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Le origini della Grande Guerra – Parte VIII: dall’ultimatum alla Serbia alla mobilitazione generale della Russia

“Accettare la collaborazione di organi dell’Imperiale e Regio governo per la repressione del movimento sovversivo diretto contro l’integrità territoriale della monarchia” e “aprire un’inchiesta contro i complici del complotto del 28 Giugno che si trovavano nel territorio serbo; degli organi, delegati dall’Imperiale e Reale governo, prenderanno parte alle relative ricerche.” eccoli i famigerati punti 5 e 6 dell’ultimatum austriaco che la storia vuole essere stati la causa dello scoppio della guerra europea. Con questi di fatto l’Austria-Ungheria pretendeva che la Serbia accettasse che organi e delegati ufficiali di Vienna agissero all’interno del suo territorio con pieni poteri d’autorità di polizia e di magistratura; insomma ne più ne meno che un’abdicazione da parte serba alla sua sovranità nazionale in favore del vicino. Va detto che in realtà l’intero ultimatum era di una durezza inusitata e la generale gravità della pretesa fu immediatamente chiara a tutto il continente tanto che, nelle cancellerie dell’Intesa, si parlò sin da subito di documento estremamente presuntuoso ed irricevibile. Si deve a questo punto risolvere un problema prima di andare ulteriormente avanti nella narrazione della crisi di Luglio; si tratta di una delle questioni storiche più controverse e che ancora oggi non ha trovato una lettura unitaria o sufficientemente condivisa: volle l’Austria inviare un ultimatum che fosse appunto irricevibile allo scopo di non lasciare altra strada alla Serbia che la guerra? L’Intesa sostenne sempre di sì e da questo, insieme con l’assegno in bianco tedesco, si è basato l’assunto di una responsabilità totale degli imperi centrali nello scoppio del conflitto; una parte della storiografia però, non solo tedesca, ma anche anglosassone, dopo la guerra iniziò ad affermare che l’ultimatum austriaco era accettabile. Il problema è che studiando accuratamente i documenti sembra che neanche il governo austriaco avesse, nelle fasi della elaborazione dell’ultimatum, le idee chiare. Come abbiamo visto nel precedente articolo l’ultimatum nacque soprattutto per ottenere il supporto del premier ungherese Tisza alla guerra, ma che ab origine Berchtold lo volle redatto in modo tale che la Serbia non avrebbe mia potuto accettarlo. Tra il 10 e il 16 Luglio il ministro degli esteri iniziò a contemplare l’ipotesi che la Serbia potesse anche sottomettersi è passò gradualmente da considerare questa come una iattura a vederne invece i possibili pro a fronte del rischio dell’esplosione di un conflitto europeo. La tesi più probabile, sostenuta anche da Albertini e nel mio piccolo condivisa, è che Berchtold non cambiò idea sull’invio di quel durissimo ultimatum per avere la certezza di conseguire gli unici due risultati da lui ritenuti accettabili: o la guerra per la riduzione della Serbia oppure una completa sottomissione di Belgrado che ne annullasse il prestigio e diminuisse drasticamente l’ascendente russo nei Balcani. Ciò che decisamente il ministro di Vienna non voleva era un mero successo diplomatico come quello dell’anno precedente buono solo a salvare le apparenze, ma non in grado di risolvere alla radice il problema dell’attivismo anti-austriaco della Serbia. Un tale esito infatti era stato definito dannosissimo non solo dallo stesso governo della monarchia e dai vertici dell’esercito, ma anche da Berlino dove si attendeva che l’alleato battesse un colpo per ricordare al resto del continente che era ancora una grande potenza. Mentre l’ultimatum giungeva a conoscenza del governo serbo veniva contemporaneamente diffuso in tutte le cancellerie d’Europa: a Berlino si fece gli gnorri fingendo di non essere stati preventivamente messi a conoscenza delle intenzioni dell’alleato e si domandò la “localizzazione del conflitto” mentre a Roma (o meglio a Fiuggi perché lì si trovava il ministro San Giuliano) se ne comprese subito la gravità, ma, come detto nel precedente capitolo, invece di limitarsi a far subito osservare che, in quella situazione, il casus foederis della Triplice non ricorreva si tenne sin da subito un atteggiamento più sfuggente lasciando intendere che l’orientamento italiano era condizionato da possibili do ut des. A Parigi non ci si rese subito conto del possibile pericolo perché al Quai d’Orsay mancava chi potesse assumere una linea precisa: infatti l’ultimatum era stato volutamente spedito nel momento in cui il Primo Ministro nonché Ministro degli esteri Viviani e il Presidente Poincaré si trovavano in viaggio nel Baltico, direzione i paesi scandinavi, dopo aver fatto visita allo Zar a San Pietroburgo. A gestire la risposta francese fu così il ministro della giustizia Bienvenu-Martin, facente funzioni in assenza del collega, che però un po’ non venne informato adeguatamente dal personale diplomatico, che decise di gestire la cosa alle sue spalle, e un po’ non intese subito la gravità del documento austriaco; infatti Bienvenu-Martin si espresse in favore dell’Austria affermando che la Serbia avrebbe dovuto accettare tutte le richieste. Allo stesso tempo i funzionari del Quai d’Orsay, che ricevevano i rapporti degli ambasciatori a Pietroburgo e Berlino, iniziavano a leggere l’atto austriaco come un’azione coordinata di Vienna e Berlino contro l’Intesa in quanto compiuto mentre Londra era impegnata nella questione irlandese, Pietroburgo bloccata da degli scioperi e Parigi senza le sue massime autorità statali in sede. Così, di loro iniziativa, i diplomatici cominciarono ad allinearsi ai russi e a consigliari i serbi di dare una risposta condizionata all’ultimatum, linea che Viviani, una volta sbarcato a Stoccolma, approvò in pieno. Dove però l’ultimatum fece più rumore, eccezion fatta ovviamente la Serbia, fu Pietroburgo. Qui abbiamo già visto che  Sazonov aveva messo in guardia l’Austria dal non compiere il passo più lungo della gamba perché la Russia non sarebbe rimasta inerte di fronte a un tentativo di usare i fatti di Sarajevo per umiliare la Serbia; l’arrivo dell’ultimatum irrigidì molto la posizione del ministro degli esteri che iniziò a parlare senza mezzi termini del rischio concreto di una guerra tra Austria e Russia. Già dal 18 Luglio Sazonov aveva deciso che in caso di ultimatum austriaco alla Serbia lui avrebbe chiesto allo Zar di autorizzare una mobilitazione parziale dell’esercito contro l’Austria e così si decise a fare quando, la sera del 24 Luglio, convocò il consiglio dei ministri. Quella della mobilitazione parziale contro la sola Austria era una follia assoluta sia su un piano logico che militare; l’idea del ministro russo era che in questo modo non si sarebbe provocata una reazione della Germania, ma era completamente illogico credere che Berlino sarebbe rimasta a guardare una mobilitazione contro il suo principale alleato. Inoltre lo stato maggiore non aveva piani per una mobilitazione parziale, ma solo totale e chiunque sa di cose militare può confermare che un piano di mobilitazione non può essere improvvisato in un paio di ore. L’idea di Sazonov rischiava quindi di mandare in tilt l’intero apparato bellico russo che era progettato per far mobilitare contemporaneamente tutti i distretti militari e non solo quattro (Kiev, Odessa, Mosca e Kazan) come chiedeva il ministro degli esteri; inoltre con questa manovra si sarebbero ottenuti 1.100.000 uomini cioè 13 corpi d’armata quando i piani di guerra contro l’Austria ne prevedevano quindici. Perché il capo di stato maggiore Januschkevic non mise subito in chiaro ciò? Forse sia perché era fresco di nomina e non conosceva il piano di mobilitazione nei suoi particolari, sia perché temeva che una risposta del genere raffreddasse i bollori di Sazonov mentre gli ambienti dell’esercito erano tutti schierati per la guerra. Così il la sera del 24 Luglio la mobilitazione parziale venne approvata dal consiglio dei ministri senza che ministro della guerra e capo di stato maggiore sollevassero obiezioni; le vaghe rassicurazioni fornite da Berchtold all’ambasciatore russo a Vienna nel tentativo di mascherare le vere intenzioni austriche non avevano sortito alcun effetto su Sazonov che, forse, in quel momento era anche preoccupato di poter finire raggirato com’era successo al suo predecessore e maestro Izvol’skij ai tempi della crisi bosniaca. Il giorno dopo Sazonov portò la richiesta di mobilitazione allo Zar trovandolo quanto lui contrariato dal passo di Vienna e deciso a contrastarlo risolutamente; il decreto venne così firmato e il ministro degli esteri se lo mise in tasca pronto a dargli seguito non appena l’Austria si fosse mossa. Intanto però  la sera tra il 25 e il 26 Luglio lo Zar autorizzò lo Stato maggiore a proclamare il “periodo di preparazione alla mobilitazione” cioè l’attivazione di tutte le misure necessarie per garantire la rapidità e l’efficienza della mobilitazione non appena questa fosse stata ufficialmente dichiarata (es. la promozione automatica ad ufficiali di tutti i cadetti dell’ultimo anno nel momento stesso in cui fosse scaduto l’ultimatum austriaco). Secondo Albertini e Clark tale provvedimento fu voluto dallo Stato Maggiore proprio perché consapevole della inattuabilità della mobilitazione parziale, infatti il “periodo di preparazione alla mobilitazione” riguardava tutto il territorio dell’Impero e non solo i quattro distretti indicati da Sazonov; ciò però comportava un’attività non solo alla frontiera austriaca, ma anche a quella tedesca cosa che ovviamente mise in allarme i verti militari del Reich non in grado di distinguere tra pre-mobilitazione e mobilitazione effettiva. A descrivere lo stato d’animo con cui si muoveva lo Stato maggiore russo basti dire, come ricorda Clark, che Januschkevic autorizzò i comandanti locali ad andare anche oltre le misure di pre-mobilitazione qualora lo ritenessero opportuno per garantire una successiva mobilitazione efficace. Tutto ciò ovviamente era benzina sul fuoco perché rapidamente in tutta Europa si diffuse la notizia dei movimenti dell’esercito zarista. Chi avrebbe potuto, se non bloccare, quanto meno arginare la slavina che si stava mettendo in movimento era il Regno Unito visto che l’atteggiamento della Germania era fortemente condizionato dalla non volontà di ritrovarsi in guerra con Londra. Purtroppo il ministro degli esteri Edward Grey sbagliò completamente approccio iniziale alle vicenda illudendosi che fosse possibile separare il conflitto austro-serbo, di scarso interesse per l’Inghilterra, da quello austro-russo, che invece inevitabilmente si sarebbe potuto estendere al resto del continente. Grey suggerì alla Serbia si dare quante più soddisfazioni possibili all’Austria, nemmeno lui però pretese una sottomissione completa all’ultimatum, dando per scontato che fosse impossibile evitare una guerra austro-serba; ciò avrebbe sicuramente portato a una mobilitazione russa che però il ministro inglese invece di attivarsi per evitarla la approvava a patto che poi, a fronte di una conseguente contro-mobilitazione austriaca, tanto Vienna quanto Pietroburgo evitassero di passare ai fatti attendendo l’esito di una mediazione a quattro Inghilterra, Italia, Francia e Germania. In tal modo Grey commetteva due errori gravissimi: uno accettava senza riserve che si mettesse in moto il diabolico meccanismo delle mobilitazioni, due dava per assunto che la Germania fosse interessata ad agire su Vienna per trattenere l’alleato. Così, mentre Pietroburgo e Parigi già iniziavano ad intuire che le reali intenzioni di Berlino fossero diverse da ciò che veniva dichiarato ufficialmente, Grey ne supponeva la buona fede. In realtà a Berlino tanto il Cancelliere quanto il Ministero degli esteri, non appena ebbero notizia della proposta di una mediazione a quattro, la accolsero solo per prendere tempo e nell’idea che in questo modo Londra avrebbe spinto la Francia a fare pressioni sulla Russia perché non mobilitasse; tutto ciò al fine di ottenere la desiderata localizzazione del conflitto che altro non era se non lasciare mani libera all’Austria nei confronti della Serbia. Ben altro effetto si sarebbe avuto se Grey, come gli era stato chiesto da Sazonov e suggerito da esponenti del Foreign Office, avesse sin da subito mostrato alla Germania che il Regno Unito non sarebbe rimasta indifferente all’esplodere di un conflitto europeo ad esempio ordinando la mobilitazione della flotta non appena Austria e Russia avessero iniziato a mobilitarsi contro l’un l’altra. Grey però, bloccato dal timore di essere costretto a sciogliere l’ambiguità di fondo con cui aveva sempre trattato l’Entente Cordiale, ritarderà in maniera fatale questo presa di posizione decisiva. Dunque questo era il contesto delle reazioni delle grandi potenze europee all’ultimatum mentre il governo serbo decideva il da farsi. Il primo ministro di Belgrado Pasic era uno statista intelligente coi piedi ben piantati a terra e sapeva che, per quanto fosse romantica la storia di Davide e Golia, uno scontro tra Serbia e Austria, senza che la prima avesse un qualche tipo di aiuto esterno, si sarebbe potuto risolvere solo con l’annientamento dello stato balcanico. Per questo motivo il suo orientamento iniziale era quello di accogliere integralmente le richieste di Vienna, sebbene sapeva che ciò comportava il rischio che potessero emerge le colpe del governo serbo in merito ai fatti di Sarajevo. Per tutta la giornata del 24, nonostante dalle cancellerie dell’Intesa giungesse il consiglio di provare a prendere tempo o di dare un’accettazione quanto più parziale, la voce che si diffuse a Belgrado, giungendo anche all’orecchio dell’ambasciatore austriaco Giesl, era che la Serbia intendesse piegare la testa. La situazione però cambiò improvvisamente tra la sera del 24 e il giorno 25; perché? Perché da Pietroburgo era giunta notizia che lo Zar aveva approvato il decreto di mobilitazione parziale e che l’atteggiamento dei vertici russi era di garantire pieno sostegno alla Serbia. Fu dunque la certezza della solidarietà russa a spingere Pasic a cambiare linea e a preparare una risposta che, come consigliato da Sazonov, accettasse dell’ultimatum tutto ciò che non fosse inconciliabile con la sovranità di un qualsiasi stato indipendente. Veniamo dunque ad un’altra delle più famose leggende in merito allo scoppio della Grande Guerra e cioè che la risposta serba all’ultimatum rigettò solo il punto 6 in quanto ritenuto lesivo della sua sovranità nazionale. In realtà le cose non stanno così, anche se è facile capire come nacque questo luogo comune. Leggendo infatti la risposta serba senza metterla direttamente a confronto con l’ultimatum austriaco può apparire che effettivamente Belgrado si fosse sottomessa per il 90% di ciò che gli era stato chiesto, ma osservando meglio ci si può accorge della verità e si capisce perché un funzionario austriaco definì il testo serbo come “il più brillante esemplare di abilità diplomatica” che avesse avuto modo di vedere. Ogni accettazione infatti o era parziale, o era reticente o infine menzognera. Ad esempio al punto 5 si accettava la collaborazione coi funzionari austriaci, ma nel rispetto “dei principi del diritto internazionale e alle procedure criminali” che voleva dire tutto e niente, ancora ai punti 3 e 4 si accettava purché Vienna fornisse prove delle presunte attività anti-austriache in Serbia e infine al punto 7, dove si chiedeva l’arresto di Ciganovic, che era la persona che materialmente aveva fornito ai congiunti le armi per l’attentato dopo averle ricevute dall’aiutante di campo di Dimitrijević, si mentì spudoratamente affermando che a Belgrado, stando alla polizia, non c’era nessuno che si chiamasse Milan Ciganovic! Come detto l’unico punto esplicitamente rigettato fu il 6 e il motivo non stava in una orgogliosa difesa della sovranità serba, ma bensì nel timore che, qualora incredibilmente l’Austria avesse ritenuto accettabile quella risposta, ammettendo anche solo parzialmente delle indagini austriache in Serbia potessero emergere quelle colpe del governo di Belgrado che abbiamo visto nell’articolo precedente. Alle 5:55 del 25 Luglio, a cinque minuti dal termine austriaco, Pasic si assunse l’incarico di portare personalmente la risposta a Giesl, che però sapeva già che essa non sarebbe stata incondizionata visto che alle tre di pomeriggio il governo aveva emanato l’ordine di mobilitazione generale. Le istruzioni date da Berchtold all’ambasciatore austriaco erano state tassative: “considerare qualsiasi accettazione condizionata o accompagnata da riserve come un rifiuto”; per cui a Giesl bastò uno sguardo per capire che la risposta non era ricevibile. Firmò dunque una nota già preparata in cui informava il governo serbo che, scaduto il termine dell’ultimatum senza che fosse giunta una risposta soddisfacente, avrebbe immediatamente lasciato Belgrado con tutto il personale dell’ambasciata austriaca; meno di un’ora dopo il suo treno varcò la frontiera tra Serbia e Austria. Ciò che accadde a questo punto mostra ancora una volta quanto incerto fosse ormai l’atteggiamento del ministro degli esteri austriaco; l’ultimatum era scaduto e l’ambasciatore austriaco aveva lasciato la Serbia, ma non vi era stata nessuna dichiarazione di guerra né Berchold sembrava intenzionato a compiere nell’immediato questo passo. Il suo nuovo orientamento si può ritenere essere maturato subito dopo l’invio dell’ultimatum e pare desumibile da questa dichiarazione che l’ambasciatore austriaco a Londra fu autorizzato a fare a Grey: il testo inviato a Belgrado non era da considerare un ultimatum,  ma una “démarche con limite di tempo” che se non accolta avrebbe portato nell’immediato solo alla rottura delle relazioni diplomatiche. Inoltre quando Francesco Giuseppe incontrando Giesl il 26 Luglio gli disse che, data la risposta serba, aveva fatto bene a lasciare subito Belgrado, ma anche che “ciò non vuol dire ancora guerra”. Eppure i telegrammi che partirono quello stesso giorno verso le cancellerie del resto d’Europa esprimevano tutta l’insoddisfazione di Vienna per il documento di Belgrado e davano la guerra per imminente. Come raccapezzarsi in questo caos? La spiegazione più probabile è che Berchtold, forse sempre più spaventato alla prospettiva di un conflitto, sperasse ancora di poter ottenere una completa sottomissione serba anche fuori termini, magari con qualche aggravamento per il ritardo, mostrando la faccia feroce e spingendo così i paesi amici di Belgrado a costringerla a cedere. Quanto Berchtold potesse realmente credere a questa speranza dopo il colloquio con Giesl, da cui aveva saputo che la Serbia aveva cambiato atteggiamento dopo le rassicurazioni giunte da Pietroburgo, è poi tutta un’altra questione, ma sembra che il governo austriaco, forse anche spinto dai desideri di pace di Francesco Giuseppe, stesse provando un disperato tentativo di salvare capra e cavoli. Purtroppo questo cambio di rotta veniva dopo i propositi bellicosi del primo momento, che aveva prodotto quell’ultimatum durissimo, e in una fase in cui Berlino pretendeva dall’alleato che adesso dimostrasse che le sue non erano minacce con una pistola scarica. Come abbiamo detto infatti il governo tedesco voleva che l’Austria ristabilisse in cui prestigio dopo le sberle delle due guerre balcaniche e infatti, all’atto di emettere il suo “assegno in bianco”, aveva messo in chiaro che non avrebbe detto a Vienna cosa fare, ma pretendeva che una volta che questa avesse deciso una linea d’azione la seguisse con risolutezza. In linea con questo pensiero Berlino da un lato iniziò a sollecitare perché l’Austria rompesse gli indugi dichiarando guerra alla Serbia e, allo stesso tempo, lavorò per disinnescare i tentativi di trovare una soluzione diplomatica alla controversia. Bethmann-Hollweg e il Ministero degli esteri agivano così perché la colpevole mancanza di chiarezza da parte di Grey li aveva convinti che la Gran Bretagna intendesse restare neutrale in caso di esplosione di un conflitto europeo su larga scala; inutilmente l’ambasciatore tedesco a Londra Lichnowsky e importanti personalità come l’ammiraglio Tirpitz fecero osservare che era irrealistico credere che Londra si sarebbe disinteressata a una guerra europea, anche se le si prometteva di limitarsi a “sconfiggere” la Francia. Insensibile a questi avvertimenti Bethmann-Hollweg riteneva che la neutralità inglese avrebbe fatto tentennare Parigi e a quel punto sarebbe bastata esercitare la giusta pressione sul governo francese per spingerlo a trattenere i russi realizzando così la tanto agognata “localizzazione del conflitto”. A Londra intanto Grey lavorava ancora alla soluzione diplomatica senza però accompagnare queste mosse con una forte pressione sul Reich; la sua nuova proposta fu infatti una conferenza degli ambasciatori delle grandi potenze, da tenersi a Londra, a cui sottoporre la controversia austro-serba. L’idea venne respinta da Berlino mentre Parigi e Pietroburgo tergiversarono; l’unica a dirsi invece subito d’accordo fu l’Italia che, insieme al Regno Unito, fu il paese più attivo nel tentativo di disinnescare la situazione (il ministro San Giulino tentò a sua volta una mediazione abortita quasi subito però perché tardiva e non portata vanti con convinzione). La scelta tedesca si fondava su due ragioni: ufficialmente perché la riteneva superflua in quanto, trattandosi di una controversia esclusivamente tra Austria e Serbia, non sussistevano le ragioni di un conflitto austro-russo (ciò all’interno del più ampio progetto per rendere Pietroburgo responsabile dell’eventuale conflitto); di fatto però Berlino voleva evitare che si legassero le mani a Vienna dato che, in una conferenza come quella proposta da Grey, il blocco dell’Intesa, supportato dall’atteggiamento sicuramente ambiguo dell’Italia, avrebbe messo in minoranza Germania ed Austria concedendo a quest’ultima al massimo un mero successo diplomatico di scarso valore concreto. A Pietroburgo la proposta di Grey non venne tenuta in gran conto perché Sazonov si era illuso di essere riuscito ad avviare una conversazione diretta con Vienna; tale errore fu dovuto a delle aperture eccessive e non autorizzate dell’ambasciatore austriaco in Russia il quale fece intendere che il suo paese fosse disponibile a rivedere le richieste dell’ultimatum partendo dalla risposta serba. Berchtold non aveva, né avrebbe mai, concesso una cosa del genere, ma le incaute dichiarazioni dell’ambasciatore a Sazanozv spinsero il ministro degli esteri a comunicare a Londra che, pur non respingendo l’idea di una conferenza internazionale, riteneva più proficuo battere la strada del negoziato diretto con l’Austria. Parigi da par suo non fece altro che mettersi in coda alla Russia ciò anche per la già citata assenza dei vertici politico-diplomatici del paese. Negli anni successivi alla guerra lentamente si iniziarono a muovere delle critiche all’atteggiamento tenuto dalla Francia all’inizio della crisi di Luglio, in particolare per aver incoraggiato anziché temperato la volontà russa di prendere la strada della mobilitazione. Non essendo possibile negare che Parigi fosse al corrente che Pietroburgo aveva proclamato il periodo di preparazione alla mobilitazione e che lo Zar aveva firmato il decreto di mobilitazione parziale, tesi assurda sia documenti alla mano sia perché è illogico credere che un alleato potesse essere tenuto all’oscuro di ciò, si tentò di gettare la colpa sull’ambasciatore francese Maurice Paléologue il quale venne accuso di aver agito di sua iniziativa senza tenere debitamente informato il suo governo di ciò che stava succedendo. Questa tesi è falsa e per capirne il perché bisogna rispondere a questa domanda: chi guidava la politica estera francese in quel Luglio del 1914? La risposta è il Presidente della Repubblica Poincaré e il Quai d’Orsay. Poincaré era stato messo all’Eliseo dai suoi avversari al fine di allontanarlo dal governo e castrarlo politicamente; questi però, sfruttando il suo acume politico e l’intrinseca debolezza dei governi della Terza Repubblica, rese la Francia un presidenzialismo di fatto. Grazie al suo nuovo ruolo teoricamente super partes riuscì a fare in modo che il parlamento approvasse la leva triennale mentre il governo Viviani era una sua creatura per cui il suo peso politico negli ultimi anni, invece di essere diminuito, era aumentato. Abbiamo visto nel precedente capitolo come, durante la visita di stato  a Pietroburgo solo pochi giorni prima dell’ultimatum, avesse pienamente sostenuto la linea della fermezza russa e pubblicamente affermato che la Russia aveva nella Francia un alleato fedele; Paléologue non fece dunque altro che mantenere il timore sulla rotta tracciata da Poincaré, rotta che seguiva la stella polare della politica del Quai d’Orsay sin dal 1891: l’alleanza franco-russa. Il Quai d’Orsay era, ed è ancora, una strana creatura; buona parte dei suoi funzionari non sono politici, ma diplomatici di professioni molti dei quali discendenti da famigli che da generazioni (alcuni sin dai tempi dei Borboni) si dedicano all’arte delle relazioni internazionali. La consapevolezza di appartenere a una sorta d’elite portava questi funzionari a guardare con sufficienza e disprezzo i vari ministri politici che si succedeva alla guida del Quai d’Orsay. Così, eccezion fatta forse solo per Delcassé, il Quai d’Orsay considerava i suoi ministri come degli incompetenti da tenere a bada perché non facessero danni piuttosto che persone alle cui direttive ubbidire; ciò comportava che la politica estera francese, più che espressione dei suoi vari governi, era in realtà gestita da tecnici specializzati che portavano avanti un progetto a lungo termine che si chiamava Triplice Intesa e che si reggeva da un lato sull’Entente Cordiale e dall’altro sull’alleanza con la Russia. Ecco allora perché Parigi non si attivò per frenare la Russia: perché se, come Poincaré aveva constato di persona e Paléologue riferiva nei suoi rapporti, l’atteggiamento di Pietroburgo era di non cedere di un millimetro sulla difesa dell’autonomia serba, tentare di dissuadere lo storico alleato da questa linea, dopo che già la Russia aveva dovuto fare marcia indietro ai tempi della Bosnia, avrebbe potuto comportare pesantissime ripercussioni sulla solidità dell’alleanza stessa. Parigi insomma non voleva rischiare un suicidio diplomatico e così appoggiò la Russia; non desiderava una guerra con la Germania, ma altresì non la temeva essendo ormai da tempo entrata nell’ordine di idee che questa prima o poi ci sarebbe stata. Naturalmente quanto appena detto può essere applicato di riflesso al rapporto tra Germania e Austria. Questa dunque era la situazione allorché si giunse al 27 Luglio data importantissimi nell’evolversi della crisi. A Londra Grey, che persino dall’Italia era stato invitato a parlar chiaro con la Germania, iniziando forse a dubitare della buona fede tedesca tenne all’ambasciatore di Berlino Lichnowsky un discorso che il diplomatico telegrafò in patria essere stato intenso nell’invitare il Reich a farsi promotore, insieme al Regno Unito, di un azione per salvare la pace, ma che per la prima volta faceva anche velatamente intendere come nel caso la vicenda fosse evoluta in un confronto tra la Triplice Alleanza e l’intesa il Regno Unito avrebbe dovuto agire per evitare la sconfitta morale e militare del suo gruppo. Che l’atteggiamento inglese si stesse evolvendo era anche dimostrato dalla decisione presa da Winston Churchill, all’epoca Prima Lord dell’Ammiragliato, di dare ordine che la flotta, in quei giorni impegnata in una serie di manovre, non si sciogliesse, ma restasse concentrata così da essere immediatamente operativa qualora fosse stato spiccato improvvisamente l’ordine di mobilitare. Né il messaggio di Lichnowsky né il comportamento della flotta inglese, ampiamente pubblicizzato sui giornali, riuscirono a intaccare la convinzione di Bethmann-Hollweg che si potesse fare pieno affidamento sulla neutralità inglese in caso di guerra; purtroppo però per il cancelliere quello stesso 27 Luglio accadde qualcosa che aveva cercato di rimandare il più possibile: il Kaiser rientrò a Berlino. Nei primi giorni della crisi Guglielmo II era stato convinto a non interrompere la sua crociera nel Baltico e i rapporti che gli giungevano non è che erano falsi però omettevano alcune informazioni; il motivo di ciò era che Bethmann-Hollweg, conoscendo il carattere ondivago del sovrano, temeva che questi venisse a rompere le uova nel paniere del suo perfetto piano. Il Kaiser infatti amava i toni guerrieri quando non c’era rischio di guerra, ma quando questa iniziava ad incombere diventava improvvisamente uno dei più grandi amanti della pace. Forse perché non convinto di ciò che gli veniva trasmesso o forse perché il suo animo narcisista gli faceva solleticare l’idea di diventare il salvatore della pace d’Europa, ma il 27 Luglio Guglielmo decise di rientrare e convocò immediatamente una riunione dei vertici dello stato a Potsdam per essere messo al corrente della situazione. Non si sa per certo come si svolse la discussione, ma sicuramente al Kaiser non venne fornito il testo della risposta serba all’ultimatum, ufficialmente perché il telegramma in cui era contenuto non era chiaro, cosa non proprio falsa, ma neanche vera. Appare invece improbabile che non sia stato messo al corrente della proposta inglese della conferenza degli ambasciatori in quanto, dalla lettura di documenti successivi, sembra che Guglielmo, seppur non rovesciando la decisione di respingerla, chiese al suo cancelliere di tenere in maggior considerazione le richieste che venivano da Londra per non rischiare di tirare troppo la corda col governo inglese. Bethmann-Hollweg eseguì l’ordine a modo suo cioè trasmise la proposta inglese a Vienna in una telegramma però in cui si spiegava, neanche in maniera troppo sottile, come ciò veniva fatto solo per salvare la faccia con Grey e che l’Austria non doveva sentirsi assolutamente obbligata ad aderirvi, anzi Vienna doveva decidersi ad agire così da mettere l’Europa davanti al fatto compiuto. Era da che era partito l’ultimatum che Berlino chiedeva all’alleato di dichiarare guerra quanto prima possibile così da rendere vane le pressioni diplomatiche per salvare la Serbia; una volta iniziate le ostilità infatti o si sarebbe accettata la localizzazione del conflitto o la Russia avrebbe dovuto prendersi la responsabilità di fare la prima mossa verso la conflagrazione generale. Questi inviti sempre più pressanti mettevano in grosse difficoltà Berchtold ormai attaccatosi come un disperato all’illusione che alla fine, pur di evitare la guerra, l’Intesa avrebbe costretto la Serbia a sottomettersi alle condizioni dell’ultimatum. Stretto tra la necessità di inseguire questa chimera e il non dare alla Germania l’idea che l’Austria fosse immeritevole dell’alleanza; Berchtold decise di comunicare a Berlino che entro il 29 avrebbe inviato la dichiarazione di guerra allo scopo di “impedire qualsiasi tentativo di intervento”, ma che allo stesso tempo non sarebbe stato possibile iniziare effettivamente le ostilità prima del 12 Agosto come da dichiarazione del capo si stato maggiore Conrad. La sua illusione era che, nei quindi giorni tra la dichiarazione di guerra e l’inizio delle operazione, potesse verificarsi quel fatto nuovo che avrebbe di fatto evitato la necessità di dare il via a un vero conflitto. Insomma Berchtold decise per la dichiarazione di guerra al fine di accontentare la Germania e quindi, come scrive Albertini e Margaret MacMillan, almeno su questo passaggio della crisi di Luglio Berlino porta su di sé tutta la responsabilità. Così quello stesso 27 Luglio il ministro degli esteri chiese a Francesco Giuseppe l’autorizzazione a preparare una nota ufficiale di dichiarazione di guerra alla Serbia sia per arginare le iniziative dell’Intesa sulla base dell’inaccettabile risposta serba, sia perché era giunta notizia che a Temes Kubin truppe serbe su un piroscafo avessero sparato sui soldati austro-ungarici. Questa di Temes Kubin era una notizia falsa e infatti non ve ne fu traccia nel testo definitivo della dichiarazione di guerra, anche se Berchtold insistette nell’affermare che la dichiarazione di guerra era stata inevitabile dato che la Serbia aveva per prima aperto le ostilità. Comunque tanto bastò per accusare il ministro degli esteri austriaco di aver ingannato l’Imperatore allo scopo di estorcergli il consenso a una linea da lui non condivisa (tesi non esclusa da Luigi Albertini). Il 28 il testo fu pronto e Francesco Giuseppe lo approvò il giorno stesso; alle 13 la dichiarazione di guerra fu trasmessa a Belgrado mezzo telegramma, prima volta nella storia di una guerra iniziata così poiché la Germania si era rifiutata di consegnare il documento per mano del suo ambasciatore in Serbia (ciò sempre al fine di insistere nella pantomima di essere all’oscuro delle azioni dell’alleato). Nel frattanto che Bethmann-Hollweg spingeva l’Austria alla guerra, Guglielmo II, a cui finalmente era stato dato il testo della risposta serba, elaborava quello che poteva essere il perfetto uovo di Colombo per tirare fuori l’Europa dal pantano in cui si stava infilando. Passata alla storia come “Halt in Belgrad” l’idea, che dimostra la profonda intelligenza del Kaiser, suggeriva che venisse permesso a Vienna di “soddisfare l’onore” facendole occupare senza colpo ferire Belgrado; poi, con questo pegno d’assicurazione, si sarebbero iniziati dei negoziati sulla base della risposta serba che Guglielmo II riteneva aver dimostrato la volontà di Belgrado a collaborare. L’Halt in Belgrad permetteva sia di tutelare gli interessi austriaci, che voleva dare una dimostrazione plastica della sua potenza nei Balcani, sia accontentare i russi che chiedevano insistentemente di trattare partendo non più dall’ultimatum, ma dalla risposta di Belgrado. Gli unici che sarebbero stati ovviamente contrari erano  i serbi, ma Pasic, se messo di fronte a un muro compatto delle grandi potenze europee, difficilmente avrebbe suicidato il suo paese. Possiamo immaginare “l’entusiasmo” di Bethmann-Hollweg nell’apprendere di questa idee; per il cancelliere del Reich tutto ciò che potesse essere un mettere i bastoni tra le ruote all’intenzione austrica di schiantare la Serbia era come fumo negli occhi. Ovviamente però non poteva ignorare un ordine del Kaiser per cui trasmise, dopo aver però atteso che fosse partita la dichiarazione di guerra, l’Halt in Belgrad a Vienna reinterpretandolo però a modo suo: se il Kaiser aveva parlato della sola occupazione di Belgrado, lui scriveva “Belgrado e altri punti della Serbia”; se il Kaiser aveva detto di usare come base delle negoziazioni la risposta serba, lui parlava ancora dell’ultimatum austriaco. Insomma snaturò completamente lo spirito della proposta di Guglielmo II. Interessante vedere come a Berlino in quel momento i vertici del Reich fossero divisi tra un cancelliere e un ministero degli esteri fideisticamente convinti che la neutralità inglese gli avrebbe permesso di localizzare il conflitto o, al peggio, far apparire la Russia colpevole della guerra; e un Kaiser che, seppur ritenuto inaffidabile dai suoi stessi sottoposti, con grande lungimiranza si accorgeva che la tavolata che gli si stava apparecchiando d’avanti era tutt’altro che attraente: la Gran Bretagna ordinava che la flotta restasse riunita, la Russia sembrava sul punto di mobilitare e né l’Italia né la Romania dava segnali di voler sostenere gli Imperi Centrali in caso di conflitto. Bethmann-Hollweg però andò avanti per la sua strada e, dopo aver ottenuto la tanto sospirata dichiarazione di guerra, si attivò per o disinnescare la Russia o, come detto, fare in modo che le si potesse addossare la responsabilità del conflitto. Per far ciò inviò messaggi vagamente minacciosi a Pietroburgo e Parigi facendo intendere che in caso di loro mobilitazione la Germania sarebbe stata costretta a fare lo stesso; ma soprattutto facendo pressioni su Vienna perché intorbidisse le acque. Il modo infatti per dare a bere al mondo che fosse la Russia a star trascinando l’Europa in guerra era far credere che Pietroburgo insistesse a volersi impicciare di una faccenda tra Austria e Serbia anche dopo che la prima aveva dato tutte le garanzie richieste a ché nessuno degli interessi russo nei Balcani sarebbe stato messo in pericolo. In tal senso era fondamentale che Vienna sbandierasse ai quattro venti la sua promessa di non avere intenzione di attentare all’integrità territoriale serba; promessa che però gli austriaci non volevano fare in maniera troppo esplicita perché, come detto nel precedente capitolo, la decisione di non annettere parti della Serba era stata presa solo per ottenere l’ok all’ultimatum da parte di Tisza e, inoltre, si era già deciso che comunque la Serbia sarebbe stata ridotta a vantaggio dei suoi vicini (Albania e Bulgaria in testa). Ovviamente questo tergiversare di Vienna infastidiva Bethmann-Hollweg che, inoltre, era scontento con gli austriaci per il modo con in cui si stavano regolando con l’Italia. In Germania si teneva molto che, nel caso di guerra, Roma fosse solidale con la Triplice, ma dato che era impossibile contestare la sua interpretazione del trattato bisognava accattivarsela con la promessa di compensi territoriali di qualche tipo. Vienna però non voleva sentirci da quell’orecchio e infatti Berchtold filosofeggiava cercando motivi non per entrare in quel genere di negoziazioni con l’Italia. Questo il clima nel quale il 29 Luglio si tenne una nuova riunione a Potsdam dove il ministro della guerra Generale Von Falkenhayn (che nel 1916 da Capo di stato maggiore avrebbe deciso di lanciare l’offensiva di Verdun) per la prima volta chiese che venisse preso il considerazione l’annuncio del Kriegsgefahrzustand (minaccia di pericolo di guerra) come risposta ai movimenti dei russi. Rimandando questo discorso al prossimo articolo va qui però detto sin da subito, per contestualizzare le mie parole, che il maggior pericolo che adesso l’Europa correva era che qualche paese innescasse il meccanismo delle mobilitazioni; ciò perché nessuno nel continente sapeva che per la Germania, in ragione del piano Schlieffen, mobilitazione voleva dire automaticamente l’apertura delle ostilità contro Francia e Russia. Proclamare il Kriegsgefahrzustand, che era il passo immediatamente precedente alla mobilitazione, era dunque un fatto possibilmente gravissimo; fortunatamente il Kaiser era ancora animato da spirito di pace e questo fu sufficiente a disinnescare la minaccia. Argomento ben più discusso in quell’incontro fu la neutralità inglese data ancora per certa da cancelliere e ministero degli esteri. Il Kaiser era invece ancora dubbioso però da Londra gli era giunta una notizia incoraggiante e cioè che re Giorgio, discutendo con il figlio di Guglielmo Enrico, aveva espresso l’augurio che il suo paese restasse neutrale; questa affermazione, in ragione del modo personalistico con cui Guglielmo II gestiva la politica estera, era ritenuta più che sufficiente dal Kaiser che disse “Ho la parola di un re: questo mi basta!”. Il livello di queste certezze venne però nuovamente scosso dalla notizia, giunta poco dopo la fine della riunione, che la Russia avrebbe di lì a breve mobilitato contro l’Austria. I militari, che stavano iniziando ad intervenire attivamente all’interno della gestione della crisi, pretesero adesso che si avesse una prova certa della neutralità inglese e Bethmann-Hollweg decise di fare all’ambasciatore inglese Goschen una dichiarazione da trasmettere a Londra. Questa dichiarazione fu preparata malissimo e scritta ancora peggio perché si prometteva a Londra unicamente che, in caso di guerra, la Germania non avrebbe annesso territorio della Francia, si accennava per la prima volta che il Belgio potesse in qualche modo entrare volente o nolente nella partita e che comunque l’unica cosa che il Reich offriva in cambio era la promessa di stipulare con l’Inghilterra “un accordo generale sulla neutralità per l’avvenire”. Il cancelliere aveva tentato di rendere la proposta più accattivante aggiungendo anche la promessa di un accordo navale, ma il Kaiser non ne aveva voluto sentir parlare. In pratica Berlino chiedeva che la Gran Bretagna le desse mano libera in Europa e nei mari in cambio solo di un accordo di neutralità una volta che avesse spazzato via l’alleanza franco-russa… di fatto Bethmann-Hollweg sperava che gli inglesi si mettessero il cappio da soli e ringraziassero anche. Fu su questa situazione che da Londra giunse improvvisamente una notizia che ebbe l’effetto di una mazzata sull’intero vertice politico-diplomatico tedesco. Grey, dopo il doppio del rifiuto tedesco alla conferenza e della dichiarazione di guerra, iniziò finalmente a sospettare che la Germania non fosse completamente genuina nel suo atteggiamento e quindi si decise a fare quel passo che da giorni gli veniva chiesto da più parti. Convocò quindi l’ambasciatore Lichnowsky e gli espresse ancora una volta la sua speranza di poter salvare la pace chiedendo insistentemente che la Germania facesse la sua parte intervenendo su Vienna (propose in quest’occasione qualcosa di molto simile all’Halt in Belgrad), aggiunse però anche che, se in caso di conflitto Francia e Germania fossero state coinvolte, Berlino non doveva assolutamente credere che il Regno Unito potesse restarsene in disparte. Luigi Albertini espresse giudizi durissimi nei confronti del ministro degli esteri inglese affermando, senza mezzi termini, che il ritardo colpevole con cui fece questa dichiarazione contribuì in maniera determinante a provocare lo scoppio della guerra in Europa. Non appena infatti Lichnowsky comunicò la cosa a Berlino per Bethmann-Hollweg fu come se gli fosse crollato l’universo addosso. Guglielmo II fu preso da uno dei suoi soliti accessi di anglofobia, accusando re Giorgio e Grey di averlo ingannato, mentre il cancelliere tentò disperatamente di innestare la retromarcia facendo pervenire a Vienna un caldo appello perché accogliesse l’Hlat in Belgrad e una mediazione internazionale sulla vicenda. Berchtold, che ricordiamolo era stato spinto proprio da Berlino ad affrettare la dichiarazione di guerra, rispose ovviamente che gli era impossibile in poche ore fare dichiarazioni ufficiali sul modo in cui l’esercito avrebbe condotto le operazioni militari. Nel panico probabilmente il cancelliere benedì quei quindici giorni che all’Austria sarebbero occorsi per attaccare la Serbia e forse, come Berchtold, si illuse che sarebbe stato possibile usare quel tempo per cacciarsi fuori da quella situazione divenuta improvvisamente pericolosissima. Effettivamente si può supporre che l’Halt in Belgrad sarebbe stato un utile strumento per far ciò; purtroppo però la dichiarazione di guerra austriaca aveva intanto già provocato l’immediata risposta russa: la mobilitazione!

 
 

Bibliografia:

  • Luigi Albertini, Le origini della Grande Guerra Vol. 2
  • Christopher Clark, I sonnambuli – Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra
  • Margaret MacMillan, 1914 – Come la luce di spense sul mondo di ieri
1 Response
  • Silvio
    17 Settembre 2017

    “””””””” DOCUMENTI DIPLOMATICI
    QUARTA SERIE
    copertina
    61
    COLLOQUIO SONNINO-GARRONI (2)

    1° settembre 1915.

    L’ambasciatore Garroni, al ritorno qui da Costantinopoli, dopo presentata la dichiarazione di guerra alla Turchia, mi racconta che fin dal 15 luglio 1914, cioè dopo l’assassinio del Principe Imperiale austriaco e prima della presentazione della nota ultimatum austriaca alla Serbia, l’amba,sciatore tedesco Wangenheim gli disse «Siamo alla guerra! ». Avendo Garroni, stupito, chies:to il come e perchè, Wangenheim gli narrò: «Noi (la Germania) siamo completamente pronti. L’Austria presenterà alla Serbia una nota redaHa in forma che la renda assolutamente inaccettabile. Quindi ~a .guerra. L’Austria era esitante, ma abbiamo ~esercitato una pressione tale .su di ler, che oramai la cosa è certa».
    Avendo io chiesto a Garroni, se aveva allora da·to notizia di ciò al R. Governo, il che non mi risultava, mi disse che no, che supponeva che, l’ambasciatore a Berlino a1vrebbe date le dnformazioni ·O!P,Portune, e che per non aver l’aria di immischiarsi nelle funzioni del collega aveva taciuto.

    (2) Il resoconto del colloquio è di pugno di Sonnino e -per quanto non nella sostanza differisce per la forma da quello pubblicato in: SALANDRA, Neutralità, pp. 115-116.””””””””

    Se può servire……

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