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LA CRISI ECONOMICA E LA RIVOLTA DI PALERMO DEL 1647

DI CARLO BONACCORSO

Il Seicento siciliano fu un secolo denso di contraddizioni, pieno di squilibri economici e crisi che sfociarono in tumulti spesso gravi. La Spagna governava la Sicilia in maniera lassista, cercando malamente di mantenere una alleanza con quella classe baronale siciliana che aveva come unico scopo, la conservazione e l’accrescimento del proprio prestigio. Lo stesso valeva per la classe religiosa che in diversi territori siciliani, aveva un pieno controllo temporale; abati e vescovi esercitavano poteri di giurisdizione civile e penale e le loro tasche non erano mai vuote. Gli ordini religiosi controllavano inoltre l’educazione e soprattutto, quello morale. Gli uffici della Santa Inquisizione arrestavano, torturavano, confiscavano, giudicavano e condannavano, “purificando” le anime perse e riportando i fedeli sulla retta via. La libertà di pensiero non esisteva e la paura governava la vita dei siciliani. L’Inquisizione fu uno strumento di controllo politico temibile. Il Governo stesso era vittima di essa. Eppure ci fu chi provò a migliorare la tragica situazione che la Sicilia viveva in quel periodo. Caso emblematico fu il Duca di D’Ossuna, Pedro Tellez – Giron, governatore della Sicilia dal 1611 al 1616. Egli, spinto da sentimento nobile e onesto, tentò di sistemare i conti, ridurre i privilegi e frenare gli abusi. Ridusse il banditismo nelle campagne e allontanò, almeno per un po’, il pericolo turco che dominava i mari. Tuttavia il suo governo durò poco e quei pochi risultati ottenuti vennero presto cancellati. Non fu l’unico; anche il Duca d’Uzeda provò a combattere gli abusi ma senza riuscirvi. Oltre a questo, bisogna anche considerare la situazione europea del periodo che vedeva la Spagna impegnata nella Guerra dei Trent’anni al fianco dell’Impero Asburgico e nel 1640 dovette affrontare la rivoluzione in Portogallo che si opponeva alle influenze spagnole in terra lusitana, guidata da Giovanni IV di Braganza. Tutto questo portava un profondo malcontento economico che si ripercuoteva anche in Sicilia. Un fattore, tuttavia, è fondamentale per comprendere maggiormente la situazione sociale nell’isola: qui, infatti, mancava un certo forte di intellettuali, mercanti e liberi professionisti; lo strapotere della classe baronale e di quella religiosa non poteva essere contrastato. C’era sì una presenza forte di corporazioni artigiane, ma incapaci di mostrare una coscienza di classe. Come spiega egregiamente Salvo di Matteo nel suo libro “Storia della Sicilia”. Troppo poca cosa erano le modeste categorie mercantili e le pur forti corporazioni artigiane, poiché non ebbero sentimento e aspirazione di classe, né i loro membri ebbero educazione e cultura, che furono privilegio della classe nobiliare e del clero. Manifestarono coesione e capacità ribellistiche, come vedremo, nel caso della rivolta palermitana del 1647, la più importante nell’intero corso della dominazione spagnola, nata nel loro seno e subito vittoriosa; ma poiché prive della coscienza di ruolo politico di classe, nei postulati stessi della loro azione diedero riprova della costante soggezione al potere regio e a quello baronale. Esse si limitarono, infatti, a esprimere solo un particolaristico interesse corporativo: la partecipazione con qualche proprio rappresentante al governo municipale della città.

Vedremo, dunque, come scoppiò e come si evolse la rivolta del 1647, andando ad esaminare le cause e le figure che la promossero.

LA RIVOLTA DEL 1647

Gli enormi carichi tributari cui era sottoposta la popolazione venivano ulteriormente appesantiti dalle richieste della corte spagnola che doveva affrontare un periodo di guerre e spese economiche ingenti; già il vicerè D’Ossuna, nel 1612, dovette far delibare dal Parlamento un donativo straordinario di 2700000 scudi. La rivolta del popolo messinese che si oppose a questa grave ulteriore imposizione, servì a poco e la repressione fu terribile. I dazi di esportazione su alimenti come sale e olio, aumentarono rendendo impossibile la vita dei poveri. Molte terre baronali vennero risparmiate, lasciando così tutto il peso tributario a quelle demaniali. Si arrivò così alla svendita totale del patrimonio pubblico: titoli nobiliari, castelli, terre, città. La classe nobiliare fondò nuovi centri rurali e con l’acquisto delle terre demaniali e conseguente concessione con contratti di enfiteusi a braccianti e mezzadri, accrebbe notevolmente le proprie ricchezze. Diverse furono le famiglie aristocratiche che approfittarono del periodo per accumulare ricchezze e potenziare il nome della famiglia; altre, di contro, videro il loro prestigio crollare per i debiti. Il frumento, prodotto principale in una terra agricola come la Sicilia, aumentò ma, “stranamente” diminuirono le esportazioni. Tale crollo fu soprattutto causa del mercato nero operato dai baroni che, clandestinamente, consegnavano frumento a mercanti genovesi, napoletani e toscani. Dunque buoni raccolti ma scarse vendite estere. L’economia dell’isola crollò. In più arrivò la peste. Nel 1624 una nave proveniente da Tunisi portò cristiani riscattati dalla schiavitù che diffusero il male. Qui nacque il credo di Santa Rosalia e della processione delle sue ossa che pose fine alla diffusione della peste; ma la popolazione continuò a soffrire la grave situazione economica. A stento si riusciva a mangiare. E così si arrivò all’estate del 1647. Mesi prima, una rivolta scoppiata a Catania coinvolse anche Palermo dove un mugnaio, Nino La Pelosa, si fece capo di una rivolta popolare; essendo priva di una effettiva organizzazione, venne presto repressa nel sangue. Ad Agosto però, una nuova rivolta scoppiò, questa volta organizzata dalle corporazioni. Esse, forti dell’importanza che ricoprivano all’interno del popolo siciliano e incaricate dal Viceré di mantenere l’ordine pubblico, guidarono una potente ribellione contro il governo del viceré Zuniga marchese di Los Velez. Una nuova pestilenza, la cattiva gestione delle risorse contro la carestia e i continui soprusi, furono le cause che portarono un intero popolo a ribellarsi. Guidata da Giuseppe D’Alesi, un battiloro, la rivolta arrivò fino al Palazzo regio che venne conquistato. Zuniga fuggì e D’Alesi venne proclamato Capitano Generale del popolo, acclamato come il salvatore. Abolì le gabelle e i privilegi baronali, vietò il saccheggio ma giurò lealtà al Re di Spagna, mostrando così la vera natura della rivolta: non contro il dominio spagnolo, ma per una equa ripartizione del carico tributario.Tuttavia, durò poco: una settimana dopo, la classe nobiliare approfittando delle divisioni all’interno delle corporazioni, reagì colpendo in maniera sistematica tutti i capi e servendosi della corporazione dei pescatori per scatenare una contro ribellione. Giuseppe D’Alesi, che si era impegnato insieme con l’inquisitore Trasmiera per far tornare il Viceré e convincerlo a concedere maggiore autonomia alla città, scappò; venne trovato in una casetta della Conceria e gli venne mozzata la testa. Il Procuratore fiscale la portò in giro per la città come monito; oltre a questo, nei giorni successivi, i nobili si divertirono a gareggiare nel tagliare teste; alcuni vi ornarono i muri delle proprie case. Una fine impietosa per una rivolta sacrosanta che era nata per combattere le atroci diseguaglianze che opprimevano il popolo. Il Marchese Lo Velez tornò al suo posto ma morì poco dopo. Alle corporazioni fu tolta la gestione dell’ordine pubblico che venne affidata a milizie private comandate dalle famiglie aristocratiche. Altre ribellioni sconvolsero la Sicilia, molte delle quali spiccatamente antispagnole ed indipendentiste. In più, nel 1693 l’isola venne sconvolta da un terremoto che distrusse centri della Val di Noto e del Val Demone, provocando la morte di più di 60 mila vittime. Ma i siciliani seppero rialzarsi.Si concluse così un secolo difficile per la Sicilia; la rivolta del 1647 mostrò la capacità di un popolo di sollevarsi e mostrare i denti, ma nello stesso tempo dimostrò di non trovare una effettiva unione, un ideale comune. Un problema, questo, che si è presentato spesso nelle vicende storiche siciliane, una mancanza che ha infranto sogni e compromesso, probabilmente, capovolgimenti politici fruttuosi per la Sicilia.

Ma con i se e con i ma, la storia non si fa.

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