedere a Berlino che rinunciasse integralmente alla missione di Liman Von Sanders. Fortunatamente il Primo ministro Kokovtzof calmò i bollenti spirti affermando che invece di precipitare la situazione mettendo il Reich con le spalle al muro, era invece opportuno attendere e vedere i risultati dell’azione tedesca presso il governo turco. Le cose infatti si risolsero pacificamente perché il 15 Gennaio 1914 il governo tedesco, andando contro opinione pubblica e stampa che invocavano fermezza, trovò la quadratura del cerchio semplicemente promuovendo Liman Von Sanders; in tal modo, sulla base del contratto con la Turchia, egli assumeva il grado di Feldmaresciallo dell’esercito turco sollevandolo dal compito di comandare il I corpo d’armata. Nonostante ancora una volta il vecchio continente avesse schivato il proiettile, la vicenda Von Sanders produsse due risultati di grande importanza in prospettiva della successiva crisi di Luglio e dei primi mesi della Grande Guerra. Intanto mise ulteriormente sotto pressione i rapporti già non idilliaci tra Russia e Germania, proprio in un momento in cui per l’Europa sarebbe stato utile che i due Imperi andassero verso una distensione delle relazioni; soprattutto però spinse il governo russo a convocare una seconda conferenza generale a Febbraio per verificare un’eventuale azione d’emergenza per assumere il controllo degli Stretti. Da questa riunione emerse che il paese, al contrario di ciò che avevano affermato i militari a Febbraio, era tutt’altro che pronto ad affrontare una guerra nell’immediato futuro e che anzi servivano una serie di provvedimenti d’urgenza, soprattutto in materia di mobilitazione. Nonostante ciò di lì a cinque mesi lo Zar avrebbe autorizzato una riedizione della cervellotica, nonché militarmente folle, formula della mobilitazione parziale contro l’Austria già proposta nel 1912 agli inizi della prima guerra balcanica.
Bibliografia:
- Luigi Albertini, Le origini della Grande Guerra Vol. 1
- Christopher Clark, I sonnambuli – Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra
- Margaret MacMillan, 1914 – Come la luce di spense sul mondo di ieri
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