Ascoltare nelle ultime settimane le polemiche intorno alla legge elettorale e in particolar modo il ripetere che la questione di fiducia su tale materia in Italia precedentemente era stata posta solo da Mussolini, De Gasperi e Berlusconi mi ha fatto rendere conto che, ancora oggi, il ricordo della legge elettorale del 1953, le celebre legge truffa, continua ad essere legato all’idea di qualcosa di negativo… un vulnus del processo democratico. Così, “approfittando” del fatto che sono raffreddato e quindi posso dedicare un po’ meno tempo alla realizzazione di un articolo, ho deciso di provare a raccontare la storia del primo tentativo di modificare la legge elettorale nell’Italia repubblicana e soprattutto cercare di determinare, a ormai più di cinquant’anni di distanza da quei fatti, se veramente di truffa si trattò.
Dunque siamo nella seconda metà del 1952 e De Gasperi, al governo dalle fatidiche elezioni dell’Aprile 1948, si trova a dover fare i conti con un grosso problema: i due turni delle elezioni amministrative del ’51-’52 hanno inequivocabilmente mostrato che il momento magico della Democrazia Cristiana era definitivamente tramontato. Sicuramente lo statista trentino era sempre stato consapevole che ripetere l’exploit del 1948, 48,51% dei voi alla sola DC, era pressoché impossibile perché quel risultato era figlio della fortissima polarizzazione di una campagna elettorale combattuta sulla fatidica scelta di campo Est vs Ovest, ma il quadro dato dalle amministrative disegnata una situazione alquanto preoccupante in vista delle successive politiche del 1953. Nonostante infatti la vittoria morale di Roma, dove De Gasperi aveva tenuto duro di fronte alle pressione di Pio XII perché si creasse un fronte unito anticomunista con monarchici e missini, e l’importante successo di Milano il risultato generale mostrava che il Partito comunista reggeva un po’ ovunque, cannibalizzando gli alleato socialisti, mentre la Democrazia Cristiana aveva perso molti voti, soprattutto nel meridione, a favore delle destre in particolare appunto monarchici e Movimento sociale. Pesante era stato soprattutto il risultato di Napoli dove il comandante Lauro, a capo di un’Unione di destra, aveva conquistato Palazzo San Giacomo con il 48% dei voi, ma un po’ in tutto il paese il Movimento sociale era balzato anche al di sopra del 10% dei consensi… tutti voti persi dalla DC. Chiariamo non è che De Gasperi temessi di poter perdere le elezioni, che la balena bianca sarebbe stato comunque il partito di maggioranza relativa era certo, ma difficilmente la coalizione governativa (DC+PSLI+PLI+PRI) avrebbe di nuovo ottenuto quell’amplissima la maggioranza dei seggi in entrambe le camere il che avrebbe reso molto più difficile governare il paese. Inoltre proprio gli alleati di governo, i così detti partiti laici o dispregiativamente “partitini”, avevano dimostrato per tutti e cinque gli anni di governo una tendenza alla litigiosità, nel ’50 i liberali si erano sfilati dal governo e nel ’51 avevano fatto lo stesso i social-liberali , che avrebbe ulteriormente reso la vita difficile al Presidente del consiglio dei ministri di turno. A De Gasperi l’idea di dover andare a elemosinare voti di fiducia alle destre, i socialisti erano indisponibili in quanto all’epoca era completamente stretti nell’abbraccio mortale coi comunisti, faceva ribrezzo, ma se si fosse confermato il quadro elettorale delle amministrative c’era il rischio concreto che, con il sistema proporzionale puro all’epoca vigente, solo raccogliendo voti da quelle parti si sarebbe potuto formare un governo. Fu così che nacque l’idea di una nuova legge elettorale che permettesse in qualche modo di garantire la governabilità del paese. Trovo affascinante notare come, già nel 1953, ci si illudesse che una legge elettorale fosse in grado di sanare un problema, quello della governabilità, che invece era da ascrivere a un vulnus politico-istituzionale del paese. Non esiste la legge elettorale perfetta, ma soltanto quella che meglio si adatta all’insieme degli elementi sociali, culturali e politico-istituzionali di un dato paese; se così non fosse non si capirebbe perché la Germania vive bene con il suo proporzionale mentre Gran Bretagna e Stati Uniti fanno lo stesso con il loro maggioritario secco. Le difficoltà di governo in Italia non sono dovute al metodo elettorale proporzionale, ma al modo in cui, in sede costituente, si era deciso di stabilire i rapporti tra governo e parlamento. Metto le mani avanti prima di creare inutili polemiche, a mio pare la nostra Costituzione, per la parte che attiene ai principi fondamentali e ai diritti e doveri dei cittadini è una delle più progressiste al mondo, però purtroppo nello scegliere l’ordinamento dello Stato ci si andò a ispirare a quello che era stato uno dei più problematici sistemi parlamentari europei: la Terza Repubblica Francese. La Repubblica nata da Sedan e dalla Comune era infatti stata l’emblema dell’ingovernabilità, con delle crisi di governo praticamente costanti (una media di cinque governi a legislatura e anche peggio nei drammatici anni ’30). Comprensibilmente i nostri costituenti, dopo il ventennio fascista che di fatto era stato lo strapotere dell’esecutivo, scelsero di rafforzare molto il ramo legislativo in modo tale che potesse svolgere una forte azione di controllo sul governo; purtroppo però il Parlamento fu talmente rafforzato che finì non solo per controllare il governo, ma anche per frenarlo se non bloccarlo. Siamo chiari non sto certo dicendo che il sistema parlamentare non funziona, ma semplicemente che il parlamentarismo puro necessita di dei correttivi (soglie si sbarramento elettorali, sfiducia costruttiva, semi-bipartitismo all’inglese ecc.) per non rischiare di poter paralizzare l’esecutivo. In Italia invece non si adottò nessun correttivo andando invece ad unire un sistema elettorale proporzionale con un bicameralismo perfetto in un contesto di ampio multipartitismo… insomma una tempesta perfetta. Alcuni costituenti, ad esempio Mortati, si avvidero subito di questi problemi, ma comprensibilmente De Gasperi non poteva pensare di cambiare in meno di un anno la costituzione così decise di puntare sulla legge elettorale per dare al paese la governabilità. In realtà non è ben chiaro come e da chi nacque l’idea di una nuova legge elettorale; certamente la paternità non era del Presidente del consiglio, si è a volte indicato Mario Scelba, il duro ministro degli interni, ma sembra invece che questi si dimostrò sin da subito freddo all’idea e, anzi, predisse che sarebbe stata chiamata “legge truffa”. Secondo Montanelli non fu da ambiente democristiano, ma socialdemocratico che venne il primo imput; più precisamente sarebbe stato Lami Starnuti, segretario del PSLI, ispirandosi alla legislazione elettorale francese che prevedeva gli apparentamenti di coalizione. Questo sistema aveva dato buona prova di sé proprio nelle elezioni amministrative, dove lo si era sperimentato per la prima volta proprio nella tornata ’51-’51, e aveva permesso alla coalizione di governo di vincere alcune città pur senza ottenere la maggioranza assoluta dei voti. La scelta fu così di unire l’introduzione della possibilità degli apparentamenti con l’istituzione di un premio di maggioranza. Prima di procedere oltre vediamo nello specifico cosa prevedeva la proposta di legge che venne licenziata dal Consiglio dei ministri il 18 Ottobre 1952: il sistema elettorale rimaneva proporzionale puro, ma veniva prevista la possibilità per il partito o la coalizione che avesse raggiunto il 50,01% dei voti di ottenere automaticamente il 65% dei seggi della Camera dei deputati (380 deputati), mentre il resto dei seggi sarebbe andato alle opposizioni; qualora invece nessun partito o coalizione avesse superato la fatidica soglia i seggi sarebbero stati divisi attraverso il normale quoziente proporzionale. Pare certo che l’idea del premio di maggioranza, su cui sarebbe esplosa la polemica politica e parlamentare, fosse dall’Ufficio studi della DC e venne accettato di malavoglia da repubblicani, liberali e socialdemocratici i quali temevano avrebbe determinato una riduzione del loro peso nella coalizione di governo. Chi invece non parve avvedersi subito della possibile portata della riforma fu la sinistra infatti Nenni, a cui Andreotti sei giorni prima del Consiglio dei ministri aveva anticipato la cosa, non ne fu impressionato anche perché, a suo parere, le successive elezioni sarebbero state “una vendemmia” per il Fronte popolare. Anche nel suo diario il leader socialista non fa particolari accenni alla nuova legge elettorale nel mentre questa prendeva forma e infatti la polemica esplose, prendendo poi sempre più forza, soltanto quando questa venne calendarizzata per la discussione. Virtualmente la coalizione governativa non avrebbe dovuto avere problemi a far approvare la nuova legge dato che disponeva, sia alla Camera che al Senato, di una larga maggioranza, ma le opposizioni decisero di dare battaglia all’ultimo sangue sia dentro che fuori le aule parlamentari. Dentro attraverso la strategia dell’ostruzionismo ad oltranza, fuori tramite una martellante campagna d’opinione resa dirompente dall’efficacissimo slogan “legge truffa”. Anche in questo caso non si sa chi per primo pensò a questa definizione, che in seguito sarebbe rimasta indelebilmente attaccata alla proposta di riforma, ma una volta trovata la formula essa inondò il paese sui manifesti nelle vie e nei discorsi dell’opposizione nelle piazze. Il principale elemento d’accusa portato dal Fronte Popolare era la supposta similitudine della legge truffa con la legge Acerbo del 1923 voluta dal fascismo e che dunque, anche la legge truffa, era in realtà un sottile strumento per intaccare l’ordinamento democratico delle istituzioni. Conviene a questo punto spiegare brevemente in cosa consistette la legge Acerbo viste che, ancora in questi giorni, la si è richiamata spesso al fine di criticare il così detto Rosatellum (solo a me questa latinizzazione maccheronica dei nomi delle leggi elettorali inizia a stare sulle….). Nel primo governo Mussolini, sorto subito dopo la marcia su Roma, i fascisti, non avendo la maggioranza alla camera, erano in coalizione con popolari, liberali e demosociali, ma non era nei piani del Duce quello di accettare una coabitazione del potere a lungo termine. Obiettivo ultimo del fascismo era di governare da solo, solo che ciò era abbastanza difficile perché, anche dopo la marcia, il PNF rimaneva minoranza nel paese ed era quasi impossibile, in elezioni libere e democratiche, conseguire la maggioranza assoluta dei seggi. La legge Acerbo fu il mezzo legale adoperato dal fascismo per assicurarsi un’ampia maggioranza parlamentare; la legge era anche in questo caso proporzionale e anche stavolta il sistema veniva corretto, al fine dichiarato di dare governabilità al paese, con l’introduzione di un premio di maggioranza, che anzi nacque come concetto giuridico-istituzionale proprio in occasione della legge Acerbo. Fino a qui non si può contestare la similitudine tra la legge del 1923 e quella proposta nel 1953, ma la differenza stava nella soglia minima di suffragi che servivano per far scattare il premio di maggioranza: la legge Acerbo infatti prevedeva che la lista che avesse preso il 25% dei voti avrebbe conseguito i 2/3 dei seggi. Divine a questo punto evidente l’immenso effetto corruttivo prodotto dalla legge del 1923: un partito che avesse rappresentato si e no 1/4 di tutto il corpo elettorale avrebbe conseguito un controllo assoluto del parlamento. Nonostante i tentativi da parte delle forze moderate di modificare la legge sia in commissione che in aula (provando ad alzare il quorum dei voti o riducendo il numero dei seggi conseguiti) infine la norma venne approvata, nonostante i fascisti avessero solo 35 deputati, dietro imposizione da parte del governo della questione di fiducia. Giustamente Giovanni Sabatucci ha definito la legge Acerbo come il più lampante esempio del suicidio di un’assemblea legislativa pari al Reichstag che votò i pieni poteri a Hitler nel ’33 o all’assemblea nazionale francese che consegnò il paese a Petain nel ’40. La legge svolse a dovere il suo lavoro, anche perché i fascisti usarono ampiamente la forza sia legale che illegale per condizionare il voto, dando al PNF 374 deputati su 535. Ora la proposta di legge del 1953, sebbene reintroducesse il premio di maggioranza, si allontanava di molto dalla legge Acerbo in quanto richiedeva che il partito o la coalizione raggiungesse il 50,01 dei voti per ottenere l’assegnazione automatica del 65% dei seggi. La ratio di fondo era che a maggioranza superiore alla metà di voti nel paese potesse conseguire una maggioranza netta di seggi in parlamento, anche se ciò avrebbe voluto dire produrre un’assemblea non direttamente proporzionata alla forza dei vari schieramenti politici. Nonostante ciò la polemica contro la legge simil-fascista fu durissima e, ad esempio, Togliatti disse “Dicono che questa truffa, però, non sarebbe la stessa cosa della legge Acerbo la quale dava la maggioranza schiacciante a un partito che non era arrivato nemmeno ad avere la maggioranza relativa. Ma questo è invece proprio l’obiettivo che si propone la legge clericale. Quando i clericali propongono che il gruppo politico che abbia ottenuto il 50,01% dei voti ottenga il 65% dei mandati nel parlamento, essi hanno davanti a sé il fatto concreto delle consultazioni elettorali del 1951 e del 1952, e hanno fatto precedere questa norma dall’altra che riguarda l’apparentamento e che essa stessa è già una truffa. Il risultato della combinazione tra le due norme, quella dell’apparentamento e quella del premio di maggioranza, quale dovrebbe essere in concreto? Dovrebbe essere precisamente la conquista della maggioranza assoluta da parte di quel partito clericale che nel paese una tale maggioranza non ha più. Questo è esattamente ciò che si proponeva la legge Acerbo.”. A De Gasperi, aventiniano della prima ora e che si era fatto quattro anni di carcere, quel paragone col fascismo faceva male aumentandone il malumore, dovuto in parte anche ai primi sintomi di quell’azotemia che lo avrebbe ucciso; Montanelli scrive che il leader democristiano alternava fasi di scoramento in cui pensava di lasciar perdere la riforma elettorale e fasi risolutamente battagliere in cui difendeva la norma ad oltranza. A metterlo in difficoltà era poi il fatto che anche personalità limpide del mondo della cultura e della stessa coalizione governativa si fossero espresse contro la legge; se Gaetano Salevemini era a favore, contro si schierano Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Costantino Mortati, Eriberto Corbino (che era stato ministro del tesoro di De Gasperi) nonché Francesco Saverio Nitti (che però sarebbe morto nel pieno del dibattito). La contrarietà dei giuristi alla norma era figlio del pensiero giuridico-costituzionale del secondo dopoguerra che faceva riferimento in particolare alle teorie del giurista austriaco Hans Kelsen. Negli anni dell’ascesa dei fascismi Kelsen era stato tra i principali paladini, in opposizione a Carl Schmitt, della difesa del parlamento come luogo d’incontro delle varie anime della società; nell’aula parlamentare, attraverso l’opera di compromesso tra la maggioranza e l’opposizione, si ottiene quella sintesi che permette la produzione di leggi utili alla totalità del paese. Sulla scorta di queste idee Kelsen indicò nel sistema elettorale proporzionale puro il miglior sistema da adottare in quanto permette di trasferire nel parlamento una fotografia esatta della forza dei vari partiti, cioè i “copri elettorali” presso i quali si riuniscono persone con il medesimo convincimento, nonché garantisce una rappresentanza ad ogni elettore in quanto, al contrario del maggioritario, tutti i voti, non solo quelli del primo arrivato, contribuiscono a determinare i mandati elettorali. La gran parte dei costituzionalisti italiani (ma non Mortati) si rifaceva, in un modo o nell’altro, alle idee di Kelsen e dunque vedeva nel premio di maggioranza un corruttore della purezza del proporzionale. Si è a lungo discusso se sia vero che il sistema proporzionale sia stato implicitamente costituzionalizzato in forza del tessuto dell’ordinamento istituzionale dello Stato; sicuramente di questa opinione erano siano Calamandrei, che temeva ad esempio che il premio di maggioranza annullasse l’utilità del quorum per l’elezione dei giudici costituzionali, che Mortati il quale in seguito scrisse in merito al premio di maggioranza “effettivamente sembra che esso contrastasse più che con singole disposizioni (della Costituzione), con lo spirito informale dell’intero sistema che tende ad assicurare una corrispondenza fra la distribuzione delle forze politiche nel parlamento e quelle esistenti nel paese.”. Va detto che entrambi i giuristi avevano già da tempo espresso preoccupazioni in merito al problema della governabilità, ma tutti e due ritennero che snaturare il sistema proporzionale con l’introduzione del premio di maggioranza non fosse la soluzione migliore (Mortati ad esempio propose la sfiducia motivata mentre Calamandrei fu portatore in costituente del sistema presidenzialista). Se questo era il clima nel paese, non molto migliore era quello in parlamento. Agli inizi di Dicembre del 1952 la legge giunse alla Camera dei deputati per iniziare l’iter e sin da subito fu scontro duro sia verbale che, in alcuni casi, fisico tra maggioranza e opposizione. Il diario di Nenni è in tal senso utilissimo per rievocare alcuni dei momenti più importanti; così al 9 Dicembre il leader socialista scrisse “Un primo grosso incidente, finito con una zuffa, si ebbe giovedì 4 Dicembre, quando d’improvviso si vide l’intero governo prendere posto al completo al suo banco e si alzò Scalfaro a proporre che la Camera sedesse in permanenza, domenica compresa… La proposta di Scalfaro venne naturalmente votata e tutto finì con un pugilato come non si era mai visto. Volarono perfino le palline del banco delle commissioni. Ci furono parecchi contusi e un ferito grave, un usciere. Il secondo incidente c’è stato domenica, protagonista Oreste Lizzadri. Si discuteva d’interpretazione del regolamento. Leone (vicepresidente della Camera), che presiedeva, decise di riemettere la decisione alla Camera. “Allora – gridò Lizzadri – non è più il presidente che interpreta il regolamento, ma Gonnella (segretario della DC)”. Piccato sul vivo, Leone chiese e non ottenne la ritrattazione e inflisse a Oreste l’esclusione dall’aula. Rifiuto di Oreste di uscire… Infine la soluzione si trovò. La seduta venne ripresa senza la presenza di Oreste.”. Questo breve spaccato, dà la misura di quello che fu il confronto sulla legge. Da parte delle opposizioni non era mera indisciplina, ma metodo preciso per far slittare quanto più possibile i tempi e tenere il paese perennemente sulla corda così da non far decantare l’emozione legata alla vicenda. Fu proposta una serie infinita di emendamenti (oltre mille) e così infine, il 14 Gennaio 1953, il governo decise di porre la questione di fiducia per forzare l’ostruzionismo. Sicuramente a molti sarà subito saltata la mosca al naso per il confronto con le polemiche sorte nelle ultime settimane in merito alla decisione del governo di usare il voto di fiducia per far passare il così detto Rosatellum. Ora sebbene io possa essere assolutamente d’accordo che, da un punto di vista di correttezza istituzionale, non sia molto carino usare lo strumento della questione di fiducia per far passare una legge elettorale; nella Costituzione non vi è un solo articolo che lo vieti anche solo implicitamente per cui dire che una condotta del genere sia l’anticamera per una junta sudamericana mi pare lievemente un’esagerazione. Se poi vogliamo proprio essere tecnici la fiducia esiste per due eventualità: blindare una legge quando questa non è condivisa da tutte le forze di maggioranza (così avvenne per la legge Acerbo) oppure per superare l’ostruzionismo ad oltranza delle opposizioni che non intendono discutere nel merito la legge, ma solo impedire che questa possa essere votata. Il 21 Gennaio la legge venne votata dopo ben 186 dichiarazioni di voto, ultima delle quali quella di Nenni con cui si annunciava che il Fronte popolare non avrebbe partecipato alla votazione “siamo quindi usciti cantando l’inno di Mameli e dei lavoratori”; dall’altro lato della barricata De Gasperi aveva passato le ultime settimane perennemente a Montecitorio dormendo su una poltrona letto nel suo ufficio. Dopo il passaggio alla Camera la riforma elettorale giunse a Marzo al Senato, ma qui il suo presidente, Giuseppe Paratore, mise subito in chiaro a De Gasperi che non avrebbe ammesso l’uso del voto di fiducia. A sua opinione approvare l’uso della fiducia su quella legge sarebbe stata una condotta parziale da parte di una figura super partes quale doveva essere quella del Presidente del Senato. Il Fronte popolare tentò di far leva sulle incertezze di Paratore e, per bocca di Scoccimarro, offrì una tregua parlamentare se all’approvazione della legge fosse stato unito un referendum consultivo con cui si domandava al paese se era a favore o contro il premio di maggioranza. Essendo costituzionalmente inattuabile come proposta il governo rifiutò. Ferruccio Parri tentò una mediazione in extremis suggerendo una modifica della legge che riducesse la sostanza del premio di maggioranza; forse se proposta agli inizi questa variazione sarebbe stata possibile, ma adesso non vi era più tempo per farla visto che avrebbe imposto un secondo passaggio alla Camera dei deputati. Paratore, che non si riteneva in grado di far fronte all’ostruzionismo selvaggio già andato in scena alla Camera, interrogò di nuovo il Presidente del Consiglio chiedendogli se, nel caso lo spettacolo si fosse ripetuto al Senato, fosse “assolutamente contrario a proporre lo scioglimento delle Camere facendo elezioni con la vecchia legge”. De Gasperi, evidentemente anche lui sfibrato dalla battaglia, si disse possibilista, ma quando Paratore portò la proposta al Presidente della Repubblica Einaudi dal Quirinale venne un netto no: le camere sarebbero state sciolte o alla loro scadenza naturale o subito dopo l’approvazione della legge elettorale. A fronte di ciò e dello scontro durissimo già iniziato a Palazzo Madama, Paratore preferì dare le dimissioni. Trovare un sostituto non fu facile: il vicepresidente Tupini (DC) era stato, come scrive Montanelli, subissato di insulti quando aveva tentato di ricondurre all’ordine l’aula e quindi non fu considerato un candidato papabile; Adone Zoli, il liberale Alessandro Casati e l’ex-CLN Lugi Gasparotto si tirarono via dall’ingrato compito e così, infine, la scelta cadde su Meuccio Ruini. Questi, oltre che vecchio combattente sul Carso nella Grande Guerra, era stato il leader della Democrazia del lavoro, uno dei tanti partiti sorti dopo la liberazione che le elezioni dell’Aprile ’48 si erano occupate di gettar fuori dalla scena politica. La guida della lotta nel Fronte popolare fu assunta da Pietro Secchia il quale accusava Togliatti, non incline per carattere alla scenate, di arrendevolezza; lo stesso uomo duro del PCI raccontò di aver chiesto al segretario del partito di ritirare la sinistra dal Senato in opposizione alla legge, ricevendo però per risposta “Già e poi che facciamo, la rivoluzione?”. Per quasi 75 ore il Fronte popolare riuscì a tenere il Senato bloccato sulla discussione della legge Bitossi in merito al lavoro delle mondine; sempre Nenni scrisse “Il regolamento del Senato non contempla limiti di tempo per le dichiarazioni di voto, e taluni dei nostri compagni, per esempio il taciturno Morandi, avevano parlato per più di quattro ore.”. Infine però il 29 Marzo 1953, domenica delle palme, allorché esplose il tumulo più grosso il governo tentò e riuscì il colpo di mano per far passare la legge di nuovo con la questione di fiducia. Nenni racconta così gli eventi di quella giornata tragicomica “Ha cominciato Terracini col chiedere la parola per fatto personale. Rifiuto di Ruini. Poi per un richiamo al regolamento. Altro rifiuto. Allora è scoppiato un tumulto e nel tumulto Ruini ha fatto votare per alzata e seduta una pregiudiziale Bosco che dava la precedenza al voto di fiducia del governo. Ha dato la parola a Rizzo, che non ha sentito, al ministro Scelba, che ha rinunciato, e mentre si colluttava nell’aula e il Presidente stesso era assalito al suo banco, ha indetto la votazione per appello uninominale e proclamato il risultato mentre volavano pugni, schiaffi e perfino tavolette… Ruini era come nascosto dietro un duplice cordone di usceri e, pallido e tremante, parlava nel microfono facendo registrare le sue parole che nessuno nell’aula poteva udire. Quando affranto è uscito dall’aula, Ruini ha detto: “Ho salvato la democrazia, ma sono personalmente un uomo finito.”. I testimoni di quella giornata confermano sia la scazzottata generale, sia che frammenti dei banchi dei senatori volarono da una parte all’altra dell’aula. De Gasperi attribuì il tutto alla Provvidenza di Dio che aveva fatto in modo che le opposizioni si lasciassero cogliere di sorpresa dall’improvviso annuncio di Ruini della messa ai voti della legge. Certo al Fronte popolare restava la possibilità di contestare il verbale della seduta, innegabilmente voto e la sua chiusura erano stati al limite del regolamento, ma Luigi Einaudi troncò la vicenda firmando subito la legge e sciogliendo anticipatamente le Camere in quanto “per il Quirinale è sacro il messaggio che viene dai Presidenti delle Camere”.
La campagna elettorale del 1953 fu durissima; scopo del Fronte popolare fu sin da subito trasformare le elezioni in un referendum pro o contro la “legge truffa” e in ciò riuscirono senza problemi dato che, non essendo passato neanche un giorno dall’approvazione della legge, essa era l’argomento politico principale per tutto il paese. De Gasperi combatté nonostante fosse sotto il fuoco incrociato della sinistra, che tornò sulla sua presunta non italianità, sia della destra, che ironizzava sul resistente protetto dal Vaticano. Preoccupante per la Dc non era solo la possibile crescita della destra, ma anche il fatto che, proprio in conseguenza del dibattito sulla legge elettorale, dai suoi alleati laici si erano staccati tanti piccoli gruppi (in particolare Alleanza democratica nazionale di Corbino, Unione socialista indipendente e Unità popolare di Parri e Calamandrei) che avevano creato delle micro liste con il preciso scopo di far fallire il quorum del premio di maggioranza. Furono presentati 65 simboli e ognuno di questi poteva mangiare ai governativi quel centinaio di voti fondamentali ai fini del raggiungimento del 50,01% dei consensi. A sfavore dei governativi fu, secondo alcuni, anche l’improvvido intervento dell’ambasciatrice americana Clara Boothe Luce la quale avvertì il paese che, se i governativi avessero perso le elezioni, gli aiuti dagli Stati Uniti sarebbero stati riconsiderati. Se questa minaccia giocò a favore di DC e alleati nel 1948, quando l’Italia era allo stremo e viveva dei sussidi del piano Marshall, adesso che il paese si era ripreso la cosa venne avvertita come un infelice ricatto. Le votazioni si tennero il 7 Giugno e, dopo l’iniziale ben sperare per i dati del Senato, parve quasi subito chiaro che la soglia del 50,01% alla Camera fosse irraggiungibile. Montanelli racconta di come un giornalista, Enrico Mattei del “Resto del Carlino”, venne a sapere per primo del mancato scatto della legge: Mattei, intuendo che il silenzio del Viminale era sospetto, decise di ricorrere a un trucchetto e, telefonando al ministro del Mezzogiorno Campilli, finse di saperla lunga affermando che “Scelba sbagliava a temere manifestazioni di giubilo delle sinistre e a rinviare l’annuncio del mancato scatto della legge maggioritaria”. Campilli ci cadde con tutte le scarpe confermando che per questo motivo Scelba stava mettendo in pre-allarme le questure; simile trucchetto funzionò anche con Pella e Segni che confermarono che il quorum non era stato raggiunto. 49,85% dei voti, a tanto si fermò la coalizione di governo… a poco meno di 54.000 voti dall’obiettivo. Per i partiti laici fu un bagno di sangue: due milioni e mezzo di voti con i socialdemocratici passati da 33 a 19 seggi, i liberali da 19 a 14 mentre i repubblicani da 9 a 5. Ci si è però forse troppo concentrati sul risultato delle varie liste dei fuoriusciti da questi partiti; è vero che insieme Unità Popolare e Alleanza Democratica Nazionale presero l’1% dei voti, ma è anche vero che la sola DC aveva perso, rispetto al ’48, due milioni di voti passando dal 48% al 40%. Stragrande maggioranza di questi suffragi andarono alle destre con un milione e seicentomila di suffragi (+3,84) al MSI e un milione e ottocentocinquantamila voti (+4,07) al Partito nazionale monarchico di Achille Lauro. Anche il Fronte aveva guadagnato un milione di voti, ma quasi tutto a vantaggio dei comunisti anche se Nenni scrisse “Al diavolo l’analisi delle cifre! Quel che importa è aver bocciato la legge truffa!”. Ci fu però anche un raddoppio delle schede nulle e bianche; in seguito alcuni contestarono a De Gasperi di aver accettato subito il risultato e di non essere andato a cercare quei 54.000 voti tra le oltre novecentomila mila schede nulle della Camera. Certo forse se lo avesse fatto si sarebbe potuto ottenere il risultato, ma il Presidente del Consiglio era troppo uomo di Stato per non capire che un’azione del genere avrebbe solo esacerbato ulteriormente gli animi del paese. Da ogni prospettiva la si volesse vedere la scommessa del premio di maggioranza era stata persa e insistere avrebbe solo fatto danno visto che sul tavolo c’erano altre questioni politiche di grande importanza (prima tra tutte quella mai risolta di Trieste). Il paese aveva bisogno di tornare alla calma e comunque, a conti fatti, i partiti governativi apparentati avevano, grazie al computo, una seppur risicata maggioranza assoluta sia alla Camera che al Senato. Non è però questa la sede per raccontare i tentativi fatti per la formazione dell’ottavo governo De Gasperi, del suo fallimento nell’ottenere il voto di fiducia e dell’uscita di scena dello statista trentino che sarebbe morto l’Agosto dell’anno dopo tra i suoi monti a Borgo Valsugana. Poco meno di un mese prima, il 31 Luglio, la “legge truffa” era stata sbrigativamente abrogata restaurando il proporzionale puro che sarebbe rimasto in vigore sino al referendum dell’Aprile 1993.
In conclusione torniamo alla domanda iniziale: fu truffa? Da un punto di vista degli intenti credo di no; penso che De Gasperi fosse onesto nel suo ritenere che fosse l’unico strumento per garantire la governabilità e, comunque, al di là della polemica politica né Nenni né Togliatti credevano davvero che il Presidente del Consiglio fosse uomo da dar luogo a una svolta autoritaria se il quorum fosse stato raggiunto. Se invece andiamo a vedere lo spirito della legge… beh qui tutto dipende dall’opinione che si ha del premio di maggioranza come istituto. Da laureato in giurisprudenza mi sento di condividere i dubbi che avevano Calmandrei e Mortati sulla sua costituzionalità, ma la Corte costituzionale l’ha dichiarato ammissibile quindi alzo le mani. Resta un fatto che in tutte le democrazie occidentali solo l’Italia (con il porcellum), la Grecia e San Marino l’hanno previsto come correttivo della legge elettorale (mentre la Francia lo prevede, ma solo per le elezioni regionali); ciò sta a dimostrare come, nonostante il proporzionale sia il metodo più utilizzato come sistema elettorale, il premio di maggioranza resti un meccanismo guardato con una certa diffidenza. Va detto che, quando col porcellum venne sperimentato un premio di maggioranza in Italia, esso non fu da solo in grado di garantire la governabilità in quanto, pur producendo ampie maggioranze alla Camera, o il sistema di elezione del Senato (governo Prodi II) o le divisioni interne alla maggioranza di governo (governo Berlusconi IV) finivano per annullare tutti i vantaggi derivanti dal premio. Questo per me va a ulteriore dimostrazione che una legge elettorale non può, almeno non da solo, supplice al deficit di governabilità di un paese. Paradossalmente credo che se oggi venisse riproposta paro paro la legge truffa, col suo premio al 50,01%, sarebbe nuovamente contestata, ma per motivi diversi in quanto si direbbe che è fatta per non far vincere nessuno poiché in questo momento nessuno schieramento politico, neanche con le coalizioni, si potrebbe avvicinare a ottenere la metà più uno dei voti.
Bibliografia:
- Indro Montanelli e Mario Cervi, L’Italia del Miracolo
- Hans Kelsen, La Democrazia
- Pietro Nenni, Tempo di guerra fredda – Diari 1943 – 1956
Giovanni Pagliardini
2 Giugno 2020Nonostante i suoi ragionamenti fatti di capriole, di salti e di acrobazie, l’Autore non e’ riuscito a spiegare per quale motivo sarebbe democratico, anzi piu’ democratico, cambiare, falsare, stravolgere, con il premio di maggioranza, la volonta’ degli elettori!
Cio’ tenuto conto anche del fatto che, essendo la quantita’ dei parlamentari un numero fisso, se aumentiamo il numero dei seggi di coloro che hanno conseguito il premio, riduciamo automaticamente quello conseguito DEMOCRATICAMENTE dagli altri partiti!
Tutto questo conduce verso un regime autoritario, come e’ gia’ successo con la legge Acerbo. Complimenti!