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Restorica risponde

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Adriano Pecere mi chiede:  Sarebbe interessante un’analisi del periodo risorgimentale italiano, della mancanza di un’identità nazionale, sempre attuale.

C’è una frase di Pasquale Villari che ho sempre ritenuto la migliore sintesi possibile del Risorgimento: “Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e di 5 milioni di Arcadi.”. Il processo unitario poteva svolgersi in due modi: alla maniera di Cavour quindi dall’alto, istituzionale, mediato dall’intervento delle grandi potenze europee e legando i destini dell’intera penisola con quelli del piccolo stato sabaudo; oppure alla maniera di Mazzini e quindi rivoluzionaria, repubblicana e con il popolo come protagonista. Certamente l’Italia sognata da Mazzini sarebbe stata molto più “bella” rispetto a quella ottenuta da Cavour, ma a Mazzini mancò sempre il materiale umano per poterla ottenere. Il fondatore della “Giovane Italia” aveva come modello quello della rivoluzione francese, ma questa non era stata solo il pensiero dei philosophes e la retorica di Danton e Robespierre bensì anche il popolo di Parigi che assalta la Bastiglia, marcia su Versailles, massacra la guardia svizzera all’esterno delle Tuileries e forza spesso la mano ad un’Assemblea Nazionale incerta, nonché le colonne della Guardia Nazionale che affrontano i nemici interni ed esterni della rivoluzione da Valmy alla Vandea. Il Risorgimento fu invece essenzialmente un’operazione di un’elité alto-medio borghese e aristocratico liberale che incontrò l’elemento popolare solo in circostanze specifiche (i moti del ’48, la Repubblica Romana e, in parte, nella spedizione dei Mille) guardandolo però con diffidenza e senza mai incoraggiarne l’assunzione di un ruolo attivo e costante nella gestione del processo insurrezionale (non si ebbero mai in Italia i sanculotti). Per questo ebbe ragione Gramsci quando affermò che il Risorgimento fu in sostanza un matrimonio di interessi tra la borghesia pre-industriale del Nord e gli agrari sparsi ancora per tutta la penisola. A scoraggiare però la partecipazione popolare al processo unitario fu però anche l’assenza di un diffuso sentimento d’identità nazionale legato al fatto che l’Italia era un paese in ritardo rispetto al resto d’Europa socialmente, economicamente e culturalmente. Un ritardo che, a mio parere, aveva le sue radici nell’avvizzimento  intellettuale seguito al Rinascimento a causa della peggior dominazione straniera che poteva capitare, quella spagnola, e di una chiesa terrorizzata dalla Riforma. Così per oltre due secoli gli intellettuali italiani preferirono essere cortigiani nella sicurezza della stilisticamente perfetta, ma innocua, Arcadia invece che arrischiarsi a incoraggiare la nascita di un pubblico fuori dalla corte come fecero Moliere in Francia o Swift in Inghilterra.  Senza un pubblico cui rivolgersi l’illuminismo italiano si limitò a suggerire al trono la via per la riforma, ma non ebbe mai l’ardire di criticare alla radice il sistema come fecero Voltaire, Rousseau o Paine.   Non è da sottovalutare il fatto che solo con Manzoni l’Italia ebbe una lingua che si proponesse come unitaria quando invece in Germania, pur in una situazione politica simile alla nostra, i tedeschi avevano una base linguistica comune sin dal cinquecento con la Bibbia di Lutero. Questa assenza della creazione di una base culturale generale che accomunasse tutti gli italiani fece in modo che nell’ottocento il senso di appartenenza ad una Nazione in potenza fosse propria solo di una minoranza colta priva della forza d’urto di una massa popolare da chiamare a raccolta per sfidare l’Impero asburgico ed imporre all’Europa un’Italia una, libera e repubblicana come sognata da Mazzini. Ecco perché si ebbe il paradosso meravigliosamente messo in luce da D’Azeglio di un’Italia fatta prima ancora di aver fatto gli italiani. Per l’Italia di Mazzini ci sarebbe prima voluto di fare gli italiani il che però avrebbe richiesto almeno un secolo di educazione politica e culturale da parte di una classe intellettuale più audace. Lo Stato unitario, consapevole di questo gap socio-cultuale, cercò di dare unità anche alla popolazione un po’ provando di piemontesizzare il paese, un po’ tramite la ricerca di una vittoria militare che, fino alla guerra di Libia, latitò. Di fondo il fascismo fu anche la reazione di una generazione priva di un’identità nazionale precisa, che cercò di trovarla nella trincee della Grande Guerra e che, una volta concluso il conflitto, si ritenne legittimata a pretendere la guida del paese per sanare quelle storture post-unitarie cui lo Stato liberale non era stato in grado di porre rimedio.

Pippo Middleton mi chiede: Sarei curioso di sapere quanto c’è di storicamente vero in merito alle presunte collaborazioni tra le corporations americane e il Terzo Reich. Si tratta di accuse che periodicamente vengono divulgate su libri e riviste, ma non sono in grado di discernere se è sensazionalismo o se c’è un fondo di verità.

Che il regime nazista abbia goduto, almeno fine allo scoppio del conflitto mondiale, di molte simpatie tra le classi medio-alte degli Stati Uniti è indiscutibile. Walt Disney, Henry Ford ed Charles Lindbergh, solo per citare alcuni dei nomi più in vista, espressero più volte anche pubblicamente la loro ammirazione per Hitler e per i risultati conseguiti dal nazismo in Germania. In particolare Ford contribuì al riarmo dell’esercito tedesco e versò regolarmente contribuiti in denaro nelle casse del NSDAP.  Tutto ciò però non va sovrastimato fino a giungere a supporre forme di collaborazionismo tra le grandi industrie americane e il Terzo Reich a danno della causa alleata. Anzi fu più che altro nel Regno Unito che, almeno fino al 1942, ci furono settori in particolare dell’aristocrazia che tentarono di favorire un’accordo di pace tra Londra e Berlino in funzione magari di una futura collaborazione tra i due paesi (in questo senso va letto tanto il volo di Hess quanto l’esilio di fatto del Duca di Winsor precedentemente re Edoardo VIII). Per capire il motivo di questi comportamenti va in primo luogo considerato che, agli occhi di molti americani ed inglesi, Hitler si presentava come il baluardo contro il bolscevismo, che era visto come il vero nemico di cui avere paura. L’URSS era ancora considerata la centrale internazionale della rivoluzione e dunque personaggi come Hitler o Mussolini, che si fregiavano del titolo di salvatori dei loro paesi dalla minaccia rossa, erano guardati con grande rispetto, tenuto anche conto che, soprattutto nei paesi anglosassoni, si era convinti che non tutti i popoli europei fossero adatti ad essere governati da regimi democratici. Ancora va ricordato che il Terzo Reich si preoccupò molto di dare all’estero un’immagine positiva di sé: Speer con i suoi progetti faraonici, Goebbels con i suoi teatrali raduni pubblici e Leni Riefenstahl con i suoi film mostravano una Germania aitante, completamente diversa da quella degli anni super-inflazione della repubblica di Weimar. Il punto di arrivo di questa politica dell’apparenza furono le Olimpiadi di Berlino, sontuosamente organizzate per esaltare la nuova Germania nazionalsocialista, che incantarono gli osservatori  giunti da tutto il mondo. Ovviamente l’immagine di un paese così rinnovato in positivo faceva un grande effetto, in particolar modo lì dove la grande depressione mordeva ancora esacerbando le tensioni sociali. C’erano poi anche ragioni di mera convenienza economica. La Germania restava sempre la prima potenza industriale dell’Europa, la cura nazista aveva rivitalizzato l’economica tedesca e la distruzione delle libertà sindacali rendevano il paese un luogo proficuo presso cui investire. Certo si può dire che c’era il discrimine delle leggi razziali, ma l’antisemitismo era all’epoca molto più diffuso e socialmente accettato rispetto ad oggi, per cui, cinicamente, si poteva argomentare che solo perché di tanto in tanto la Germania si metteva le dita nel naso non era un morivo sufficiente per smettere di fare affari con Berlino (tenuto anche conto che il rapido riarmo voluto dal nazismo creava lo spazio per dei profittevoli contratti). L’olocausto infatti era ancora lontano e il Terzo Reich era “solo” un paese segregazionista con una legislazione non troppo dissimile da quella vigente in molti stati del sud degli Stati Uniti. Insomma i grandi gruppi industriali e affaristici americani guardavano con favore al regime nazista sia per ragioni economiche che per simpatia. Tutto ciò però cambiò dopo Pearl Harbour. Dopo l’ingresso in guerra anche chi era stato tra i più fermi sostenitori della neutralità ad oltranza americana, si schierò completamente a favore dello sforzo bellico. I grandi gruppi industriali non frapposero alcun ostacolo alla conversione delle loro fabbriche alle esigenze dell’economia di guerra e senza il loro pieno supporto sarebbe stato impossibile fornire alle forzate armate americane e alleate il materiale di cui avevano bisogno per combattere. Di fatto la gestione pubblica sull’organizzazione della produzione fu volutamente fu minima e limitata solo alla programmazione generale, mentre fu lasciato che fossero le singole imprese, sulla base della loro esperienza nell’industria civile, a determinare le modalità per raggiungere gli obiettivi. L’esempio migliore di ciò è proprio Ford che, sebbene come abbiamo detto avesse fortemente appoggiato il nazismo, non appena la guerra scoppio non solo mise le sue fabbriche a disposizione della produzione di armamenti, ma lottò molto per imporre la sua idea che i giganteschi bombardieri B-24 non andassero costruiti un pezzo qui e un altro lì, come i tecnici governativi sostenevano, bensì dovessero essere assemblati su un’unica “catena di montaggio” così come si faceva per le automobili. Ford a tal scopo comprò di tasca sua un terreno fuori Detroit dove costruì un’immensa struttura atta allo scopo e grazie all’applicazione della standardizzazione della produzione già nel 1943 si consegnavano dieci bombardieri al giorno. Per cui, come si vede, qualsiasi simpatia per il nazismo venne immediatamente messa da parte in favore del pieno sostegno allo sforzo bellico senza alcun tentativo di sabotarlo o di rallentarlo per favorire il nemico. Le ragioni di ciò credo vadano ricercate nello shock nazionale che rappresentò Pearl Harbour, che compattò l’opinione pubblica americana contro l’Asse, e forse anche nel timore per l’FBI di Hoover, che subito dopo l’ingresso in guerra iniziò ad operare per rimuovere tutti quei gruppi che fossero anche solo sospettabili di collaborazionismo.

Giuseppe Cammarano mi chiede: quanto è stata importante l’opera storiografica di Eric J. Hobsbawm per la tua formazione?

Il pensiero di Hobsbawm in materia di “breve secolo XIX” e “secolo breve” è stato, insieme a quello di Nolte in materia di “guerra civile europea”, la base dalla quale sono partito per giungere all’idea della seconda guerra dei trent’anni, altra terminologia di Hobsbawm, e dunque a quella dei conflitti finali come esito delle crisi geopolitiche. Il suo approccio sistematico allo studio dell’ottocento e del novecento europeo, che giustamente lui considera un tutt’uno consequenziale dal 1789 al 1945, è fondamentalmente il  modello di analisi storiografica che seguo anche io. Ciò su cui invece mi sento più distante da Hobsbawm è l’attenzione che dedica, in ragione delle sue radici marxiste, all’influsso degli elementi socio-economici sullo sviluppo degli eventi; come credo che appaia evidente dai miei articoli io prediligo porre l’accetto sugli aspetti politici, ideologici, diplomatici e militari nonché sulla psicologia dei personaggi che hanno mosso gli eventi. In questo forse sono più influenzato dalla visione hegeliana della storia di Croce, da cui ho attinto a piene mani in ambito di metodologia della ricerca e dell’analisi storiografica.

Stefano Lo Passo mi chiede: sarei interessato ad approfondire alcuni aspetti inerenti le rivolte del 1848. In particolar modo capire la posizione dei Borbone di Napoli che sinceramente non comprendo a fondo. Infatti solo pochi anni prima, 1821, una rivolta costituzionalista costrinse la famiglia reale a richiedere l’intervento austriaco per ristabilire il proprio potere assoluto sul meridione, nel 1848 vediamo un corpo di spedizione napoletano partire a sostegno del Piemonte contro l’Austria con a capo il generale Pepe. infine nel 1860 lo stesso Piemonte attacca il regno del Sud. ecco, vorrei sapere se esistono epistole o testimonianze dirette che possano spiegare la linea politica dei Borbone di Napoli.

Purtroppo non sono riuscito a trovare lettere o testimonianze dirette in materia, ma provo comunque a rispondere mettendo insieme gli elementi. Preliminarmente bisogna chiarire che il ribellismo preunitario nel meridione fu di due tipi: un ribellismo costituzionalista nel continente animato principalmente dalla borghesia e un ribellismo autonomista/indipendentista in Sicilia più interclassista, coinvolgendo da settori della nobiltà fino più al popolo. Furono due ribellismi che, per quanto vissero in parallelo, furono spesso in contrasto l’uno con l’altro in quanto i costituzionalisti a Napoli erano poco propensi ad accogliere le istanze autonomiste che giungevano dalla Sicilia. Ciò indebolì sempre l’opposizione all’regime borbonico. Detto ciò va messo in luce che i tre Borboni che si avvicendarono sul trono di Napoli vivendo gli eventi dei moti del 1820 e poi del 1848 ricordavano con chiarezza l’esilio siciliano imposto alla casa reale dall’invasione napoleonica, esilio durante il quale la nobiltà siciliana era riuscita ad estorcere una costituzione per la sola isola che limitava di molto le prerogative del sovrano. Giusto dunque supporre che la memoria di questi eventi avesse determinato in Ferdinando I, Francesco I e Ferdinando II un’istintiva avversione per i costituzionalismi e per ogni forma di rivoluzione liberale che attentasse al loro diritto divino di governare. Avendo però anche visto gli eventi della rivoluzione francese preferivano, come molti altri sovrani europei, prendere tempo piuttosto che arrischiarsi a un muro contro muro nel caso di insurrezioni di ampia portata. In ciò erano aiutati dalle divisioni interne al fronte liberale dove i moderati, che spesso erano la maggioranza, avevano il terrore di mettere in discussione l’istituto monarchico, per cui preferivano comunque sempre dare un’ampia apertura di credito alla buona fede dei sovrani piuttosto che arrischiarsi a avventurarsi in difficili cambi di dinastia o peggio teorizzare repubbliche. Nel 1820-21 la strategia dei Borboni fu proprio questa: prendere tempo facendo ampie concessioni in modo da attendere in momento in cui richiedere l’aiuto della Santa Alleanza per restaurare la monarchia nella pienezza dei suoi poteri. Nel 1848 le cose andarono lievemente diversamente in quanto stavolta la tattica attendista pareva essere resa difficile dalla rivoluzione viennese che aveva fatto venire meno l’architrave della Restaurazione. Ferdinando II, come i suoi predecessori, concesse molto (anche la guerra all’Austria) per quietare gli animi sfruttando però alla prima occasione buona tutte le debolezze del fronte avversario. Infatti, come già detto, Palermo e Napoli giocavano da avversari e ciò gli dava un motivo al sovrano per traccheggiare sulla partenza delle truppe verso il Nord; inoltre i liberali, divisi al loro interno tra moderati e radicali, non erano riusciti ad accattivarsi il supporto delle masse che invece erano molto attenti agli anatemi che iniziarono ad essere scagliati dagli altari subito dopo che Pio IX ebbe ritirato le truppe pontificie dal conflitto con l’Austria. Spezzate le reni ai radicali, che nel Maggio avevano dato inizio ad un’insurrezione suicida, Ferdinando lasciò che i moderati si logorassero da soli certo che, dopo la battaglia di Custoza e la fine dei moti a Vienna, la situazione in Italia stava cambiando ed era solo da attendere il momento migliore per mettere fine all’esperienza costituzionale. Infine in merito all’invasione piemontese del 1860 essa non fu proprio un’invasione, quanto più “un’operazione di polizia” voluta da Cavour per fermare Garibaldi prima che questi potesse tentare di muovere su Roma. Cavour infatti non aveva approvato la spedizione dei Mille, sia perché non riteneva potesse avere successo sia perché valutava l’unione tra Nord e Su Italia una pericolosa fusione a freddo date le differenze sociali ed economiche tra le due realtà. Colto di sorpresa dai successi garibaldini il suo timore divenne quello che se le camicie rosse si fossero dirette a Roma questo avrebbe determinato un’intervento di Napoleone III che avrebbe messo nell’angolo il regno sabaudo: doveva Torino schierarsi con Garibaldi perdendo così l’appoggio della Francia e restando esposta a una ritorsione austriaca oppure doveva appoggiare l’alleato francese squalificandosi di fronte agli occhi di tutti i patrioti della penisola rischiando magari anche la guerra civile? Cavour inviò Vittorio Emanuele a Sud non tanto per finire il regno borbonico, che un po’ tutta Europa dava a questo punto per spacciato, ma per fermare Garibaldi con ogni mezzo come poi avrebbero fatto anche i suoi successori sull’Aspromonte.

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