Opinione abbastanza comune è che la Gran Bretagna sia entrata nella Grande Guerra come reazione alla violazione della neutralità del Belgio da parte del Reich; detto così sembra che il tutto sia avvenuto come un perfetto e naturale automatismo, ma in realtà l’intervento inglese fu un parto travagliato che per poco non costò un esaurimento nervoso, se non peggio, all’ambasciatore francese a Londra Paul Cambon. Ho scelto di narrare a parte questa vicenda perché la sua comprensione necessitava di avere preliminarmente illustrato le vicende politico-diplomatiche svoltesi a Parigi, Berlino, Vienna e Pietroburgo a seguito dell’acuirsi della crisi di Luglio dopo la scelta della Russia di proclamare la mobilitazione generale. Tenendo dunque a mente quanto narrato nei due precedenti articoli di questa serie, torniamo alla sera del 29 Luglio quando si incrociarono tra loro la richiesta di neutralità inglese in caso di conflitto avanzata da Bethmann-Hollweg e il primo esplicito monito di Grey a Berlino che l’esplodere di una guerra europea non avrebbe potuto lasciare Londra indifferente. Prima però di riprendere il corso degli eventi è necessaria una breve contestualizzazione di come il governo inglese, il Foreign Office e i militari interpretavano quell’Entente Cordiale che dal 1904 aveva rivoluzionato la politica estera britannica. Va subito ricordato che l’Entente non nacque come un’alleanza militare né tale era diventata nel Luglio 1914; fondamentalmente la si può definire un accordo che aveva lo scopo di realizzare una concertazione generale tra Francia e Gran Bretagna su tutte le questioni politico-diplomatiche nonché a contenere la Weltpolitik tedesca che, con le sue leggi navali, stava iniziando a creare inquietudine a Londra. Dal momento in cui Edward Grey giunse alla guida del ministero degli esteri nel dicembre 1905 questi da un lato tentò sempre di contrastare i tentativi del Quai d’Orsay di interpretare l’Entente come un’alleanza militare di fatto, ma allo stesso tempo condusse una politica tesa a rafforzare i legami con l’alleanza franco-russa in un modo tale creare delle legittime aspettative nei governi di Parigi e Pietroburgo. Grey infatti sostenne la stipula dell’accordo anglo-russo del 1907 che chiudeva il Grande Gioco andando a regolare le questioni pendenti tra le due grandi potenze in Asia; allo stesso tempo sempre il ministro degli esteri autorizzò i militari inglesi ad entrare in discussione con i loro colleghi francesi in merito a un coordinamento strategico tra i due eserciti in caso di guerra europea, informando di ciò solo il Primo Ministro e pochi altri membri del governo. L’impegno più gravoso però Grey lo prese nel 1912 quando, in conseguenza del fallimento della missione Haldane a Berlino e dunque all’ulteriore espansione della flotta tedesca, Gran Bretagna e Francia siglarono un accordo navale in base al quale Parigi avrebbe concentrato tutta la sua flotta nel Mediterraneo lasciando che la difesa delle proprie coste sulla Manica fosse affidata alla Royal Navy . Il ministro degli esteri evidentemente ritenne di essersi spinto troppo oltre con questo accordo e, subito dopo, trasmise una lettera a Parigi nella quale, ammettendo che esistevano dei piani strategici comuni tra gli Stati maggiori inglesi e francesi, allo stesso tempo affermava che in caso di guerra non vi sarebbe stato alcun automatismo, ma le due parti “avrebbero deciso quali attuazioni dare ai loro piani”. Si trattava di una formula vaga che poteva essere allargata e ristretta a seconda delle necessità, ma accontentò tutti: Parigi perché riconosceva l’esistenza di accordi militari tra i due paesi, Londra perché metteva in chiaro che non sussisteva un obbligo inglese a scendere automaticamente in aiuto della Francia qualora fosse scoppiato un conflitto. L’orientamento di Grey allorché la situazione europea iniziò a degenerare rapidamente dopo l’ultimatum austriaco era di fedeltà all’Entente nelle forme del messaggio appena ricordato, ma deciso rifiuto a far sì che il paese fosse trascinato in guerra per una “bega balcanica”. Nelle sue memorie il ministro degli esteri scrisse che lui sin da subito fu dell’idea che, in caso di guerra franco-tedesca, fosse impossibile per il Regno Unito restarsene in disparte senza affondare tanto il suo prestigio quanto la sua posizione di grande potenza; a trattenerlo però dall’esprimersi sin dal primo momento con risolutezza in questo senso vi era l’incertezza sugli umori del paese e della sua classe politica. La City sin da subito guardò con molta ansia all’idea di un coinvolgimento di Londra in una guerra europea e, nei giorni della crisi di Luglio, corsero persino voci di manovre tedesche per creare il panico finanziario e spingere la borsa a dissuadere il governo dal rischiare l’avventura. Il Partito Conservatore, in quel momento all’opposizione, era tendenzialmente per l’intervento, ma il suo leader Bonar Law ammise che solo un evento dirompente come la violazione della neutralità del Belgio avrebbe creato un’assoluta unanimità in questo senso. Molto più spaccato era il Partito Liberale e lo stesso governo: a favore dell’intervento senza esitazioni erano solo il Primo Ministro Asquith, il Primo Lord dell’Ammiragliato Churchill, il Lord del sigillo privato Crewe e gran parte del Foreign Office in quel momento tendenzialmente tedescofobo; contrario era il resto del gabinetto che però a sua volta si divideva tra i pacifisti oltranzisti come il Lord Presidente del Consiglio Morley e chi invece valutava che in certe condizioni sarebbe stato impossibile restare neutrali come ad esempio il Cancelliere dello Scacchiere Lloyd George. Data questa situazione si può capire perché Grey non solo fino all’ultimo lavorò ventre a terra per cercare di comporre pacificamente la disputa austro-serbo-russa, ma anche perché fosse così poco propenso a fare, nonostante gli venisse chiesto da più parti, una esplicitata dichiarazione a Berlino sulla possibilità che la Gran Bretagna non sarebbe rimasta neutrale in caso di guerra. Il 27 Luglio Grey aveva per la prima volta informato il governo dell’esistenza di piani militari comuni tra Francia e Regno Unito, aggiungendo che, visto l’evolversi della crisi, bisognava decidere quale linea il paese avrebbe dovuto tenere; specificò però anche che, nel caso si fosse scelto per la neutralità ad oltranza, lui non si considerava l’uomo giusto per darvi esecuzione e per cui avrebbe dato le dimissioni. L’uscita di Grey dal governo avrebbe potuto voler dire una crisi del ministero per cui i neutralisti invitarono a riprendere in un secondo momento la discussione dato che, a loro parere, c’era ancora ampio spazio per salvare la pace. Invece l’ulteriore precipitare degli eventi costrinse entrambi gli schieramenti a iniziare a mettere le proprie carte sul tavolo in una nuova seduta di governo il 29 Luglio; per la prima volta si discusse apertamente degli obblighi inglesi verso il Belgio e i neutralisti più intransigenti sostennero che, a loro giudizio, il trattato del 1839 non poneva in capo ai firmatari degli obblighi individuali, ma solo collettivi per cui la Gran Bretagna non doveva considerare nemmeno la violazione della neutralità del Belgio come una linea rossa invalicabile. Seppur con difficoltà Grey riuscì a ottenere da questa riunione l’autorizzazione a rivolgersi tanto all’ambasciatore francese che a quello tedesco nel senso che Londra non poteva né voleva impegnarsi preventivamente su quale sarebbe stato il suo contegno in caso di guerra continentale. Come detto questa dichiarazione causò grande ansia a Berlino, che fino a quel momento aveva lavorato nella certezza che il Regno Unito sarebbe rimasto neutrale, ansia aumentata dalla risposta negativa e sdegnata che Grey diede alla quasi contemporanea richiesta di neutralità avanzata da Bethmann-Hollweg attraverso l’ambasciatore inglese presso il Reich. Questa richiesta, come poi anche l’ultimatum al Belgio, era nei modi e nei termini un marchiano passo falso diplomatico in quanto non solo si chiedeva a Londra entro quali limiti avrebbe considerato accettabile una possibile violazione della neutralità belga, ma chiedeva a anche che il Regno Unito restasse neutrale in caso di conflitto offrendo in cambio la garanzia che la Germania non avrebbe richiesto compensi territoriali alla Francia dopo la vittoria (ma senza dare la medesima garanzia per quanto riguardava l’impero coloniale francese). In sostanza Londra doveva fare finta di niente mentre la Germania faceva quello che le pareva sul continente; in cambio Berlino offriva soltanto dopo la guerra, quando cioè il Reich sarebbe stato la potenza dominante, un generico e non meglio espresso accordo generale sulla neutralità reciproca. Grey rispose duramente a questo messaggio affermando che, a monte di quelli che potevano essere gli interessi politici inglesi, “stringere patti con la Germania a spese della Francia sarebbe un’onta dalla quale il buon nome del nostro paese non riuscirebbe più a sollevarsi.”. Furono questi due chiari segnali giunti da oltre Manica che spinsero il Cancelliere tedesco, nella sera del 29 Luglio, a compiere quel brusco, ma tardivo, cambiamento di rotta teso a cercare di convincere Vienna ad addivenire ad un accomodamento della faccenda. Non bisogna comunque credere che la fiera risposta di Grey abbia segnato il punto di svolta nella gestione inglese della crisi di Luglio; il ministro degli esteri restava imbrigliato nelle incertezze del suo governo e ciò spiega perché, nei due giorni successivi, continuò ad evadere le richieste di Paul Cambon di un’esplicita dichiarazione di solidarietà alla Francia, tentando invece di trovare la formula magica che permettesse di far raffreddare la temperatura di un’Europa pericolosamente sul punto di esplodere. La prima di queste formule si avvicinava molto all’Halt in Belgrad ideato dal Kaiser in quelle stesse ore; Grey suggeriva che l’Austria occupasse la sola Belgrado come gesto “d’immagine” per poi accettare che la controversia fosse risolta attraverso l’intervento del concerto europeo. In realtà la formula di Grey differiva parzialmente da quella del Keiser perché se Guglielmo II considerava l’Halt in Belgrad come uno strumento che doveva far schivare il rischio della guerra, ponendo però allo stesso tempo l’Austria nelle condizioni per avere la più ampia soddisfazione alle sue richieste, nella formulazione del ministro degli esteri inglesi l’occupazione di Belgrado doveva fare da apriporta a negoziati diretti tra Vienna e Pietroburgo durante i quali, necessariamente, la prima avrebbe dovuto mitigare le sue richieste. Nonostante queste differenze sostanziali Berlino, dove ormai il Cancelliere era terrorizzato all’idea che la Gran Bretagna potesse entrare in guerra, fece su Vienna le pressioni di cui ho narrato nei precedenti articoli perché aderisse alla formula dell’Halt in Belgrad. Queste pressioni, lo abbiamo visto, non ebbero esito sia perché ormai Vienna era stata spinta proprio dall’alleato tedesco troppo in là per fare passi indietro, sia perché frattanto la Russia aveva iniziato a mobilitare. Grey si trovò così dal 30 Luglio in poi sottoposto a fortissime pressione: le speranze di salvare la pace stavano tramontando rapidamente, Paul Cambon gli chiedeva continuamente una dichiarazione ufficiale su quale sarebbe stato il contegno inglese mentre, attorno a lui, la situazione politica del paese si evolve costantemente. In quest’ultimo senso il più attivo era Winston Churchill, che era andato a rivolgersi direttamente al leader dei conservatori Bonar Law affinché questi, dichiarando esplicitamente il proprio supporto all’intervento, neutralizzasse il peso politico dei neutralisti nel governo. L’opposizione, anche per l’interessamento del generale Wilson (cioè colui che aveva negoziato i piani di guerra comuni con la Francia), si stava sempre più orientando in favore di un passo esplicito che rendesse nota al governo la sua disponibilità di sostenerlo in parlamento nel caso questi avesse deciso di entrare in guerra per supportare l’alleanza franco-russa. Questi orientamenti infine si sarebbero concretizzati in una lettera che Bonar Law inviò ad Asquith il 2 Luglio in cui si affermava “Lord Lansdowne ed io sentiamo il dovere di informarvi che, a parere così nostro come di tutti i colleghi che abbiamo consultato, sarebbe fatale per l’onore e la sicurezza del Regno Unito di esitare a sostenere Francia e Russia nella presente congiuntura, ed offriamo al governo il nostro appoggio senza esitazioni per qualsiasi misura esso consideri all’uopo di prendere.”. Questo messaggio avrebbe svolto un ruolo di grandissimo peso nelle determinazioni finali del gabinetto, ma per intanto, in una nuova riunione di governo tenutasi il 31 Luglio, prevalse ancora la linea di comunicare a Cambon che nessun impegno preventivo poteva essere preso dal governo inglese. Tale risposta, condita con la citazione dei timori della City, venne data da Grey quello stesso pomeriggio all’ambasciatore francese che ne rimase enormemente deluso; il ministro degli esteri aggiunse solo che un decisivo mutamento della situazione sarebbe potuto venire da eventi particolari come il mancato rispetto della neutralità del Belgio e informò Cambon che era sua intenzione inviare tanto a Parigi che a Berlino una richiesta perché venissero presi espliciti impegni in tal senso. Effettivamente una tale comunicazione partì quello stesso giorno, ma, mentre Parigi fu lesta a rispondere subito che avrebbe rispettato il Belgio fintanto che le altre potenze avessero fatto lo stesso, Berlino fu invece evasiva dando a intendere che il tutto sarebbe dipeso dalle necessità militari del caso. Erano le 20:30 del 31 Luglio quando l’ambasciatore tedesco comunicò a Londra che in Germania era stato proclamato il Kriegsgefahrzustand e che era stato rivolto alla Russia un ultimatum perché, entro il termine di dodici ore, ponesse fine alla sua mobilitazione. Importante notare come Londra fu, insieme a Pietroburgo, l’unica capitale europea alla quale il governo tedesco scelse di omettere l’importantissima informazione che, se fosse scaduto il termine delle dodici ore senza adempimento russo, il Reich sarebbe stato costretto a mobilitare rendendo la guerra inevitabile. Come per Pietroburgo anche per Londra questa non fu una dimenticanza, ma un preciso stratagemma per tentare di rendere meno gravosa la comunicazione così da poter ancora addossare sulla Russia la responsabilità della guerra; in effetti Grey scrisse che in un primo momento fu sua opinione che se la Russia mobilitava allora anche la Germania aveva il diritto di fare lo stesso e che, in caso di guerra, l’orientamento dell’opinione pubblicata sarebbe stato quello che erano stati i russi a far precipitare la situazione. Veniamo dunque al 1° Agosto, giorno che sarebbe stato ricordato da Cambon come “il più oscuro della mia carriera”. Già nelle prime oltre del mattino si discusse di che risposta dovesse dare re Giorgio V al Presidente francese Poincaré che aveva domandato la solidarietà inglese di fronte all’ultimatum consegnato dall’ambasciatore tedesco a Parigi; Grey, non ancora certo di quale sarebbe stata la risoluzione finale del governo, optò per una risposta che lo stesso re ebbe a definire “wretched” (miserabile) nella quale si ripeteva ancora una volta che Londra non intendeva preventivamente chiudersi alcuna opzione. Probabilmente fu questa perenne incertezza, unita col rendersi conto che la sua opera per la pace non stava producendo effetti, a condurre Grey a quel cortocircuito diplomatico, di cui abbiamo già detto nel precedente articolo, prospettando all’ambasciatore tedesco Lichnowsky la possibilità che, se la Germania non si fosse mossa contro la Francia, Londra sarebbe stata in grado di garantire la neutralità di Parigi. Come già detto questa resta uno dei punti più oscuri dell’intera crisi di Luglio in quanto le memorie successive di Grey e Lichnowsky divergono in maniera così ampia da non poter affermare con assoluta certezza cosa il ministro degli esteri inglese avesse realmente proposto. Si trattò di un’incomprensione reciproca dovuta all’enorme tensione del momento? O forse Grey si espresse male non facendo capire che Londra avrebbe potuto garantire la neutralità francese fin quanto ci fosse stato spazio per una trattativa tra Vienna e Pietroburgo? O ancora effettivamente Grey si spinse troppo in là? Abbiamo già visto quali effetti produsse a Berlino la notizia di questa proposta, ma già nel primo pomeriggio le speranze ebbero a tramontare sia perché in un messaggio di re Giorgio al Kaiser si decantava il tutto a un’incomprensione specificando che Londra non poteva garantire la neutralità francese, sia perché lo stesso Grey, non appena rivide Lichnowsky, iniziò a fare marcia indietro. Questo cambiamento in parte fu forse dovuto al rendersi conto che, data l’esistenza di un’alleanza militare tra Parigi e Pietroburgo, nulla avrebbe potuto evitare che la Francia si schierasse con la Russia qualora la Germania avesse dichiarato guerra alla seconda, sia perché nel gabinetto di governo stavano iniziando a mutare gli umori. Alle 3:30 era infatti giunta la risposta definitiva tedesca, in merito a una garanzia sulla neutralità del Belgio, in cui si affermava non potersi fare dichiarazioni in proposito “giacché ogni risposta ch’egli avesse dato avrebbe avuto, in caso di guerra, il non desiderabile effetto di svelare fino a un certo punto il piano di campagna tedesco”. Di fatto già con queste parole Berlino sottintendeva che era sua intenzione, in caso di guerra, violare la neutralità del Belgio; Grey rese noto questo messaggio al governo riuscendo ad ottenere l’autorizzazione a riferire a Lichnowsky che, qualora i tedeschi fossero entrati in Belgio, “sarebbe estremamente difficile calmare il sentimento pubblico”. A seguito di questa dichiarazione l’ambasciatore tedesco, che al contrario del suo governo vedeva lucidamente come lentamente Londra stesse marciando nella direzione dell’intervento, chiese a Grey se il Regno Unito sarebbe rimasto fuori dal conflitto dietro garanzia del rispetto della neutralità belga. Grey rispose ancora una volta col solito adagio che il governo non aveva ancora deciso che condotta tenere e che non si potevano dare garanzie anticipate a nessuna delle parti; va detto che anche qualora Grey avesse risposto diversamente difficilmente si sarebbe potuta evitare la violazione del Belgio dato che, a Berlino, Von Moltke aveva ormai commissariato di fatto il governo mettendo in chiaro che se si faceva la guerra l’unico piano sul tavolo era quello di Schlieffen. Dialogo non meno incoraggiante lo ebbe Cambon allorché si recò da Grey nel pomeriggio; l’ambasciatore francese era consapevole che da un momento all’altro poteva cominciare la guerra tra il suo paese e la Germania per cui gli premeva ottenere quella garanzia del supporto inglese che fino a quel momento era mancata. Ancora una volta però Grey spiego che “la Francia doveva prendere le sue decisioni senza fare assegnamento su un aiuto che non siamo in grado di prometterle” e aggiunse, piuttosto velenosamente, che dopotutto Parigi, contrariamente a quanto era avvenuto durante le crisi marocchine, era adesso spinta in un conflitto in ragione della sua alleanza con la Russia, alleanza di cui Londra non faceva parte e non conosceva i dettagli. Facile immaginare quale effetto dovettero avere queste parole su Cambon, che all’Entente aveva dedicato praticamente tutta la sua carriera diplomatica, spingendolo a ricordare al ministro inglese che, in base all’accordo navale del 1912, la Francia aveva spostato tutta la sua flotta nel Mediterraneo lasciando indifese le sue coste a Nord dietro garanzia di una loro difesa da parte inglese; almeno per quanto riguardava questo Londra aveva un obbligo morale a garantire la Francia! Grey tentò di aggirare l’ostacolo, ma infine dovette ammettere che riguardo alle coste la materia era diversa e che avrebbe portato la questione al successivo consiglio dei ministri. Nonostante questa piccola rassicurazione Cambon si sentì schiantato dall’esito della conversazione con Grey e andò a sfogare tutta la sua frustrazione nell’ufficio del sottosegretario permanente degli esteri Arthur Nicolson, fervente sostenitore dell’Entente e suo amico. Il racconto fatto dal figlio di Nicolson è che Cambon sarebbe entrato nella stanza bianco come un cencio e, lasciatosi andare su una poltrona, iniziò a dire “Volete abbandonarci!” e si chiese se la parola onore avesse ancora un senso a Londra; Nicolson si sarebbe precipitato da Grey chiedendogli se era vero che intendeva non supportare Parigi e, ricevuto per risposta un “gesto di disperazione”, esclamò “Voi ci renderete lo zimbello delle nazioni!”. Per quanto il racconto faccia apparire il momento come altamente drammatico, in realtà già quella sera la porzione interventista del governo si attivò per fare in modo che, quantomeno in merito alla difesa delle coste francesi, venisse dato seguito alle garanzie date nel 1912. Allorché infatti alle 23:15 giunse notizia della dichiarazione di guerra tedesca alla Russia Churchill comunicò a Grey ed Asquith che era sua intenzione, senza chiedere il preventivo consenso del governo, proclamare immediatamente la mobilitazione della flotta. Non si trattava di una scelta radicale dato che, va ricordato, proprio in quei giorni la Royal Navy era impegnata in una serie di manovre e Churchill aveva già dato l’ordine che, alla conclusione di queste, la flotta dovesse restare concentrata per potersi mobilitare in tempi rapidi; rimane il fatto che all’1:25 del 2 Agosto Churchill, appena rientrato all’ammiragliato, trasmise l’ordine di mobilitazione. Con ormai la guerra europea divenuta una realtà era inevitabile che il 2 Agosto divenisse il giorno in cui i due schieramenti, interventisti e neutralisti, giungessero al confronto finale. Quella mattina Asquith ricevette il messaggio dei conservatori che abbiamo visto primo e, forte di questa promessa di sostegno politico, si recò alla riunione di governo convocata per le 11:00 con ormai un preciso programma politico in mene: a suo giudizio, sebbene sicuramente non esistesse alcun obbligo giuridico per il Regno Unito a schierarsi al fianco di Parigi e Pietroburgo, l’interesse inglese era che la Francia non fosse cancellata come grande potenze, la neutralità del Belgio non fosse violata e che la flotta tedesca non acquisisse possibili basi nella Manica. Grey mise subito sul tappeto le due questioni del Belgio e delle coste francesi; il responsabile della diplomazia inglese mise in chiaro che se fosse passata la linea del non intervento in qualsiasi caso, anche solo a garanzia delle coste francesi, lui si sarebbe dimesso ed Asquith fece intendere che sarebbe stato con lui solidale provocando la caduta del governo. Churchill scrisse che a pranzo sembrava di essere a un passo dalla dimissione della maggioranza neutralista, ma invece infine si raggiunse un compromesso in base al quale Grey veniva autorizzato a riferire a Cambon che, per quanto atteneva alle coste francesi, il Regno Unito avrebbe adempiuto ai suoi doveri. L’unico a dimettersi fu il ministro del commercio John Burnes mentre il pacifista radicale Morley si schierò a favore della dichiarazione in quanto: ammetteva in questo caso l’esistenza di un obbligo verso Parigi e non considerava opportuno che la Manica si trasformasse in un campo di battaglia tra le flotte francesi e tedesche. Probabilmente a muovere Morley verso quel passo, che per Burnes era solo un altro del lento percorso che gli interventisti stavano compiendo per portare in un modo o nell’altro il paese in guerra, fu il timore di provocare una scissione nel partito liberale, scissione che avrebbe portato a un nuovo governo pro-guerra formato da liberali interventisti, conservatori e unionisti. Morley inoltre, al contrario di Burnes, dubitava che davvero la maggioranza dei ministri neutralisti si sarebbe dimessa in massa capitanata da Lloyd George qualora Asquith e Grey avessero chiesto ulteriori aperture verso l’intervento. Il consiglio dei ministri si aggiornò alla serata per discutere della questione del Belgio e Grey poté comunicare a Cambon che le coste francesi sarebbero state protette dalla Royal Navy. L’ambasciatore di Parigi, che in mattinata aveva avuto un altro deludente colloquio con il ministro in merito alla già avvenuta violazione tedesca della neutralità del Lussemburgo, dovette tirare un respiro di sollievo perché, sebbene restassero ancora questione incerte sul tavolo (l’atteggiamento verso il Belgio e se gli inglesi avrebbero inviato il promesso corpo di spedizione in Francia come da accordi tra gli stati maggiori) quantomeno “un grande paese non può fare la guerra a metà: dal momento che era deciso a farla per mare, era fatalmente condotta a farla anche per terra.”. Il governo tornò a riunirsi alle 18:30 e Grey riferì che a suo parere era necessario che il giorno dopo, in parlamento, si facesse un’esplicita affermazione sul fatto che il rispetto della neutralità belga era da considerarsi per il Regno Unito una condicio sine qua non della sua permanenza fuori dalla lotta europea. Durante la riunione non venne deciso alcun testo ufficiale per questa dichiarazione, ma, a sorpresa, la maggioranza neutralista collassò da sé convenendo che, una violazione sostanziale della neutralità belga, avrebbe posto il paese in quella situazione contemplata da Gladstone nel 1870 come obbligante ad un intervento. Anche la foglia di fico della violazione sostanziale era di poco conto in quanto già il 1° Agosto, a domanda specifica, il Belgio aveva comunicato che, in caso di violazione della sua neutralità, avrebbe resistito con le armi e se il Belgio resisteva, chiedendo aiuto per questa sua difesa, poco avrebbe contato che i tedeschi avessero invaso l’intero paese o solo la porzione a sud della Mosa ( che da alcuni nel governo era vista come una violazione “accettabile”). Di fatto oltre a Burnes, che confermò le sue dimissioni, l’unico a rimettere l’incarico fu Morley, sebbene fu convinto da Asquith a dormirci sopra, mentre il resto dei neutralisti, David Lloyd George in testa, sembrarono tutti aver abbandonato i propositi battaglieri. Come mai questo repentino cambiamento d’opinione? La maggioranza dei commentatori dell’epoca e degli storici ritiene che ciò sia spiegabile con il rapido evolversi dell’orientamento dell’opinione pubblica a favore dell’intervento nella giornata del 2 Agosto. Lo stesso Lloyd George ricordò “le folle bellicose che pigiavano Whitehall e si rovesciavano in Downing Street , mentre il gabinetto discuteva sull’alternativa di pace o guerra…. si formarono assembramenti davanti a Buckingham Palace; fu cantato God save the King, ed i sovrani dovettero affacciarsi ai balconi fra acclamazioni, mentre sotto l’ambasciata francese risuonavano gli accenti della Marsigliese.” insomma la febbre della guerra stava travolgendo anche il Regno Unito spazzando via le preoccupazioni della City sugli effetti economico-commerciali di un conflitto. Frattanto a Berlino Bethmann-Hollweg e tutto il personale diplomatico, che leggendo i rapporti di Lichnowsky si illudevano fosse ancora possibile tenere la Gran Bretagna neutrale, tentarono in tutti i modi di affievolire la portata dell’ultimatum al Belgio che sarebbe stato consegnato di lì a poco ore. Per prima cosa venne inviato un telegramma con cui si tentava di giustificarlo con gli stessi argomenti presentati al governo di Bruxelles: il Reich aveva notizie certe che la Francia avesse per prima intenzione di violare la neutralità belga. Si trattava però di una tesi che, se già era difficilmente sostenibile presso i belgi, era assolutamente impresentabile agli inglesi in quanto, e lo abbiamo visto, i piani di guerra francesi erano stati elaborati insieme con lo stato maggiore britannico per cui Grey era perfettamente al corrente che il Plan XVII non contemplava in nessun modo un’avanzata attraverso il Belgio. Più sensato fu invece il messaggio spedito il mattino del 3 con cui si tentava di mettere le mani avanti e promettere che, fintanto che la Francia avesse fatto lo stesso, la flotta tedesca né sarebbe entrata nella Manica né avrebbe usato le coste del Belgio come base per azioni offensive. La promessa, sebbene andasse incontro a quanto deciso dal governo inglese in merito alla protezione delle coste francesi, era ormai superata nei suoi effetti dalle determinazioni che si stavano maturando nelle stesse ore in merito alla garanzia del Belgio. Alle 11:00 del 3 Agosto si ebbe infatti una nuova riunione di gabinetto e Asquith vi giunse dopo aver avuto in incontro cin i leader conservatori i quali gli ripeterono a voce quanto già detto nella lettera del giorno prima; sicuro ormai di avere i “numeri” per un intervento in caso di violazione della neutralità belga, Asquith si preoccupava adesso di tenere quanto più possibile unito il governo e il suo partito. Oltre a Burnes e Mosley si era dimesso anche il ministro della giustizia Simon e il ministro del lavoro Beauchamp, ma il fronte dei neutralisti stava ormai collassando soprattutto dopo la defezione a favore dell’intervento condizionato di David Lloyd George. Infatti alla fine dell’incontro, durante il quale si decise il contenuto della dichiarazione che Grey avrebbe poco dopo tenuto alla Camera dei Comuni, Simon e Beauchamp cedettero alle pressione di chi gli chiedeva di restare al governo nonostante la loro opinione discorde. Che il governo si fosse ormai indirizzato verso l’intervento lo si intuiva da tutta una serie di piccole azioni che vennero poste in essere quel giorno come ad esempio ordinare a Lord Kitchener, il più rispettato generale inglese nonché Console generale in Egitto, di non rientrare nel paese del Nilo, ma di restare a Londra in attesa dello sviluppo degli eventi; sarebbe divenuto di lì a due giorni ministro della guerra. Alle 15:00 si aprì la sessione della Camera dei Comuni, ormai tutti sapevano che la Germania aveva inviato un ultimatum al Belgio in cui veniva chiesto di consentire il passaggio delle truppe tedesche verso la Francia, ma il discorso tenuto da Grey fu alquanto prudente, tenuto anche conto della determinazione che ormai si era raggiunta nel governo. Il ministro degli esteri la prese alla lontana ricostruendo tutta la storia dell’Entente e spiegando il significato che di essa era sempre stato dato dal governo; tutto questo excursus serviva a ripetere ancora una volta che il Regno Unito non era vincolato da nessun accordo a schierarsi, in caso di guerra, al fianco della Francia anche se, e qui Grey fu invece innovativo rispetto alle giornate precedenti, non si poteva negare che Parigi era stata trascinata all’interno di una guerra da essa non voluta. Detto ciò Grey passò ad informare i Comuni di ciò che il governo aveva deciso in merito alle coste francesi e al Belgio. Rispetto alla prima questione il ministro non si appellò semplicemente al trattato navale anglo-francese del 1912, ma fece una precisa analisi dell’interesse strategico britannico: non solo non era opportuno che la Manica divenisse un campo di battaglia, ma se Parigi avesse richiamato le sue forze dal Mediterraneo, Londra avrebbe dovuto di conseguenza inviare parte della sua flotta in questo mare per tutelare gli interessi inglesi, con la conseguenza di disperdere la Royal Navy proprio nel momento in cui l’Europa entrava in guerra. Anche riguardo al vero nodo gordiano, il Belgio, la perorazione di Grey partì da lontano e cioè da quello che era stato il pensiero di Gladstone nel 1870, per poi riferire di quella che era stata la risposta tedesca alla sua richiesta di garantire la neutralità belga nonché del telegramma che re Alberto aveva inviato a Giorgio V. Giunto dunque all’implicita domanda del che fare? la risposta del ministro fu “No, l’indipendenza del Belgio è finita se essa deve cedere a qualcosa di simile a un ultimatum che gli chieda di transigere o di rompere la sua neutralità dietro qualsivoglia compenso.”, aggiungendo poi che se il Belgio fosse stato violato e la Francia sconfitta di seguito sarebbero finite nell’orbita tedesca anche l’Olanda e la Danimarca mettendo così in crisi quell’equilibrio continentale che da secoli era la pietra angolare della politica estera inglese. Concludeva dunque Grey che la Camera aveva sole due opzioni davanti a sé: confermare la difesa delle coste francesi e la garanzia della neutralità del Belgio oppure scegliere la strada di una neutralità incondizionata facendo però perdere al paese non solo la sua reputazione, ma anche la sua posizione tra le potenze mondiali. Si trattò di un discorso non incendiario e in cui comunque Grey rimise alla coscienza dei singoli deputati il decidere se esistesse o meno un dovere morale inglese di aiutare la Francia. Poco prima di concludere il suo discorso Grey colse un importante assist a sostegno delle sue tesi leggendo ai Comuni il rifiuto ufficiale che Bruxelles aveva espresso in merito alle richieste tedesche. Ci si può domandare perché di questo contegno dato quanto si era deciso nelle sedute di governo dei giorni precedenti; per Albertini di fondo Grey era ancora timoroso rispetto alla responsabilità che si stava assumendo e si illudeva vi potesse essere ancora spazio di manovra per schivare la catastrofe, per altri storici il ministro non volle calcare troppo la mano per non creare troppa pressione sulla maggioranza liberale che, in buona parte, era ancora dubbiosa se non contraria all’intervento; non a caso il ministro negò che fosse intenzione del governo inviare un corpo di spedizione in Francia, nonostante ciò fosse previsto dagli accordi tra lo stato maggiore britannico e quello francese. A giudizio di molti osservatori dell’epoca fu però proprio questa pacatezza a convincere la Camera che non esisteva alternativa all’intervento; ad esempio un liberale anti-interventista come Christopher Addison scrisse in seguito che questo discorso “convinse, penso, tutta la camera, forse con due o tre eccezioni, che eravamo costretti ad intervenire.”. L’unico che invece non parve intendere subito quale portata aveva avuto il discorso di Grey fu l’ambasciatore tedesco Lichnowsky il quale, leggendone un breve riassunto, ritenne invece che il governo inglese fosse orientato per la neutralità; solo il giorno dopo, ricevuta la versione intera, si avvide del suo reale tenore e telegrafò a Berlino che “Non credo possiamo contare per lungo tempo sulla neutralità dell’Inghilterra.”. Forse Lichnowsky fu in parte ingannato anche dall’inattività del governo subito dopo il discorso ai Comuni; infatti invece di inviare un’immediata ingiunzione alla Germania affinché non violasse la neutralità belga, come sarebbe stato sensato fare sia in base a quanto Grey aveva detto sia perché in quel momento Berlino non si era ancora mossa, si lasciò trascorrere tutta la restante giornata del 3 nella più completa inazione. Solo alle 9:30 del 4 Agosto si inviò a Berlino una nota in cui si affermava “il governo inglese è costretto a protestare contro la violazione di un trattato di cui la Germania è firmataria insieme all’Inghilterra, e deve domandare l’assicurazione che la richiesta rivolta al Belgio non avrà corso e che la neutralità belga sarà rispettata dalla Germania.” né nei toni né nel formato questo telegramma poteva essere inteso come un ultimatum in grado, eventualmente, di smuovere il Reich dai suoi intenti. Probabilmente fu questo messaggio così “debole”, unito con le iniziali rassicurazioni di Lichnowsky, a spingere Bethmann-Hollweg a tentare un’ultima captatio benevolentiae esprimendo con assoluta sincerità quella che era la situazione della Germania: lasciando perdere la storiella dei francesi che per primi avevano attacco il Belgio, il cancelliere mandò un telegramma in cui ammetteva che la violazione della neutralità del Belgio era una imprescindibile necessità militare dovuta al fatto che la Germania si trovava a combattere contemporaneamente ad est ed ad ovest per cui “la nostra non era una violazione intenzionale del diritto delle genti, ma l’atto di un uomo che combatte per la sua vita”. Questo telegramma non raggiunse mai Grey perché Lichnowsky, il quale vedeva quale enorme impressione sull’opinione pubblica aveva provocato l’ultimatum a Bruxelles, ritenne sarebbe stato catastrofico far cadere la foglia di fico del fatto che i francesi si fossero mossi per primi, ammettendo che Berlino stava scientemente camminando sopra un trattato internazionale da essa sottoscritto. Frattanto il ministro degli esteri agiva in linea col contenuto del suo discorso inviando messaggi alle sedi diplomatiche inglesi in Belgio, Olanda e Danimarca perché si comunicasse a quei governi che, se la Germania avesse tentato di imporre loro l’uscita dalla neutralità, Londra si aspettava una loro resistenza con ogni mezzo offrendo sin da ora pieno supporto in accordo con la Francia e la Russia. Grey in seguito tentò di revocare questo telegramma e il motivo fu che, probabilmente, avendo ricevuto la conferma che i tedeschi erano entrati in Belgio egli era deciso a inviare un ultimatum alla Germania indipendentemente da quale fosse stato il reale contegno tenuto da Bruxelles di fronte all’invasione. Questo è un punto importantissimo il governo inglese decise per l’ultimatum alla Germania ancora prima di sapere se il Belgio chiedesse ufficialmente assistenza per difendere la propria neutralità violata; ciò voleva dire che per Londra la neutralità belga andava tutelata volente o nolente lo stesso desiderio di Bruxelles. A nulla servirono gli ultimi disperati appelli partiti da Berlino con la promessa solenne che non era intenzione del Reich annettersi alcun territorio belga o che la violazione della neutralità non si sarebbe estesa all’Olanda; alle 14:00 del 4 Agosto Grey inviò all’ambasciatore inglese a Berlino Goschen il testo dell’ultimatum nel quale si affermava che, se Berlino si fosse ancora rifiutato di dare garanzie in merito al rispetto della neutralità del Belgio, “Voi chiederete i vostri passaporti, e direte che il governo di S.M. si sente costretto a prendere tutte le misure in poter suo per sostenere la neutralità del Belgio e l’osservanza di un trattato, di cui la Germania è parte non meno di quanto lo siamo noi.”. La richiesta ufficiale di assistenza avanzata dal governo belga alle potenze garanti quasi nello stesso tempo servì solo a irrobustire, presso l’opinione pubblica e i Comuni, la legittimità di una decisione già presa. A Berlino Goschen già in mattinata aveva ricevuto dal ministro degli esteri tedesco Jagow un netto no alla possibilità che il Reich recedesse dalle sue intenzioni e, a dimostrazione della confusione in cui ormai si muoveva la classe politica tedesca, il ministro ammise di nuovo che la violazione del Belgio avveniva per necessità militari proprio nello stesso momento in cui al Reichstag il cancelliere gabellava ancora una volta la favola della risposta all’aggressione francese. Il testo dell’ultimatum giunse a Goschen nel tardo pomeriggio e alle 19 questi tornò da Jagow per trasmetterglielo specificandogli il termine della mezzanotte per avere una risposta; il ministro tedesco disse chiaramente che non importava quanto tempo Londra desse al Reich per avere una risposta, “fossero anche ventiquattro le ore concesse la risposta sarebbe sempre la stessa.”. Di fronte a ciò Goschen non poté far altro che chiedere i passaporti e prendere congedo da Jagow che espresse tutto il suo rammarico per il crollo della sua politica di amicizia verso il Regno Unito. Lasciato il ministero degli esteri l’ambasciatore inglese si recò anche da Bethmann-Hollweg e qui si verificò uno degli eventi più celebri della crisi di Luglio; il cancelliere infatti, vivamente emozionato per la situazione, tenne un’agitata arringa a Goschen pronunciando la fatal frase “avete preso una decisione terribile solo per la parola “neutralità”, una parola che in tempo di guerra era stata spesso trascurata; solo per un pezzo di carta la Gran Bretagna si accinge ad attaccare una nazione consanguinea che solo desiderava di essere sua amica.”. La gaffe del “pezzo di carta” fu il perfetto epitaffio della sconclusionata conduzione della crisi di Luglio da parte del governo tedesco; con tre sole parole Bethmann-Hollweg aveva cagionato al suo paese un danno presso l’opinione pubblica mondiale paragonabile alla sconfitta in una battaglia. Il prestigio della Germania non si riebbe mai da quella frase che confermò nelle menti di molti l’immagine di un paese militarista, presuntuoso e aggressivo che considerava il diritto internazionale come un fastidio da scasare quando occorreva. La notizia che Goschen aveva chiesto i passaporti giunse a Londra alle 21:00 attraverso l’intercettazione di un messaggio diretto a Lichnowsky e fece tramontare le ultime, flebile, speranze di quei pochi ministri che ancora si illudevano che Berlino non avrebbe davvero scelto la follia di provocare una guerra con il Regno Unito. Nonostante questa conferma a Londra si rimase per tre ore nell’incertezza se si fosse già in guerra con la Germania o se bisognasse attendere la scadenza del termine dell’ultimatum; in un’attesa forse dettata dalla speranza di un miracolo o forse per l’incertezza di come muoversi il governo rimase seduto aspettando che il Big Ben facesse “risuonare nella notte i rintocchi dell’ora più fatale per la Gran Bretagna” come scrisse Lloyd George. Non Appena furono le ventitré Churchill diede alla flotta l’ordine di iniziare subito le manovre di guerra, nella speranza di intercettare il Goeben nel Mediterraneo, mentre Grey inviava Nicolson a consegnare la lettera preventivamente preparata per Lichnovsky “La comunicazione fatta a Berlino avendo avuto per risultato la richiesta dei passaporti da parte dell’ambasciatore di S.M., ho l’onore di informare l’E.V. che, in conformità ai termini della notificazione fatta oggi al governo tedesco, il governo di S.M. considera che dalle 11 p.m. di oggi esiste stato di guerra fra i due paesi.”.
Con la dichiarazione di guerra inglese alla Germania alla mezzanotte del 4 Agosto si chiude la storia della crisi di Luglio e inizia quella della Grande Guerra. In realtà ci potrebbero essere ancora molti argomenti di un certo interesse da approfondire come il percorso italiano verso la dichiarazione di neutralità o le posizioni assunte progressivamente da paesi come la Bulgaria, la Romania, la Grecia, l’Impero Ottomano, gli Stati Uniti, il Giappone e via dicendo. Per quanto interessanti queste vicende non ebbero un effetto diretto sull’evolversi della crisi di Luglio per cui, essendo già questa serie molto lunga, ho deciso di non inserirle rimandandole invece a delle possibili future addende. Alla conclusione di questa lunga ricostruzione dei rapporti tra gli stati europei tra la fine dell’ottocento e il Luglio-Agosto del 1914 mi sento di confermare l’affermazione che feci nell’introduzione al primo articolo di questa rubrica: nessun paese può essere considerato colpevole o esente da colpe rispetto allo scoppio della Grande Guerra. Per quanto non si può negare che la condotta tedesca durante la crisi di Luglio fu gravida di conseguenze credo di aver ampiamente messo in luce che responsabilità altrettanto pesanti sono da attribuire a Pietroburgo, Parigi, Vienna, Belgrado e Londra. Certo si può dire “se la Germania non avesse concesso il suo assegno in bianco all’Austria” o “se il cancelliere non avesse ceduto ai militari accettando l’inevitabilità del piano Schlieffen”, ma se vogliamo essere intellettualmente onesi allora vanno posti sui piatti della bilancia una serie di altri se: “se Belgrado avesse risolutamente agito per evitare l’attentato di Sarajevo”, “se la Russia non avesse incoraggiato la Serbia a resistere all’ultimatum di Vienna”, “se Vienna non avesse ritenuto che solo un ultimatum irricevibile fosse l’unica soluzione al suo problema di stabilità interna”, “se Poincaré a Pietroburgo non avesse garantito il supporto francese a qualsiasi iniziativa la Russia avesse intrapreso”, “se Grey avesse sin da subito messo in chiaro con Berlino che era irrealistico sperare che la Gran Bretagna restasse in disparte in caso di guerra” e infine “se Sazonov e lo Zar avessero resistito quando i militari insistettero perché fosse proclamata la mobilitazione generale contro Austria e Germania”. Tanti se, a cui andrebbero aggiunti poi tutti gli altri se di quasi vent’anni di rapporti tra le potenze europee, che mostrano come ogni paese diede la propria fondamentale picconata all’edificio già fragile della pace europea. La verità è che il 28 Giugno 1914 il treno dell’Europa era già lanciato vero il precipizio e, probabilmente, se anche non ci fosse stato l’attentato la guerra sarebbe comunque scoppiata per qualche altra ragione un paio di mesi e di anni dopo. Come ho più volte scritto i protagonisti di quei drammatici giorni di Luglio non agivano solo sulla base di ciò che stava accadendo, ma anche sulla base della memoria di ciò che era accaduto nelle varie crisi precedenti che avevano avvelenato l’Europa. Si può dire che ogni crisi fosse stata come un tiro alla fune dove qualcuno alla fine aveva mollato la presa rammaricandosi però di non aver resistito un secondo di più e promettendosi che, la volta dopo, avrebbe tenuto duro più a lungo; così al tiro alla fune finale del Luglio-Agosto 1914 nessuno dei due schieramenti volle mollare la prese e, quando si accorsero che la corda stava per rompersi, ritennero di essersi spinti troppo avanti per dare all’altra parte partita vinta senza con ciò pregiudicare il proprio prestigio e la propria posizione tra le grandi potenze. Da laureato in giurisprudenza mi sento di affermare che tutte le parti coinvolte furono colpevoli per quello che viene chiamato dolo eventuale: nessuna di loro voleva la guerra europea, ma ognuna di loro era pronta ad accettarla come eventuale realistico risultato della propria condotta.
Bibliografia:
- Luigi Albertini, Le origini della Grande Guerra Vol. 3
- Christopher Clark, I sonnambuli – Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra
- Margaret MacMillan, 1914 – Come la luce di spense sul mondo di ieri
- Barbara Tuchman, I cannoni d’Agosto
Lorenzo
23 Dicembre 2017Emozionante.
Non per puntiglio ma
“Goschen Ambasciatore inglese a Londra”?
carlo valmori
12 Gennaio 2018Quand’è che ci fai la puntata sull’entrata in guerra dell’Italia 🙂
Eduardo D'Amore
13 Gennaio 2018L’entrata in guerra dell’Italia potrebbe essere un “appendice”, ma per adesso la serie sulle origini della grande guerra è conclusa