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Alla ricerca del mito: Schliemann e Evans

Immaginate di avere un eccellente lavoro che vi consente di guadagnare molto bene tanto da poter dire di essere benestanti, quanti di voi rinuncerebbero a questa sicurezza e metterebbero in gioco tutto per inseguire un sogno della propria infanzia? Nel 1868 un uomo lo fece, rischiò tutto quello che aveva ottenuto fino ad allora per mantenere la promessa che si era fatto da bambino correndo dietro al mito di Troia. Inspirato da una fiducia pressoché fideistica nel fatto che i versi di Omero non fossero mera poesia, ma la cronaca dettagliata di un antico conflitto, questo dilettante dell’archeologia iniziò a scavare lungo la costa turca tra lo scherno generale e finì per realizzare una delle più incredibili scoperte della storia. Ovviamente sto parlando di Heinrich Schliemann, il commerciante che dimostrò al mondo non una, ma tre volte, che non sempre il mito è tale e che sollevò la nebbia su quasi un millennio di storia del bacino dell’Egeo. Dieci anni dopo la sua morte il percorso di ricerca da lui iniziato sarebbe stato completato da Arthur Evans che, scavando a Creta, parve anche lui portare alla luce la veridicità di un grande racconto mitologico, quello di Teseo e del Minotauro, ma in realtà determinò una prospettiva completamente nuova riguardo l’evoluzione delle civiltà del Mediterraneo. Oggi voglio portarvi la storia di questi due giganti che, nonostante alcuni metodi di ricerca oggi considerabili quantomeno discutibili, con le loro scoperte hanno rivoluzionato i nostri orizzonti storiografici.

Quella di Schliemann è davvero una vita da romanzo, anzi da favola perché sembra proprio di leggere una favola con tanto di lieto fine e morale positiva alla conclusione: non bisogna rinunciare ad inseguire i propri sogni. Nato il 6 Gennaio 1822  a Neubukow nel  Meclemburgo prussiano, Heinrich, che originariamente si sarebbe dovuto chiamare Julius ma la morte del fratello maggiore lo fece battezzare col nome di questi in suo onore, era figlio di un pastore protestante mentre sua madre era figlia del sindaco di una cittadina vicina. Non era una famiglia agiata, ma il padre di Heinrich era uomo di cultura e non perdeva occasione di intrattenere il figlio con il racconto delle leggende locali e dei miti classici; fu così che il giovane Schliemann venne sin da bambino in contatto con le vicende narrate da Omero di Achille, Ettore, Agamennone e dell’assedio durato dieci anni di quella città ricca e meravigliosa chiamata Ilio. Nelle sue memorie Schliemann riferì che il momento però “di svolta” fu la mattina di natale del 1829 allorché il padre gli regalò la “Storia illustrata del mondo” di Jerrer, scorrendo le immagini del libro lo sguardo del bambino si fissò su un’illustrazione di Enea che, con sulle spalle l’anziano padre, fugge dalla città in fiamme conquistata dagli Achei. La sua fantasia nel vedere quelle mura e quegli edifici di cui il padre tanto gli aveva raccontato si accese, chiese così al genitore “Tutto questo è distrutto, completamente distrutto e nessuno sa dove fosse?” e, alla risposta affermativa di questi, replicò “Non lo credo! Quando sarò grande andrò in Grecia a cercare Troia e il tesoro del re!”. Chi di noi da bambino non ha detto “Da grande farò….”, fantasie innocenti di chi ancora non conosce la vita e probabilmente Schliemann padre dovette sorridere di cuore nel sentire l’affermazione del figli. Fino a quattordici anni Heinrich ebbe un’istruzione normale, frequentando la locale scuola elementare e poi iniziando il liceo, ma nel 1836 le ristrettezze economiche della famiglia lo costrinsero a entrare nel mondo del lavoro facendosi assumere come garzone nella drogheria di Furstenberg. Rimase lì cinque anni e mezzo e raccontò che stava quasi per dimenticare tutti i racconti con cui il padre lo aveva intrattenuto se non ché, un giorno, un mugnaio alcolizzato entrò nella bottega e così, come a volte fanno gli ubriachi, si mise a recitare dei versi in greco antico. Intrigato Schliemann chiese di cosa si trattasse e, saputo che quelli erano i versi dell’Iliade, iniziò a pagare da bere al mugnaio per farsi continuare a cantare quelle parole di cui non capiva niente. Se pensate che a questo punto il nostre eroe, ispirato dalle parole auliche di Omero, lasciò tutto per cercare il modo di inseguire il suo sogno di bambino beh… vi sbagliate. Negli anni successivi Schliemann continuò a lavorare per guadagnarsi da vivere e lo fece in modo avventuroso, ma anche ricco di successo. Le sue vicende ricordano incredibilmente quelle di Paperon de Paperoni come narrate da Don Rosa: nel 1841 viene assunto come mozzo su una nave mercantile che fa rotta da Amburgo verso il Venezuela, ma che dopo quattordici giorni in mare naufragò vicino le coste olandesi. Rimasto nei Paesi Bassi  venne assunto come uscere per un ufficio di Amsterdam, in questo periodo iniziò a studiare le lingue e in due anni imparò francese, inglese, olandese, spagnolo, italiano e portoghese con un metodo da lui ideato che lo stesso Schliemann descrive come in grado di permettergli di “in non più di sei settimane riuscivo a parlare e scrivere correttamente una nuova lingua.”. Proprio le lingue gli permisero di svoltare perché, passato come contabile di una ditta che aveva rapporti commerciali con la Russia, imparò da sé questa difficilissima lingua tramite solo una vecchia grammatica, un vocabolario e una scarsa traduzione del “Telemaco”. Così, dopo sei settimane, Schliemann era uno dei pochi ad Amsterdam che poteva parlare agevolmente con i commercianti russi che giungevano in città per la vendita dell’indaco. Da questo momento fu un crescendo di successi. Nel 1846 la ditta lo spedisce a Pietroburgo e già un anno dopo aveva guadagnato quando bastava per aprire una sua casa di commercio mentre nel 1850 partì per la California dove aprì una banca per i prestiti ai cercatori d’oro che affluivano verso il Pacifico. Il successo fu tale che fu anche ricevuto alla Casa Bianca dal Presidente; rientrato in Russia si sposò con la figlia di un avvocato e aumentò ulteriormente le sue ricchezze grazie alla guerra in Crimea, durante la quale rifornì l’esercito dello Czar, la guerra civile americana e il commercio del the. I successi furono tali e costanti che lo stesso Schliemann poté scrivere “alla fine del 1863 mi trovai padrone di una sostanza quale la mia ambizione non avrebbe osato sperare”. Era insomma un uomo che poteva dire di avercela fatta; una celebre foto, in cui appare imbacuccato in una pesante pellicci atta a proteggere dal clima russo, porta la dicitura “Heinrich Schliemann, ex garzone del signor Huckstadt a Fursenberg, ora gran commerciante nella 1a corporazione di Pietroburgo, cittadino onorario russo, giudice del Tribunale commerciale e direttore della Banca di Stato a Pietroburgo”. Eppure, sebbene ormai potesse limitarsi a vivere una vita agiata frequentando i salotti eleganti della capitale russa, quella promessa che aveva fatto da bambino di essere colui che avrebbe riportato alla luce Troia continuava ad aggirarsi in lui. Lui stesso, consapevole del fascino che i poemi omerici esercitavano su di lui, era stato restio ad avvicinarsi a tutto ciò che potesse riaccendere la fiamma: così l’uomo che parlava undici lingue (alle già citate si erano progressivamente aggiunte anche il polacco, lo svedese, l’arabo e il latino) solo nel 1856 si approcciò al greco e non per una difficoltà dell’idioma, ma perché temeva che ciò lo portasse ad abbandonare tutto per inseguire il suo grande sogno. Due volte fu sul punto di recarsi lì dove dei ed eroi si erano affrontati per dieci anni, ma una volta un’improvvisa malattia lo fermò l’altra deviò per iniziare un giro d’affari intorno al mondo. Nel 1868 però il momento infino giunse, aveva guadagnato quanto serviva per poter rischiare l’impresa e così, ritiratosi dal commercio, sbarcò ad Itaca per dare inizio alla sua seconda vita interamente dedicata ad una delle più grandi avventure archeologiche di tutti i tempi.  

E fu una secondo vita nel vero senso della parola perché una delle prime cose che Schliemann fece non appena giunto in Grecia fu divorziare dalla moglie russa. Dopo un soggiorno ad Itaca, dove venne accolto dal locale maniscalco che gli presentò la moglie Penelope e i figli Odisseo e Telemaco, passò nel Peloponneso e qui chiese al vescovo di Mantinea di trovargli una moglie che rispondesse ai suoi canoni di bellezza omerici. Il prelato gli presentò la foto di tre ragazze e tra queste lo sguardo di Schliemann si posò sulla diciasettenne Sophia Engastromenou, il cui volto lui identificò subito con quello di Elena. I due si sposarono ad Atene nel Settembre del 1869 e, nonostante i modi non certo romantici del loro incontro, il loro fu un matrimonio felice con Sophia che si sarebbe dedicata anima e corpo nel sostenere le ricerche del marito. Il primo problema di Schliemann era capire dove cercare Troia, attività in cui non era certo aiutato dai principali studiosi del suo tempo per i quali la questione non era tanto dove potevano essere sepolte le rovine della città, ma se era mai esistita quella città! Tra gli accademici l’opinione nettamente maggioritaria era che i poemi omerici fossero in tutto e per tutto opere di fantasia; ciò si basava su argomenti di ordine letterario (come si poteva ritenere veritiera la cronaca di un conflitto combattuto da dei ed eroi semi immortali?) e storico (era ritenuto impossibile che il bacino dell’Egeo avesse ospitato città e regni di una civiltà così elevata dato che lo sviluppo della Grecia era datato secoli dopo gli eventi narrati da Omero). Argomenti dunque perfettamente razionali, ma che nulla interessavano a Schliemann il quale partiva da un assunto di fede: tutto ciò che Omero aveva scritto era Vangelo, il poeta cieco non aveva narrato una storia immaginaria bensì aveva messo in versi la cronaca di un grande conflitto. A sostegno della sua idea Schliemana non adduceva però solo questa certezza, ma anche un argomento maggiormente scientifico: tutti gli storici antichi avevano dato per certo l’evento della guerra di Troia e anche il padre della storiografia scientifica, Tucidite, la cita espressamente nel preambolo de “La guerra del Peloponneso”, possibile che tutti si fossero sbagliati? Certo dunque delle sue convinzioni Schliemann giunse presso il villaggio di Bunarbaschi in Anatolia; tutti colo che davano un qualche credito al racconto omerico avevano infatti identificato in questa località il luogo dove si sarebbe trovata Troia e ciò perché nelle sue vicinanze si trovavano due sorgenti d’acqua simili a quelle che Omero, al XXII canto dell’Iliade, afferma sgorghino dal fiume Scamandro. Schliemann vagò un po’ nell’area in sella a un cavallo, armato solo dell’Iliade e di una guida pagata 45 piastre, e concluse che Bunarbaschi non poteva essere assolutamente il luogo di cui aveva cantato Omero. Intanto nel raggio di cinquecento metri non c’erano due sorgenti, ma trentaquattro (la guida affermò addirittura che in realtà erano quaranta); inoltre il cantore cieco aveva parlato di una fonte d’acqua calda e una d’acqua fredda: bene Schliemann misurò la temperatura di una a una delle fonti da lui trovato e vide che tutte avevano una temperatura costante intorno ai 17°. Altro motivo per cui l’ex-mercante tedesco escluse l’area come possibile sito di Troia era che Bunarbaschi si trovava a tre ore dalla costa, ma nell’Iliade gli Achei non fanno continuamente avanti e indietro dalla spiaggia alle mura della città? Dopo aver ricostruito, orologio alla mano, la battaglia narrata dal canto II al canto VI, Schliemann concluse che se il luogo giusto fosse stato quello allora gli Achei in nove ore avrebbero dovuto coprire a piedi qualcosa come ottantaquattro km! Infine l’ultimo elemento a contrario derivava dai canti dello scontro tra Ettore e Achille, qui si narra che i due eroi girarono intorno alle mura della città per tre volte “con rapidi piedi”; ebbene Schliemann cercò di verificare se ciò fosse fattibile e concluse di no visto che in un punto vi era un pendio così ripido da averlo obbligato a scenderlo carponi. A lui infine pareva assurdo che nel luogo dov’era sorta una città dello splendore di Troia non fosse mai emerso alcun resto del magnifico palazzo di Priamo o dei tre tempi costruiti sulla rocca. Difficile dire se quello seguito da Schliemann fosse un metodo scientifico o meno. A voler essere caustici è come se qualcuno oggi si mettesse a cercare la posizione esatta di Hogwarts basandosi sulle indicazioni geografiche contenute nei libri di Harry Potter; sicuramente un rigore metodologico nella ricerca vi fu, abbiamo visto la cronometrazione dei tempi o la misura della temperatura dell’acqua, ma ciò non toglie che Schliemann contende ad Howard Carter il primo posto nella classifica dei dieci archeologi più fortunati di sempre. Ma allora se non Bunarbaschi, dov’era Troia? A due ore e mezzo di distanza vi era un luogo chiamato Nuova Ilio, oggi Hissarlik, che distava solo un’ora dalla costa il che si accordava con le tempistiche descritte da Omero. Non appena osservato quell’altopiano quadrato di 233 metri a lato Schliemann non ebbe dubbi, aveva trovato il luogo dove secoli prima erano svettate le mura di Troia. Le prove? Intanto “da Hissarlik si vede anche il monte Ida, dalle cui cime Zeus contemplava la città di Troia”, inoltre il luogo risolveva anche la questione delle due sorgenti d’aqua omeriche. A Hissarlik non vi erano sorgenti, ma il vice-console americano Frank Calvert, a sua volta da tempo convinto che quella fosse la posizione di Troia, informò Schliemann che la natura vulcanica della zona aveva fatto in modo che, in poco tempo, comparissero e scomparissero varie sorgenti calde. Ancora la conformazione della collina rendeva plausibile l’andamento dello scontro tra Ettore e Achille in quanto, per girarvi intorno tre volte, i due eroi avrebbero dovuto percorrere in tutto quindici km, distanza che Schliemann riteneva realistica per due eroi carichi dell’impeto della lotta. Infine erano stati gli stessi antichi ad indicare questa località come il luogo dove si era trovata Troia: Erodoto narra che Serse visitò il luogo per sacrificare mille buoi dove si era trovata la “Pergamo di Priamo”, Arriano invece riferisce che qui si era recato Alessandro Magno non appena sbarcato in Asia per rendere onori agli eroi dell’Iliade e anche Giulio Cesare aveva fatto tappa qui al fine di “riallacciare i rapporti” con la sua discendenza troiana. Ormai certo di essere nel posto giusto nel 1870 Schliemann iniziò un primo scavo “illegale” grazie alla protezione di Calvert, che tempo addietro aveva acquistato una porzione della collina per costruirvi una villa e farvi alcune ricerche. Dopo un breve dissidio con il governo turco nel 1871, ottenute tutte le autorizzazioni del caso, Schliemann poté iniziare la sua prima campagna di scavo ufficiale con l’aiuto di un centinaio di operai. Lavorerà due mesi in questo primo anno e poi quattro mesi e mezzo nei due anni successivi infischiandosene di tutto e di tutti dagli accademici che irridevano al suo inseguire un mito, al governo turco che, non a torno visto gli sviluppi successivi, temeva eventuali appropriazioni indebite di quanto sarebbe stato scoperto. Non ci volle molto perché l’altopiano di Hissarlik iniziasse a mostrarsi per ciò che oggi noi sappiamo con certezza essere: un’immensa cipolla archeologica. Sotto di essa vi erano infatti strati su strati di rovine appartenenti a varie epoche storiche; Troia era stata una città distrutta e ricostruita sulle sue stesse macerie più e più volte nel corso dei secoli. E qui Schliemann fece qualcosa che fa cadere su di lui ancora oggi il biasimo di molti archeologi moderni: lui non cercava una Troia, lui cercava LA Troia di Omero e quindi tutto ciò che si frapponeva tra l’ex-mercante e il suo obiettivo era assolutamente irrilevante. Dall’Iliade Schliemann aveva tratto una topografia della città individuando il possibile tracciato delle mura, la posizione della porta Scea e quella del tempio di Atene e del palazzo di Priamo sull’Acropoli. Senza riguardo vennero tirati giù i resti murari più tardi e si iniziò a sfogliare la cipolla di uno strato dopo l’altro, sette sarebbero stato in tutto (oggi però sappiamo che furono dieci le città che si susseguirono), fino a giungere a quelli più antichi. Escluso il primo strato in quanto preistorico, ciò venne dedotto dalla mancanza di reperti metallici, Schliemann si focalizzò sul secondo e sul terzo e dovette avere un tuffo al cuore quando iniziarono ad emergere le tracce di un incendio, mura possenti e una grande porta. Eccola lì, il sogno della sua infanzia, la Troia di Omero riemergeva sotto i suoi occhi dalla nebbia della storia! In realtà Schliemann si era sbagliato perché quella da lui scoperta, detta oggi Troia II, risaliva a un epoca storica tra il 2500 e il 2300 a.c. quindi di almeno un millennio antecedente agli eventi narrati da Omero; oggi la maggioranza degli studiosi condivide la tesi dell’archeologo americano Carl Blegen che identificò la Troia omerica in Troia VIIA risalente a un periodo tra il 1300 e il 1200 a.c. sicuramente distrutta da un incendio. Inconsapevolmente dunque Schliemann tirò giù anche porzioni della città che stava cercando per giungere a quegli strati inferiori da lui erroneamente identificati come la rocca di Priamo, ma gliene possiamo fare una colpa? Secondo me no perché gli mancavano le basi storiche per avvedersi del suo errore, l’identificazione attuale è figlia delle conoscenze storiografico-archeologiche del secondo dopo guerra, inoltre i suoi metodi spicci furono difesi dallo storico tedesco Eduard Meyer che scrisse “Il procedimento antimetodico di Schliemann, di puntare direttamente allo strato più antico, è stato estremamente proficuo per la scienza; difficilmente uno scavo sistematico avrebbe portato alla luce gli strati più antichi celati dalla collina e con essi quella civiltà che propriamente chiamiamo troiana”. Effettivamente Schliemann, abbattendo senza riserve tutto ciò che si trovava tra lui e gli strati inferiori, riportò alla luce una quantità di reperti (armi, vasellame, oggetti in metallo, tracce murarie di un grande palazzo) per numero e qualità incredibili, in grado di aprire una grande questione storiografica in quanto assolutamente incompatibili con l’opinione comune che alla fine dell’ottocento si aveva del grado di avanzamento delle civiltà dell’Egeo di quell’epoca. Se ciò era più che sufficiente per consegnare Schliemann alla gloria dovremmo ormai aver capito che questi era il genere di persona che, quando sembra aver tocca la vetta del successo, in realtà si prepara solo al balzo successivo e così ancora una volta fu. Era il 15 Giugno 1873, ultimo giorno di scavi, e Schliemann stava supervisionando i lavori nei pressi di quello che lui aveva individuato come il palazzo di Priamo, quando qualcosa attrasse  la sua attenzione: oro! Congedati in tutta fretta gli operai, iniziò a rimuovere la terra con un coltello, incurante che sopra la sua testa incombeva precari i potenti massi delle mura dell’antico edificio, e uno dopo l’altro portò alla luce i vari reperti d’oro ed avorio. Nascosto il tutto nello scialle rosso della moglie i due coniugi portarono clandestinamente il tesoro nel loro capanno e osservando quell’insieme di diademi, orecchini, bottoni, fermagli, collane e altro Schliemann non ebbe ancora una volta dubbi: si trattava del tesoro di re Priamo “Probabilmente qualcuno della famiglia del re aveva chiuso in fretta il tesoro in una cassa senza neanche il tempo di toglierne la chiave, ma raggiunto dal nemico o dall’incendio presso le mura dovette abbandonarlo.”. Una celebre foto ritrae Sophia adornata con i monili scoperti, immagine vivente della Elena omerica così come il marito se l’era immaginata sin da bambino. Consapevole del rischio che le autorità ottomane potessero voler mettere le mani sulla mirabolante scoperta, Schliemann, con l’aiuto dei parenti di Sophia, fece giungere clandestinamente il tesoro prima in Grecia e poi in Germania. Fu un furto? Prima di infamare il tedesco bisogna ricordare che la legislazione turca in materia di scoperte del genere era all’epoca piuttosto ambigua e suscettibile di interpretazione a seconda della convenienza delle autorità. Comunque il tesoro di Priamo fu il coronamento del trionfo di Schliemann, la sua scoperta era sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo mentre il mondo accademico era in subbuglio. Se alcuni riconobbero subito l’importanza della scoperta di Schliemann, come ad esempio Wilhelm Dorpfeld che diede immediatamente la sua disponibilità a collaborare alle ricerche, per altri ammettere che questo dilettante avesse avuto ragione era inaccettabile e continuarono a negare persino l’evidenza. Un esempio su tutti il capitano Boetticher che, oltre a negare che quella non fosse assolutamente Troia, accusò Schliemann di aver volutamente distrutto tratti di mura per eliminare ogni elemento in contraddizione con la sua identificazione. Schliemann, che in questo si dimostrò molto più diplomatico di Howard Carter, difese sempre il suo lavoro invitando i critici allo scavo perché potessero vedere con i loro occhi e giudicare; alcuni continuarono nonostante tutto i loro attacchi, come Boetticher che dopo la visita asserì che Schliemann aveva trovato solo una grande necropoli, altri (la maggioranza) riconobbero infine i meriti del dilettante soprattutto dopo che questi, nel 1890, convocò a Hissarlik, le maggiori personalità accademiche del mondo a sue spese per un giurì d’onore. In tutto furono quattro le campagne di scavo troiane di Schliemann, ma i suoi orizzonti, dopo la grande scoperta, si stavano ampliando e, dimostrata la veridicità storica dell’Iliade, adesso intendeva dare dignità scientifica a un altro mito: quello della tomba di Agamennone e dei suoi compagni. L’episodio è uno dei più celebri della mitologia greca, fonte d’ispirazione per il trittico di Eschilo Agamennone-Coefore-Eumenidi e per varie opere di Sofocle ed Euripide (due Elettra ed un Oreste): Agamennone, appena rientrato a Micene dalla guerra portando Cassandra come preda bellica, viene assassinato dalla moglie Clitennestra e dall’amante di questa Egisto dando inizio ad una spirale di morte e vendette. L’esistenza di Micene non era messa in discussione, la città, compresa la celebre porta dei leoni, era già stata riportata alla luce da Kyriakos Pittakis nel 1841; ciò che però si considerava un mero mito era la presenza in loco di ricche tomba che custodivano le spoglie dei re di questa città che Omero aveva indicato con l’epiteto “ricca d’oro”. Ovviamente a Schliemann dell’opinione della maggioranza degli studiosi importava poco, se si era dimostrato vero il mito di Troia perché non doveva esserlo anche quello della morte di Agamennone e della sua sepoltura? Stavolta la fonte di riferimento fu la “Periegesi della Grecia” di Pausania il quale aveva visitato Micene intorno al 170 d.c. lasciando una descrizione della città e della posizione delle tombe reali. Ancora una volta Schliemann prese una strada completamente autonoma da quella dei suoi contemporanei e si convinse che il passo di Pausania in cui il greco aveva indicato la posizione delle tombe fosse stato tradotto in maniera errata; così mentre due dei più autorevoli archeologi dell’epoca, Dodwell e Curtius, poneva le sepolture fuori dalla cinta muraria di Micene, Schliemann riteneva si trovassero al loro interno. I lavori iniziarono nell’Agosto del 1879 e già dopo una settimana Schliemann poteva annotare nelle sue memorie che i risultati ottenuti erano più che soddisfacenti: emerse infatti uno spazio circolare formato da una doppia fila di pietre poste per ritto che il tedesco riconobbe come l’agorà circolare di Micene. Un’iscrizione “Qui essi costruirono la piazza dell’assemblea del consiglio, allo scopo di includere dentro di essa le tombe degli eroi” gli confermò di essere sulla buona strada e infatti il 6 Dicembre emerse il profilo della prima tomba. In tutto Schliemann avrebbe riportato alla luce nove tombe ( cinque a pozzo e quattro a cupola) e di nuovo non ebbe dubbi nell’annunciare al re di Grecia “Con gaudio singolare annuncio a V.M. di aver scoperto le tombe che la tradizione indica come quelle di Agamennone, Cassandra, Eurimedonte e i suoi compagni, uccisi durante il banchetto da Clitennestra e dal suo amante Egisto.”. Cosa più importante però era che le tombe erano integre e quindi, quando vennero aperte, dentro si trovarono anche gli scheletri dei defunti con tutto il corredo funebre; Schliemann non aveva dubbi che tra quei resti vi fossero anche le spoglie mortali del re al comando del quale 1186 navi si erano dirette contro Troia. Se il tesoro di Priamo era stato magnifico, quello in seguito detto di Atreo sarebbe stato secondo solo nella storia dell’archeologia a quello di Tutankhamun. Solo nella prima tomba i tre scheletri lì contenuti erano ornati con cinque diademi d’oro, foglie d’alloro e corone d’oro, in un’altra vi erano oltre 701 foglie d’oro con ornamenti di fiori, animali e farfalle; e poi gioielli di varia forma, croci, spille, gemme, fermagli da capelli, scettri, coppe, ornamenti in alabastro, pettorali sempre in oro e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo dato che Schliemann riempì 206 pagine con il catalogo dei beni riportati alla luce. Ma soprattutto le maschere dorate, poste sul viso dei defunti per proteggerli dalle influenze negative esterne, e nei tratti barbuti di una, ritrovata nella tomba numero cinque, Schliemann fu certo di avere di fronte il volto dell’Atride Agamennone pastore di popoli. Ovviamente anche rispetto a queste scoperte oggi sappiamo che Schliemann aveva completamente sbagliato l’identificazione; le tombe reali da lui scoperte non erano quelle degli eroi omerici, ma sepolture di anche quattrocento anni precedenti ai fatti narrati nell’Iliade (tra il XVI e il XII secoli s.c.) e per altro non tutte dello stesso periodo (più tarde quelle a pozzo, più recenti quelle a cupola). A Micene l’archeologo tedesco non trovò solo le magnifiche tombe, il cui numero negli anni successi crebbe fino ad arrivare oggi a quindici, ma presso la porta dei leoni venne portata alla luce una “casa del tesoro” piena di vasi dipinti, fregi, perle di vetro, forme per la fusione dei gioielli e ornamenti d’argilla smaltati. “Io sono convinto della perfetta verità della tradizione che questi misteriosi edifici servivano da depositi per la conservazione dei tesori degli antichi re” dichiarò Schliemann. Il nostro eroe ormai aveva cinquantasei anni e anche nella sua seconda vita poteva dire di aver raggiunto vette inimmaginabili, ma ancora non era pago. Dopo una seconda campagna di scavo a Troia, nel 188o riportò alla luce anche Orcomeno mentre nel 1884 affondò la vanga a Tirinto. Quest’ultimo scavo se non fu per reperti paragonabile a Micene o Troia, fu invece sul lato scientifico-storiografico fondamentale! Ancora una volta ignorando l’opinione degli esperti che ritenevano che a Tirinto non vi fosse niente, se non qualche mura medievale, Schliemann si fidò solo di Pausania che magnificava la cinta muraria di questa città paragonandola alle piramidi egizie (il mito voleva che fossero state erette da sette ciclopi su ordine del re Proitos). Lo scavò portò alla luce un palazzo, costruito su un massiccio di pietra calcarea, le cui mura erano fatte da blocchi della lunghezza di 2-3 metri e dell’altezza/spessore di un metro; la parte inferiore, adibita alla servitù e alle scuderie, si sollevava da terra per sette metri, mentre la zona signorile saliva da un minimo di undici a un massimo di sedici metri. L’importanza della scoperta era che si trattava del primo palazzo “omerico” a venire alla luce nella sua interezza dato che quelli di Micene erano perduti mentre di quello di Troia i resti non erano sufficienti per trarne una pianta precisa. Stavola si erano conservati gli atri con le colonne, il megaron con il suo atrio e il propileo nonché il bagno col pavimento formato da un solo blocco di pietra calcarea. Qui a Tirinto Schliemann diede prova di non essere solo uno straordinario scopritore di rovine, ma anche uno scienziato accorto: osservando le ceramiche e le pitture murali poté constatare come queste avessero ancora una volta tratti comuni ai reperti di Micene nonché ai reperti portati alla luce da altri archeologi a Nauplia, Eleusi e Asine; inoltre a Micene era emerso un uovo di struzzo di provenienza egizia e vasi dal motivo geometrico simili a quelli che si sapeva a i Fenici commerciavano alla corte di Thutmosis III intorno al 1500 a.c.. Nella sua mente Schliemann iniziò a domandarsi se non avesse iniziato a riportare alla luce i resti di una comune civiltà che, dalle coste dell’Asia minore e dell’Africa, si era estesa sino alla Grecia orientale e alle isole dell’Egeo. Si trattava di una rivoluzione dal punto di vista storiografico e la risposta poteva essere trovata cercando in quello che l’archeologo tedesco supponeva fosse il centro di questa civiltà, Creta, ma stavolta, forse per la prima volta nella sua vita, il destino non fu dalla sua. “Vorrei chiudere le fatiche della mia vita con una grande impresa, lo scavo dell’antichissimo palazzo preistorico del re di Creta a Cnosso, che io credo di aver identificato tre anni orsono”; così scriveva Schliemann un anno prima di morire, ma le difficoltà erano molte ad iniziare dal proprietario della collina che chiedeva la somma di 100.000 franchi per vendere la terra. L’ex-commerciante riuscì a mercanteggiare un ribasso di 40.000, ma visitando la nuova proprietà non se la sentì di abbattere 1612 ulivi che la ricoprivano. Era ormai la vigilia di Natale del 1890 e decise di rientrare per trascorrere le feste con la moglie Sophia e i due figli avuti da lei, Agamennone e Andromaca, ma giunto in Italia iniziò a soffrire di un forte mal d’orecchie. Il 25 Dicembre fu colto da malore a Piazza Santa Carità a Napoli e soccorso da alcuni passanti; rimasto privo della parola, ma sempre cosciente morì il mattino del giorno dopo. I suoi funerali si tennero ad Atene di fronte a un busto di Omero e alla presenza del re di Grecia, del principe ereditario, del governo e del corpo diplomatico. E l’immenso collezione, incluso parte del tesoro di Priamo, che aveva messo insieme in anni di scavo? Nel 1876, scrivendo a un amico russo, Schliemann valutò il valore della sua collezione il 80.000 sterline; già allora era sua intenzione lasciare in eredità il tutto al paese “che io amo e stimo di più” dietro però un congruo prezzo che garantisse il benessere della moglie e dei figli dopo la sua scomparsa. Una prima offerta venne fatta alla Grecia e alla Francia senza esito, dunque provò con la sua seconda patria russa chiedendo 50.000 sterline, ma dichiarandosi disposto a scendere anche a 40.000. Una delle sedi più gradite a Schliemann sarebbe stato il Regno Unito in quanto gli inglesi si erano subito mostrati entusiasti e ben disposti verso le sue scoperte (il primo ministro Gladstone scrisse una prefazione per una sua opera su Micene), ma infine l’intera collezione prese la via di Berlino cioè proprio di quel paese dove il corpo accademico si era dimostrato più scettico di fronte al lavoro di Schliemann. Merito di ciò va dato all’archeologo dilettante Virchow che si impegnò profusamente per far ottenere a Schliemann i riconoscimenti che meritava, fu infatti grazie a lui che l’ex-mercante divenne socio onorario della Società Antropologica berlinese nonché cittadino onorario della capitale tedesca. Fu così che nel 1880 l’intera collezione venne venduta da Schliemann al Museo di Berlino “per eterno possesso e indivisibile custodia” e qui rimase sino agli ultimi giorni della seconda guerra mondiale quando scomparve in contemporanea con l’ingresso delle truppe russe nella capitale del Terzo Reich. Di fronte alle continue negazioni da parte del governo sovietico che il tesoro di Priamo e il resto della collezione fosse stato da lui depredato come preda bellica ci si convinse alla fine che il tutto era andato tragicamente distrutto, ciò fino al 1993 quando i reperti riapparvero all’Ermitage di San Pietroburgo. Le richieste tedesche di restituzione hanno sempre ricevuto risposta negativa con l’argomento che si tratta di un risarcimento per i danni provocati dalla Wermacht al patrimonio culturale russo e nel 1998 la Duma ha approvato una legge che vieta il rientro in Germania di tutto ciò che l’Armata Rossa razziò alla fine del conflitto.

Dunque abbiamo visto che Schliemann non riuscì mai a scavare a Creta e così il compito di chiudere il cerchio e inserire il tassello finale dello stravolgimento storiografico del Mediterraneo Orientale toccò in sorte a un inglese dal curriculum completamente diverso rispetto a quello dell’ex-mercante tedesco. Arthur Evans era nato nel 1851 e, al contrario di Schliemann, visse sempre all’interno degli ambienti accademici studiando a Harrow, Oxford e Gottingen; mentre l’archeologo tedesco era giunto a Troia per inseguire il sogno della sua infanzia, Evans giunse a Cnosso condotto lì dai sui studi sulle scritture antiche. Nel suo ruolo di sovrintendente all’Ashmolean Museum di Oxford ebbe modo di osservare monete e sigilli giunti da Creta e recanti iscrizioni in una lingua ancora sconosciuta. Giunse sull’isola mediterranea per la prima volta nel 1894 e all’inizio suo obiettivo non era condurre scavi, ma solo fare ricerche in merito a quel misterioso idioma, posato però l’occhio su quella stessa località che aveva catturato l’attenzione di Schliemann cambiò idea. Così allorché Creta ottenne la semi-autonomia dall’Impero Ottomano, Evans ne approfittò per comprare l’area di Cnosso e iniziare a scavare nel Marzo del 1900. Bastarono un paio di giorni perché cominciassero ad emergere le prima mura antiche e, dopo sole due settimane, l’archeologo inglese si rese conto con sua grande sorpresa che aveva scoperto un edificio che ricopriva una superfice di almeno otto are; alla fine dell’anno l’estensione dell’intero complesso si era ulteriormente allargata a un totale di due ettari e mezzo. Ottimisticamente Evans scrisse a casa dicendo che gli ci sarebbe voluto ancora un anno per portare alla luce l’intera struttura…. si sbagliava perché un quarto di secolo dopo era ancora a Cnosso a scavare. Ciò di cui Evans si rese immediatamente conto era che la pianta dell’edificio che stava dissotterrando era in tutto e per tutto affine a quella del palazzo scoperto da Schliemann a Tirinto, con la sola differenza che la struttura di Cnosso era per dimensioni incommensurabilmente superiore a quelli del continente. Dunque Schliemann aveva ragione? Nell’Egeo, prima dello sviluppo della Grecia classica, c’era stata una grande civiltà sviluppatasi sull’isola di Creta che poi si era espansa sul continente? Evans annunciò al mondo di aver trovato il palazzo di Minosse, il leggendario re figlio di Zeus e padre di Arianna e Fedra, nonché di poter spiegare il mito del labirinto del Minotauro. La vastità del palazzo fatto da lunghi corridoi, atri e piani disposti a terrazze doveva aver ingenerato nei “turisti” antichi giunti dal meno progredito continente una tale sensazione di spaesamento da portarli a parlare di un labirinto. E per quanto riguardava il Minotauro? Evans ritenne di trovare la risposta in alcuni affreschi in cui due fanciulle e un giovane compivano delle acrobazie apparentemente prima afferrando un toro per le corna per poi proiettarsi con una capriola sulla sua schiena; si trattava forse di qualche rito di natura religiosa? Forse era questo il sacrificio al Minotauro di cui avevano parlato i miti classici? Più lo scavo andava avanti e più la magnificenza del palazzo, e di conseguenza della civiltà che lo aveva eretto, appariva in tutta la sua evidenza; Evans notò come non vi fosse traccia di mura, Cnosso non era una fortezza, il che voleva dire che, come per la sua amata Gran Bretagna, la ricchezza del popolo che vi aveva vissuto doveva essere stata garantita da una flotta padrona dei mari. Scoperti i magazzini del palazzo, con ancora uno accanto all’altro gli orci per l’olio, Evans provò a calcolare la quantità d’olio d’oliva che questi erano in grado di contenere e giunse alla cifra di 75.000 litri. Altra cosa che l’archeologo inglese scoprì in poco tempo era che, come nel caso di Troia, Cnosso non era una struttura unica, ma erano almeno tre palazzi che erano stati costruiti uno sopra l’altro in varie epoche storiche; così differenziò in un periodo minoico antico tra il III e il II millennio a.c., un periodo minoico medio fino circa al 1600 a.c. e infine un periodo minoico tardo che si concluse intorno al 1250 a.c.. Per trarre queste date Evans fece riferimento alle ceramiche ritrovate paragonandone lo stile con quelle di una civiltà la cui scansione temporale era all’epoca già abbastanza certa: quella egizia. Il periodo di massimo splendore del palazzo, l’epoca per dire che lui riteneva fosse stata quella di Minosse, si aggirava attorno al 1600 a.c. cioè al momento del passaggio tra il minoico medio e quello tardo; di quest’epoca erano infatti i meravigliosi affreschi che davano l’immagine di una società giovane, ricca e dedita al lusso. Preso dall’entusiasmo per tanto splendore Evans fece qualcosa che oggi gli è criticata da molti storici ed archeologi: decise di “ricostruire” il palazzo. Facendo un grande uso del cemento armato procedette a un restauro non  tendente alla sola conservazione del sito nella sua originalità, ma a una ricostruzione dell’aspetto del palazzo così come era da lui supposto. Le colonne perfettamente affrescate, le impalcature di legno dipinte e le stanze perfettamente riscostruite che possiamo ammirare oggi sono il frutto di questo restauro; spettacolari a vedersi nonché sicura testimonianza dell’immaginazione di Evans, ma certe soluzioni da lui scelte appaiono oggi quantomeno dubbie in ragione della conoscenza che abbiamo maturato dell’architettura minoica. Ma cosa aveva decretato la scomparsa di una civiltà apparentemente così florida e potente? In un primo momento Evans ritenne che la risposta si trovasse sempre nel mito del Minotauro: chi aveva ucciso il mostro? Teseo. E chi era Teseo? Il figlio del re di Atene, e allora forse ciò non era la messa in versi di un’invasione ad opera dei micenei di Creta? L’idea era interessante, ma l’archeologo inglese aveva dubbi che questa invasione vi potesse essere stata nel momento di massima potenza di Cnosso; era più probabile che i Micenei si fossero avventati su un avversario già in ginocchio, ma cosa lo aveva messo in ginocchio? Più Evans scavava e più si convinceva che a distruggere Cnosso dovesse essere stato qualche evento disastroso e improvviso e ciò lo portò ad orientarsi per l’ipotesi del disastro naturale. La conferma della sua tesi sembrò giungergli la sera del 26 Giugno 1926 quando un terremoto colpì Creta devastando Candia; Evans ipotizzò che un evento simile avesse potuto distruggere il palazzo prostrando il regno cretese al punto da renderlo facile vittima di un’aggressione proveniente dal continente. Sebbene valida la tesi riscontrò sin da subito opposizioni e pareri contrari rimanendo il tracollo della civiltà minoica uno dei principali punti interrogativi dell’archeologia del secolo scorso. Oggi sappiamo che l’inglese aveva avuto parzialmente ragione; effettivamente sono emerse prove di un immane cataclisma che colpì il Mediterraneo orientale, ma non si trattò di un terremoto bensì dell’esplosione dell’isola vulcanica di Thera (oggi Santorini) che provocò maremoti e immissioni nell’atmosfera di grandi quantità di ceneri vulcaniche, inoltre l’esplosione di Thera viene datata intorno al 1627 a.c. dunque essa può aver determinato la fine dell’epoca minoica media e non il collasso finale della civiltà che già Evans accertò essersi parzialmente ripresa da questo cataclisma. E allora cosa successe? Osserviamo che la fine della civiltà minoica si aggira intorno al 1250-1200 a.c. cioè all’incirca lo stesso periodo in cui collassa la civiltà micenea, dando inizio al così detto medioevo ellenico, e viene distrutta violentemente Troia VII cioè la città omerica; troppi eventi simili che legittimano la supposizione che un qualche evento di grandi proporzioni si sia abbattuto sull’Egeo tra la fine del XIII secolo a.c. e l’inizio del XII secolo a.c.. Gli storici però hanno da tempo accertato che non solo l’area dell’Egeo, ma l’intero Mediterraneo orientale fu in quell’epoca sede di un immenso stravolgimento storico: della stessa epoca è infatti la caduta dell’impero ittita nonché l’inizio della crisi del nuovo regno egizio. Oggi chiamiamo questo evento collasso dell’età del bronzo, ma le sue cause ci sono ancora ignote. A lungo si è parlato dei misteriosi popoli del mare sconfitti da Ramses III nella battaglia del delta del Nilo del 1178-1175 a.c., ma la tesi è sempre più oggetto di critiche data la costante mancanza di elementi utili ad individuare concretamente chi e da dove venissero questi popoli. Un altro cataclisma naturale? Migrazioni contemporanee (a questo periodo viene fatto risalire lo stanziamento dei dori nel Peloponneso)? Crisi dell’economia? Una grande epidemia come la peste nera del 1300? Sono tutte ipotesi che sono state avanzate e non si può escludere che tutte possano essere contemporaneamente vere. Una risposta potrebbe venire dalle fonti scritte, come si ricorderà Evans era giunto a Creta partendo dallo studio delle iscrizioni che da qui provenivano. Durante gli scavi a Cnosso erano emerse almeno duemila tavolette e l’archeologo inglese si avvide ben presto che si trattava non di un solo idioma, ma di due che erano l’uno evoluzione dell’altro: la lineare A e la lineare B. Per oltre cinquant’anni gli studiosi batterono la testa sull’enigma di queste due scritture finché nel 1949 il professore di Tubinga Ernst Sittig annunciò di aver decifrato prima undici e poi trenta segni della lineare B; la sua tesi resse finché non venne alla luce la così detta tavoletta di Pilo che giunse nelle mani di Michal Ventris architetto e  archeologo dilettante. Questi si rese conto che delle interpretazioni proposte da Sitting non trenta, ma solo tre erano valide; grazie all’intuizione che la lineare B andava considerata una forma arcaica di greco Ventris, collaborando con il glottologo John Chadwick, riuscì infine a fornire nel 1953 un’interpretazione accettabile della lineare B. La lineare A resta invece ancora oggi un enigma irrisolto e certamente l’incapacità di decifrare questo idioma contribuisce a mantenere non poche zone d’ombra in merito alle vicende della civiltà minoica.

Anche omettendo il lato romantico delle loro vicende, l’opera di Schliemann ed Evans rimane immensa. Non solo ridiedero dignità al mito, costringendo gli studiosa e non considerarlo come favole della buona notte, bensì la messa in poesia di eventi storici realmente accaduti, ma soprattutto riscrissero completamente la storia della Grecia e dell’Egeo antico. L’idea di un’evoluzione lineare delle civiltà di quest’area venne mandata in soffitta sostituita dal nuovo concetto di medioevo ellenico cioè una fase di “imbarbarimento” che si andò ad interporre tra un primo picco di civiltà, rappresentato dalla civiltà minoica e micenea, e lo sviluppo della Grecia classica. Se anche non ci fossero gli inestimabili tesori da loro scoperti e che ci stupiscono nei musei del mondo, già questo basterebbe per iscrivere il nome del commerciante tedesco e del professore di Oxford a lettere d’oro nell’Olimpo dell’archeologia.

 

Bibliografia:

  • C. W. Ceram, Civiltà sepolte
  • Heinrich Schliemann, Alla scoperta di Troia

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