Berlino fu, insieme a Pietroburgo, la capitale europea dove nei giorni conclusivi della crisi di Luglio l’incapacità del potere politico di tenere testa ai militari ebbe le più gravi conseguenze. Abbiamo visto che il cancelliere Bethmann-Hollweg, dopo le prime esplicite minacce di un intervento inglese, aveva improvvisamente cambiato rotta iniziando a tempestare Vienna di telegrammi in cui si chiedeva all’alleata di abbracciare la moderazione sotto forma dell’Halt in Belgrad. Nel precedente articolo ho narrato del perché questi appelli non sortirono effetto su Berchtold, ma adesso vedremo come anche a Berlino l’improvviso pacifismo del cancelliere non fu sufficiente a impedire la catastrofe. Anche nella capitale del Reich la situazione subì un improvviso peggioramento nella giornata del 30 Luglio allorché si diffuse la notizia che la Russia aveva proclamato la mobilitazione parziale; Guglielmo II ne ebbe conoscenza mezzo un messaggio personale dello Zar che gli provocò uno dei suoi eccessi di furore, il Kaiser infatti sì sentì ingannato da Nicola II che prima aveva chiesto la sua mediazione e adesso lo informava che già da cinque giorni le misure di mobilitazione erano state decise. Rabbioso Guglielmo fraintese il messaggio nel senso che la Russia stava già mobilitando da cinque giorni e, com’era suo costume, scrisse a lato del telegramma un commento che avrebbe avuto terribili effetti: “Allora devo mobilitare anch’io!”. Era forse il Kaiser transitato su posizioni belliciste? L’opinione generale degli storici è negativa e si ritiene che quelle parole fossero solo il frutto di una delle tante rabbiose reazioni che Guglielmo era solito avere quando le cose non andavano di suo gradimento. Oltretutto all’incirca nello stesso periodo il Kaiser ebbe una nuova ricaduta della sua anglofobia che lo portò a redigere una lunga nota in cui imputava alla sua eterna nemesi Edoardo VII l’aver creato le condizioni per l’accerchiamento che adesso poneva la Germania, causa l’ingenuità di Vienna, sull’orlo del baratro. Purtroppo però sembra che né i vertici civili né quelli militari si fecero scrupolo di accertare le reali intenzioni del loro imperatore, dando così per sconto che anche il Kaiser si fosse ormai arreso all’inevitabilità del conflitto. Bethmann-Hollweg infatti nella giornata del 30, pur continuando a chiedere a Vienna di venire incontro alla proposta dell’Halt in Belgrad, non diede mai all’alleato un preciso aut-aut, magari accennando che il casus foederis della Triplice non ricorreva in quella situazione. Invece il cancelliere recedeva su una linea molto debole con la quale si limitava a informare il Kaiser che, prima di rendere noto al mondo che a causa della mobilitazione russa lui non poteva più svolgere il suo ruolo di mediatore, era opportuno attendere di essere informati sulla posizione austriaca così, ancora una volta, da tentare di porre i russi dalla parte del torto. Albertini fa giustamente osservare come con tale scelta il cancelliere non solo sprecava inefficientemente le ultime ore utili per salvare la pace, ma di fatto consegnava a una Vienna ormai già decisa l’arbitrio di determinare se ci sarebbe stata la guerra. Esiti ancor più infausti ebbero le parole del Kaiser sul capo di stato maggiore Von Moltke; fino ad allora infatti i vertici militari del paese erano stati divisi tra un ministro della guerra Falkenhayn che già il giorno prima aveva chiesto la proclamazione dello Kriegsgefahrzustand e un Von Moltke che invece, interpretando la volontà del Kaiser, si era dimostrando più prudente e attendista. Risulta certo che l’atteggiamento del capo di stato maggiore mutò repentinamente intorno a mezzogiorno del 30 Luglio ed è altamente probabile che ciò fu dovuto alla lettura dei commenti del Kaiser al telegramma con cui Nicola II lo aveva informato della mobilitazione russa. Già da giorni i militari si erano orientati per la guerra e non per un furor teutonico guerrafondaio, ma perché, come molti altri vertici militari d’Europa, di fronte al sempre maggior restringersi delle speranze di pace si aveva il timore di lasciarsi trovare non preparati all’esplodere delle ostilità. Moltke era convinto che, adesso che la Russia stava mobilitando, bisognava procedere al più presto possibile con il Kriegsgefahrzustand, che era l’anticamera della mobilitazione tedesca, perché altrimenti il vantaggio temporale guadagnato da Pietroburgo sarebbe potuto diventare troppo rilevante e possibilmente fatale per la conduzione delle operazioni militari in caso di scoppio delle ostilità. In tal senso vanno intesi anche i messaggi, narrati nel precedente articolo, con cui il capo di stato maggiore tedesco chiedeva al suo omologo austriaco Conrad di accelerare i tempi della mobilitazione di Vienna così da creare il casus foederis. Questi messaggi, l’abbiamo visto, erano in aperto contrasto con i contemporanei messaggi di Bethmann-Hollweg con cui si chiedeva all’Austria di non far precipitare ulteriormente la situazione ed erano quindi una grave invasione di campo da parte dei militari sul terreno del potere politico. Alla Germania, come alla Russia, ci sarebbe voluto in quel momento un leader politico forte che avesse avuto l’autorità di rimettere in riga il capo di stato maggiore; invece Bethmann-Hollweg accettò supinamente che l’esercito prendesse sempre più il controllo della situazione nella consapevolezza che ciò consegnava di fatto solo all’onnipotente le speranze di evitare la catastrofe. Ed è drammatico osservare la consapevolezza di ciò da parte da parte del cancelliere in quanto questi, parlando quello stesso 30 Luglio al consiglio dei ministri, affermò fatalista che lui aveva “perduto la direzione e la pietra aveva cominciato a rotolare.”. Sempre quel giorno alcune frasi scritte da Bethmann-Hollweg in postilla a un telegramma proveniente da Pietroburgo suonano come un implicito mea culpa con cui si ammetteva che Vienna e Berlino si erano da sole poste su una strada senza uscita; il cancelliere infatti, dopo aver per settimane sostenuto la linea che l’ultimatum di Vienna andava soddisfatto per intero, così da conseguire un completo successo sull’Intesa, ammetteva adesso che l’Austria avrebbe anche potuto momentaneamente chiudere un occhio sui punti rifiutati da Belgrado nell’ottica dell’Halt in Belgrad… troppo tardi giunse questo rovesciamento completo d’animo. Dobbiamo comunque ricordare, e lo vedremo ancora a breve, che per quanto gravi siano state le responsabilità del cancelliere tedesco queste non si sarebbero mai prodotte in questo senso se da Londra, sin da subito, fosse giunto un chiaro monito sul fatto che la Gran Bretagna non sarebbe potuta restare neutrale a una guerra europea. Se i militari marciavano verso la guerra e il cancelliere era sempre più impotente, il Kaiser si muoveva invece disordinatamente confidando però ancora di poter salvare la pace; questo atteggiamento del sovrano nonché i continui messaggi dall’ambasciatore a Londra, in cui si comunicava che il governo inglese contava sul Reich per moderare Vienna promettendo in cambio la sua eterna gratitudine, spinsero Bethmann-Hollweg a un ultimo disperato tentativo. Questo tentativo passò alla storia come telegramma n° 200 in cui, per la prima volta, il cancelliere si rivolgeva duramente all’alleato affermando che l’Austria doveva accettare l’Halt in Belgrad perché altrimenti gli Imperi centrali sarebbero apparsi al mondo come gli unici responsabili della guerra. Il contenuto di questo telegramma si basava su un eccessivo confidare nella possibilità inglese di fermare la mobilitazione russa, ma comunque esso non giunse mai a conoscenza di Berchtold perché, poco dopo essere stato trasmesso all’ambasciata tedesca a Vienna, fu subito seguito da un secondo telegramma che ne sospendeva l’esecuzione. A fermare quest’ultimo, esile, tentativo del cancelliere di salvare la pace fu ancora una volta Von Moltke che, informato del tenore del messaggio, ne pretese la sospensione in quanto le esigenze militari richiedevano che non si frapponessero ulteriori ostacoli alla mobilitazione austriaca. Ormai i capi militari avevano completamente invaso il terreno del potere politico e Bethmann-Hollweg, invece di contrastare ciò, si stava piegando senza combattere promettendo anzi che sul Kriegsgefahrzustand si sarebbe deliberato entro il mezzogiorno del 31 Luglio. Probabilmente fu in quelle stesse ore che il cancelliere prese la grave decisione che, sempre il 31 Luglio, indipendentemente da quale fosse stata la risposta austriaca sarebbe stato inviato un ultimatum alla Russia con il quale le si sarebbe ingiunto di cessare con la mobilitazione delle sue forze. La scelta, grave già per il fatto che in quel momento la Russia ufficialmente stava mobilitando solo contro l’Austria, indicava come ormai anche Bethmann-Hollweg stesse iniziando a ritenere che le possibilità di salvare la pace fossero ridotte al lumicino; in caso contrario non si comprenderebbe perché il Reich, qualora incredibilmente Vienna avesse aderito all’ultimo all’Halt in Belgrad, si risolvesse comunque a provocare la Russia con un atto estremo come un ultimatum! Giunse dunque il 31 Luglio e alle 11:40 giungeva a Berlino il telegramma dell’ambasciatore tedesco a Pietroburgo Pourtalès con cui si comunicava che la Russia stava mobilitando anche alla frontiera con la Germania; Von Moltke in realtà già da ore sospettava, sulla base di vari rapporti che gli giungevano, che Pietroburgo avesse decretato la mobilitazione totale, ma per far cadere le ultime resistenze del potere politico era necessaria quella certezza che solo il telegramma di Pourtalès poté dare. Ultima diga alla catastrofe era rimasto solo Guglielmo II che si attaccava disperatamente a ogni fioca speranza; nelle note redatte in quelle ore il Kaiser sembra presagire come le condizioni in cui Reich stava per entrare in guerra non autorizzassero all’ottimismo e così, fino all’ultimo, mise in capo la sua diplomazia personale nel tentativo di far cambiare senso di marcia ai meccanismi ormai attivati. La notizia della mobilitazione totale russa e l’assalto congiunto di politici e militari spinse il Kaiser ad alzare bandiera bianca e così, nel primo pomeriggio del 31, autorizzò la proclamazione del Kriegsgefahrzustand. Ottenuto ciò il cancelliere si occupò della redazione dei due ultimatum da inviare a Parigi e Pietroburgo. In quello diretto alla Francia, come abbiamo già visto nel precedente articolo, si chiedeva al governo parigino quale contegno avrebbe tenuto in caso di guerra tra Germania e Russia; in coda si aggiungeva che, nell’irrealistica ipotesi in cui la Francia avesse avuto intenzione di dichiararsi neutrale, bisognava chiedere la cessione per tutta la durata del conflitto delle piazzeforti di Toul e Verdun. Perché una richiesta così oltraggiosa che sembrava fatta apposta per ferire l’orgoglio nazionale francese e spingerlo all’intransigenza? La risposta è che a Berlino nessuno riteneva possibile che la Francia lasciasse sola la Russia e comunque, dato che l’unico piano di guerra che esisteva era il piano Schlieffen, per i militari era quasi una iattura l’idea che Parigi restasse neutrale in quanto avrebbe sconvolto i loro piani di mobilitazione e guerra. L’ultimatum inviato a Pietroburgo invece affermava che, se entro dodici ore la Russia non avesse smesso di mobilitare, allora anche la Germania sarebbe stata costretta a mobilitare a sua volta; è fondamentale notare come in questo messaggio non si fece accenno, come invece si fece in quello diretto a Parigi e a Roma, che la mobilitazione tedesca avrebbe voluto dire guerra! Non si trattò di una dimenticanza e molti storici ritengono che questa omissione, gravissima, fu imposta dai militari al fine di non dare un “vantaggio” alla Russia e poterla anzi cogliere di sorpresa con la dichiarazione di guerra; come scrive Albertini “ormai si pensava solo al modo migliore, non di salvare la pace, ma di vincere la guerra”. Che ormai i vertici del Reich stesso marciando compatti verso la guerra è dimostrato anche dai messaggi inviati in quelle stesse ore a Vienna da Guglielmo II e da Von Moltke; entrambi avevano lo scopo di rendere edotta l’Austria dell’altissima probabilità di un imminente scoppio delle ostilità e di garantirsi che Vienna non concentrasse le sue forze contro la Serbia, soggetto divenuto secondario nel grande panorama degli eventi, ma contro la Russia verso la quale la Germania, sempre per il piano Schlieffen, in un primo momento avrebbe potuto operare solo in senso difensivo-contenitivo. Bethmann-Hollweg intanto lasciava cadere nel vuoto una nuova, pressante, richiesta inglese di intervenire sull’Austria anche se stavolta Grey si era spinto molto più avanti delle volte precedenti; il ministro inglese infatti aveva dichiarato che Londra sarebbe intervenuta per moderare Francia e Russia se Berlino faceva lo stesso con l’Austria, inoltre aggiungeva che la Gran Bretagna non avrebbe dimenticato questa disponibilità tedesca al dialogo nel caso in cui, comunque, fosse esploso un conflitto. Era di quanto più vicino a una promessa di neutralità che Grey avesse fatto in quei tragici giorni, ma a Berlino ormai il programma era stabilito e si rispose all’ambasciatore inglese che, fintanto che la Russia mobilitava, il Reich non poteva prendere in considerazione nessuna proposta. Verso mezzanotte del 31 Pourtalès consegnò l’ultimatum tedesco a Sazonov il quale, ovviamente, chiese per prima cosa se, come per la Russia, anche per la Germania la mobilitazione non volesse dire automaticamente la guerra. Il ministro degli esteri russo si illudeva infatti che, anche dopo che mezz’Europa aveva mobilitato, si potesse ancora continuare a negoziare; si capisce qui allora tutto il peso che ebbe la decisione di Berlino di non specificare che la sua mobilitazione avrebbe chiuso la partita definitivamente. Pourtalès, privo di istruzioni in merito e forse non completamente a conoscenza dei meccanismi del piano Schlieffen, dovette rispondere che “questo non era il caso, ma che alla guerra eravamo straordinariamente vicini”. Questa risposta aiuta a capire perché a Pietroburgo non si interpretò questo messaggio come un ultimatum di guerra e si rispondesse pressoché subito che, pur riconoscendo nelle attuali condizioni il diritto della Germania a mobilitare, per questioni di ordine tecnico era ormai impossibile sospendere i preparativi militari. Fosse la Germania stata più onesta le cose sarebbero andate diversamente? Difficile perché anche a Pietroburgo, come a Berlino, i militari ormai stavano dettando la linea alle autorità civili e anche lo Zar indicava nell’Altissimo l’unico che potesse salvare la pace. Siamo quindi giunti al fatidico 1° Agosto 1914 quando a Berlino si attendevano le risposte ai due ultimatum inviati, ma già alle 12:52 era stato inviato a Pourtalès il testo di una dichiarazione di guerra alla Russia da leggersi non appena il termine fosse scaduto. Nel pomeriggio, senza sapere ancora se si era o meno in guerra con la Russia, cancelliere, capo di stato maggiore e ministro della guerra si recarono dal Kaiser al castello di Potsadm per chiederne la firma all’ordine di mobilitazione. Il Kaiser, convinto ormai di aver fatto tutto il possibile per salvare la pace e che su altri doveva ricadere la colpa della guerra, alle 5:00 firmò l’atto che diede fuoco all’Europa.
Ho spesso scritto in questo e nei precedenti due articoli che la conclusione della crisi di Luglio fu condizionata dalla circostanza, sconosciuta fuori dal Reich, che per Berlino mobilitare voleva dire entrare in guerra e ciò in ragione delle meccaniche del piano Schlieffen. Conviene a questo punto dare delle informazioni su questo famigerato piano di guerra sia per far meglio comprendere ciò che ho scritto sino ad ora sia perché il suddetto piano fu determinante nel condurre all’intervento inglese. Anticipo subito che qui non farò un’accurata e specifica disamina militare del piano Schlieffen in quanto per far ciò sarebbe necessario discutere anche della sua controparte francese, lo scandaloso Plan XVII, nonché estendere la nostra narrazione ai giorni della guerra in quanto sarebbe necessario vedere anche come il piano venne concretamente attuato. Il piano elaborato dal conte Alfred Von Schlieffen nel 1905 era la diretta conseguenza dell’alleanza franco-russa: partendo dal presupposto che la Germania non sarebbe stata in grado di affrontare una guerra su due fronti, Schlieffen concluse che la miglior possibilità per il Reich fosse combattere una rapida “battaglia decisiva” contro uno dei due avversari, concentrando contro di esso il grosso delle forze, per metterlo fuori gioco e poter poi occuparsi indisturbato del nemico che rimaneva. Tenuto conto degli ampi spazi dell’Impero degli Zar, ma anche dei tempi elefantiaci per la mobilitazione del loro esercito, Schlieffen ritenne che il primo colpo sarebbe dovuto essere vibrato ad occidente contro la Francia che andava liquidata in massimo due mesi. Ora basta guardare una qualsiasi cartina geografica per avvedersi che la Germania, volendo attaccare la Francia, ha solo tre percorsi di invasione possibili: a Sud attraverso la Svizzera, al centro nella valle del Reno e sui Vosgi oppure a Nord attraverso il Belgio. La prima opzione era da scartare a causa del terreno montuoso svizzero e per l’assenza di obiettivi immediatamente decisivi nella Francia centro meridionale, mentre la seconda opzione era altrettanto impraticabile in quanto avrebbe voluto dire andare a sbattere direttamente contro il poderoso sistema di fortezze francesi costruito sull’asse Verdun – Toul – Epinal – Belfort; restava dunque una sola opzione: passare attraverso il Belgio. Ciò che Schlieffen elaborò fu una battaglia di Canne su grandi proporzioni quindi aggiramento e accerchiamento del nemico; com’è noto il cartaginese riuscì nel capolavoro di un doppio accerchiamento, ma Schlieffen, sebbene accarezzato dal sogno preferì non osare troppo elaborando un accerchiamento su un solo fianco. Così il suo piano prevedeva la creazione di una poderosa ala destra che, attraversando il Belgio, entrasse in Francia per poi piombare su Parigi, che doveva essere aggirata dalla punta destra estrema di questo schieramento, ponendosi così tra la capitale e il grosso delle forze francesi che si sarebbero trovate schiacciate tra le forze tedesche alle loro spalle e quelle lasciate a fare opera di contenimento alla frontiera. A far fronte ai russi, mentre si compiva questa gigantesca manovra, sarebbero rimaste solo dieci divisioni col compito di tenere duro finché la Francia non fosse stata debellata e fosse stato possibile inviare rinforzi ad Est. Sul suo letto di morte Schlieffen ebbe a dire “La faccenda deve concludersi in un unico scontro. Preoccupatevi soltanto che l’ala destra sia forte.”. La stragrande maggioranza degli storici militari sono concordi nel ritenere che, da un punto di vista esclusivamente militare, il piano Schlieffen fosse una magnifica creatura e che Schlieffen sia stato un brillante generale non ricordato come meriterebbe; tanto per fare un esempio questi aveva anche preso in considerazione l’ipotesi che gli inglesi si schierassero al fianco della Francia prevedendo lo schieramento di un corpo di spedizione di almeno 100.000 cosa che in seguito avvenne effettivamente. Purtroppo per la Germania il successore di Schlieffen, Von Moltke il giovane, era un personaggio insicuro e timoroso che, pur non rinnegando mai il piano del suo predecessore, vi apportò tante modifiche che ne condizionarono in maniera decisiva l’esecuzione. In primo luogo Moltke, temendo tanto i russi quando che la sua ala sinistra fosse troppo debole, disattese le istruzioni di Schlieffen e delle nove divisioni costituite tra il 1905 e il 1914 solo una venne assegnata all’ala destra. Secondariamente Schlieffen, al fine di avere il più ampio fronte di manovra per la sua ala destra e poter aggirare la fortezza di Liegi, aveva previsto che non solo la neutralità del Belgio andasse violata, ma anche quella olandese passando attraverso l’appendice di Maastricht. Von Moltke, ritenendo non opportuno correre il rischio di violare la neutralità di due paesi in una sola volta, decise di tagliare l’appendice di Maastricht dal piano solo che facendo ciò non solo costringeva la sue forze a muoversi in uno spazio molto più stretto, ma si obbligava a togliere di mezzo Liegi nel più breve tempo possibile per impedire che divenisse un ostacolo alla marcia dell’ala destra. La caratteristica più importante di questo piano ai fini della nostra narrazione è che i suoi tempi di svolgimento erano stati tarati a partire dal momento della mobilitazione tedesca che era indicato come giorno zero dell’inizio delle operazioni; per questo allora per la Germania mobilitare voleva dire entrare in guerra, perché il piano Schlieffen entrava in esecuzione nel momento stesso in cui fosse stato spiccato l’ordine di mobilitare. Il sistema di Schlieffen si fondava sul non perdere neanche un secondo nel portare l’attacco ad ovest per questo il giorno zero del piano, cioè il giorno della mobilitazione, bisognava subito entrare in Lussemburgo per impadronirsi del suo strategicamente fondamentale snodo ferroviario e allo stesso tempo inviare un ultimatum a Bruxelles per imporre al Belgio di lasciare campo aperto al passaggio delle divisioni tedesche. Così il dodicesimo giorno dalla mobilitazione (M-12) bisognava aver superato Liegi, M-19 essere arrivati a Bruxelles, M-22 superare la frontiera francese, M-31 raggiungere la linea Thionville – St. Quentin e infine M-39 occupare Parigi. Torneremo a breve su alcuni ulteriori punti del piano Schlieffen in merito al Belgio, ma per adesso recuperiamo il corso il corso degli eventi tenendo sempre a mente i dati che ho appena fornito. A Berlino erano passati una manciata di minuti dalla firma dell’ordine di mobilitazione quando l’ambasciatore tedesco a Londra trasmise una proposta assolutamente inaspettata: se la Germania accettava di restare neutrale nei confronti della Francia allora il Regno Unito non solo garantiva la propria neutralità, ma anche quella di Parigi. La notizia infervorò il Kaiser che ordinò che fossero subito richiamati Moltke e Falkenhayen per comunicargli che la guerra si sarebbe fatta solo ad Oriente e che dunque nessuna azione contro la Francia, o il Belgio, era ora necessaria. Moltke rimase senza parole anzi ebbe le parole per spiegare al suo sovrano che la Germania non aveva un piano di guerra solo contro la Russia, falso c’era ma era stato archiviato nel 1913, e che, essendo l’esercito preparato a mettere in esecuzione solo il piano Schlieffen, non c’era modo di portare ad est milioni di uomini senza che ciò creasse una confusione tale da trasformare le divisioni in una massa disorganizzata. Quando a guerra finita questa conversazione divenne pubblica il generale Von Staab, capo della sezione ferroviaria dell’esercito, dimostrò in un libro farcito di tabelle e grafici che, se gli fosse stato dato l’ordine quello stesso 1° Agosto, lui sarebbe stato in grado di trasferite ad Est quattro delle sette armate che erano da schierarsi ad Ovest. La risposta del Kaiser al suo capo di stato maggiore fu gelida “Suo zio mi avrebbe dato un’altra risposta.”; pur mancando la controprova di quanto affermato da Von Staab è probabile che la frase di Guglielmo non sia stata troppo lontana dal vero e che Von Moltke più che non potere non volle perché, cronicamente insicuro, non se la sentiva di abbandonare quella coperta di Linus che era il piano Schlieffen. Il Kasier, appoggiato da Bethmann-Hollweg e da Tirpitz tenne duro e alla fine ottenne da dei recalcitranti Moltke e Falkenhayen che si aderisse all’offerta inglese, senza per il momento sospendere le misure di mobilitazione, in attesa della conferma da Londra. Allo scopo lo stesso Kaiser inviò un urgente messaggio personale a re Giorgio V nel quale, chiedendo indirettamente conferma di ciò che Grey aveva affermato, si comunicava che per ragioni tecniche la mobilitazione ad ovest non poteva essere arrestata, ma che se la Francia restava neutrale il Reich non si sarebbe mosso per primo contro di essa. C’era però un altro problema sul tavolo e cioè che, come già raccontato, il piano Schlieffen prevedeva che, subito dopo l’ordine di mobilitazione, la 16a divisione di fanteria occupasse il Lussemburgo; Bethmann-Hollweg e il Kaiser ritennero che un gesto del genere sarebbe stato visto negativamente oltre Manica e così, senza chiedere l’opinione di Moltke, venne inviato l’ordine di non procedere con la violazione della neutralità del piccolo Granducato. Per il capo di stato maggiore quest’ordine fu un completo shock e nonostante le sue proteste Guglielmo si rifiutò di recedervi; la rottura tra i due era arrivata a un tal punto che Moltke, completamente devastato dalla paura che il piano a lungo preparato finisse nel caos, si rifiutò di controfirmare l’ordine dato dal Kaiser alla 16a divisione. Sembrava si fosse alla vigilia di uno scontro senza precedenti tra il potere politico e quello militare quando, alle 11:00, Moltke venne riconvocato a Potsdam. Mentre infatti il capo di stato maggiore tribolava da Londra era giunta la risposta di Giorgio V che affermava esserci stato un malinteso e che il Regno Unito non poteva garantire la neutralità francese, ma solo suggerire che Francia e Germania non aprissero le ostilità fintanto che ci poteva essere un accordo tra Russia ed Austria. Crollato improvvisamente il sogno Guglielmo non poté far altro che dire a Moltke che aveva via libera nella messa in esecuzione del piano Schlieffen. Ancora oggi gli storici non sono concordi su come si andò a creare questa assurda situazione e ci si divide tra chi ritiene che, nel turbinio di comunicazioni e incontri che si tenevano in quelle ore fatali, ci sia stato veramente un malinteso tra Grey e l’ambasciatore tedesco, e chi invece pensa che il ministro degli esteri di Londra, incerto sugli umori del paese e sugli impegni dell’Entente, possa essersi spinto troppo in là per poi fare gradualmente retromarcia una volta accortosi dell’enormità che aveva detto. Resta altresì opinione comune che l’enorme pressione psicologica di quelle ore schiantò emotivamente Von Moltke, contribuendo in maniera determinante al crollo mentale di cui il capo di stato maggiore fu vittima subito dopo la Marna. Mentre a Berlino andava in scena questo psicodramma, la dichiarazione di guerra alla Russia era già stata consegnata da Pourtalès a Sazonov alle sette di sera, con un ragguardevole ritardo dalla scadenza dell’ultimatum. Immediatamente la notizia venne comunicata a Iswolsky, che era ambasciatore a Parigi, il quale si recò all’Eliseo per metterne al corrente Poncaré e chiedere la solidarietà francese. Per quanto potente fosse Poncaré non poteva far entrare la Francia in guerra essendo questo un potere del parlamento, ma venne subito convocata una seduta del consiglio dei ministri che deliberò che il paese avrebbe adempiuto “nel modo più completo” ai doveri dell’alleanza. Parigi era però ben attenta a non dichiarare guerra per prima in quanto ciò l’avrebbe messa nella condizione di aggressore, posizione non ottima per chiedere l’aiuto inglese, quindi meglio attendere che la Germania facesse la prima mossa compromettendosi così di fronte all’opinione pubblica mondiale e in effetti a Berlino si discusse a lungo per due giorni se fosse opportuno dichiarare guerra alla Francia. Da un lato infatti non si poteva giustificare la violazione della neutralità dell’Lussemburgo e del Belgio senza che vi fosse uno stato di guerra con Parigi, allo stesso tempo però facendo così si perdevano le ultime, fievoli, speranze di ottenere il casus foederis da Italia e Romania nonché si aumentava esponenzialmente il rischio di un intervento inglese. A vertici del poter tedesco era il caos più completo; dubbi e incertezze in merito al Belgio e al rischio di un intervento inglese animavano i politici mentre i militari insistevano che, di fatto o di diritto, la Germania era ormai in guerra con l’Intesa e che l’attraversamento del Belgio era necessario. Tirpitz concluse causticamente che la direzione politica del Reich era ormai completamente acefala in quanto “al cancelliere le redini sono sfuggite completamente di mano”. Va detto che l’ammiraglio aveva su di sé la grave responsabilità di aver contribuito a mettere nell’angolo la Germania con il suo rifiuto di accettare una qualsiasi convenzione navale con Londra, ma resta il fatto che in quelle drammatiche ore fu l’unico ad avere un quadro politico lucido della situazione e a tentare di contrapporsi alla marcia di Moltke chiedendo se non fosse opportuno attendere prima di compiere il non ritorno dell’ultimatum al Belgio e della dichiarazione di guerra alla Francia. La confusione creata dalla “proposta” di Grey aveva fatto in modo che la dichiarazione di guerra alla Francia non fosse presentata e anche dopo che la vicenda fu chiarita il cancelliere non ebbe il coraggio di autorizzare la cosa; vi fu un nuovo scontro tra Bethmann-Hollweg e Moltke dove il secondo affermava che la necessità di una dichiarazione di guerra era superata dai fatti mentre il primo affermava che senza di quella l’attraversamento del Belgio sarebbe stata una catastrofe diplomatica. Si andò avanti con queste discussioni per tutto il 2 Agosto, mentre intanto il Lussemburgo era già stato invaso, giornata nella quale, sia da parte francese che da parte tedesca, si denunciarono ripetuti sconfinamenti e atti di aggressione. Probabilmente da entrambe le parti qualche pattuglia si prese delle eccessive libertà e si ebbero così dei limitati sconti a fuoco, ma lo stesso stato maggiore tedesco dovette chiedere che non fossero diffuse notizie prima di una loro verifica in quanto stavano girando storie assurde come di medici francesi che avvelenavano i pozzi di villaggi di confine tedeschi. Altrettanto ridicola era la notizia che un aereo francese avesse bombardato la linea ferroviaria presso Norimberga, ma si decise di usarla comunque tra i motivi a giustificazione della dichiarazione di guerra a Parigi. Ci si era infatti infine decisi, probabilmente in un estremo tentativo di rendere più digeribile a Londra il passaggio attraverso il Belgio, e così nel primo pomeriggio del 3 Agosto il testo della dichiarazione venne trasmessa all’ambasciatore tedesco in Francia. Questo messaggio giunse in parte illeggibile e l’ambasciatore, ritenendo non fosse il caso di perdere tempo chiedendo chiarimenti a Berlino, si recò al Quai d’Orsay dopo le 18:00 per comunicare a Viviani che Germania e Francia erano in guerra sulla base solo dell’affermazione del bombardamento di Norimberga e su presunti sconfinamenti aerei sul Belgio; la mala fede tedesca era poi ancor più evidente se si tiene conto che già da quasi ventiquattr’ore era stato consegnato al Belgio l’ultimatum con cui gli si ingiungeva di lasciare libero passaggio alle forze tedesche dirette contro la Francia.
Nel 1839, alla nascita del Belgio a seguito della violenta separazione dall’Olanda, con il trattato dei XXIV articoli le cinque potenze garanti (Francia, Gran Bretagna, Russia, Austria e Prussia) avevano accettato di riconoscere il nuovo stato indipendente e neutrale facendosi carico di proteggere questo status quo. Sarebbe lungo e ci riporterebbe indietro ricostruire l’intera storia dei rapporti del Belgio con le altre grandi potenze europee, per cui focalizzeremo i punti fondamentali che ci permettano di inquadrare la situazione all’alba del 2 Agosto 1914. Dopo la nascita del Reich il Belgio era stato sempre tendenzialmente tedescofilo e anti-francese, ciò anche perché la maggioranza cattolico-conservatrice guardava con una certa ostilità alla Francia repubblicana e laicista. Gran protettore di Bruxelles restava però il Regno Unito interessato a ché nessuna grande potenza prendesse possesso dei suoi strategici porti sulla Manica (Anversa, Ostenda, Zeebrugge e Nieuport) e tanto era risaputo questo interesse inglese a ché la neutralità del Belgio fosse rispettata che Bismark, al momento della scoppio della guerra franco-prussiana, si affrettò ad informare Londra che le truppe prussiane si sarebbero tenute ben lontane dal confine belga. Spesso si dice che l’Intesa fu colta di sorpresa dal piano Schlieffen; non è vero perché già nel 1904 le spie russe avevano scoperto che questi prevedeva l’attraversamento del Belgio. In realtà il motivo per cui i franco-inglesi si trovarono a mal partito nell’Agosto-Settembre 1914 fu perché avevano sottovalutato le dimensioni dell’ala destra tedesca, non prendendo in considerazione che Schlieffen potesse aver pensato di irrobustirla schierando le riserve in prima linea, il che unito con l’infausto meccanismo del plan XVII creò i presupposti per un possibile disastro militare. Anche i belgi però erano, o avrebbero potuto se non si fossero volutamente coperti gli occhi, capire quali fossero le intenzioni dei tedeschi. Nel 1904 infatti Leopoldo II dei belgi si recò in visita a Guglielmo II e durante una cena il Kaiser gli disse esplicitamente che in caso di guerra il Belgio si sarebbe trovato nel centro della tempesta e che “se sarete con noi vi ridarò le province fiamminghe che la Francia vi ha tolto contro ogni diritto e rifarò per voi il ducato di Borgogna”; di fronte però alla reazione stupefatta di Leopoldo, che tentò di districarsi dall’infelice situazione dicendo che solo il Parlamento belga poteva decidere una cosa del genere, Guglielmo ebbe uno dei suoi accessi di furore perché il re anteponeva Parlamento e ministri allo strumento della provvidenza. Simili discorsi tanto il Kaiser che Von Moltke li fecero anche al successore di Leopoldo, Alberto I, ricevendo però ancora una volta risposte chiaramente negative all’idea di un impegno del Belgio in contrasto con la sua neutralità. Nonostante questi segnali in Germania, forse per la costante germanofilia dei governi di Bruxelles o forse per la scarsa preparazione militare di questi, si continuò ad essere dell’opinione che al momento decisivo il Belgio si sarebbe scansato. Ho detto che da un punto esclusivamente militare il piano Schileffen era magnifico, da un punto di vista politico-diplomatico era però catastrofico e lo stesso Schlieffen se ne rese conto infatti nella sua versione del piano si prevedeva di prendere tempo al fine di spingere la Francia a violare per prima la neutralità del Belgio o permettere ai diplomatici tedeschi di convincere Bruxelles. Von Moltke però, tagliando dal piano l’appendice di Maastricht, si trovò nella necessità di prendere Liegi nei primi giorni di guerra per evitare che diventasse un cul de sac per l’intera ala destra tedesca; ciò voleva dire che non si poteva fare concessioni al tempo: o Belgio cedeva subito oppure bisognava agire senza il suo consenso! Al contrario dei militari, fino all’ultimo convinti che la violazione della neutralità del Belgio fosse una questione di vita o di morte per il Reich, i diplomatici avevano invece chiaro quale disastro per l’immagine della Germania sarebbe stato se Bruxelles avesse deciso di opporsi. A fatto compiuto tanto Jagow che Zimmermann, cioè le due massime autorità del ministero degli esteri, ammisero con l’ambasciatore americano che il Belgio era sempre stato limpido nella sua condotta e che di fatto i militari avevano imposto la loro posizione al potere politico. Da parte sua Moltke fino all’ultimo rimase convinto che, nel peggiore dei casi, Bruxelles si sarebbe limitata a una protesta formale e ancora nei giorni della Marna tentava, attraverso l’ambasciatore olandese, di convincere re Alberto I a rinunciare all’impari lotta. Va detto che lo stesso Belgio, con la sua ossessione di volersi dimostrare al di sopra delle parti in caso di conflitto, fu in parte artefice della sua disgrazia in quanto non diede mai chiaramente ad intendere che avrebbe difeso armi alla mano i suoi confini né pretese mai da Berlino una chiara dichiarazione che, in caso di conflagrazione generale, la sua neutralità sarebbe stata rispettata. Dichiarazioni del genere vennero invece dalla Francia sia prima che dopo la nascita dell’Entente; Parigi aveva capito quale peso Londra desse a ciò che avveniva sull’altra sponda della Manica e quindi, al fine di aumentare le sue chance di avere gli inglesi al fianco, non si fecero scrupoli a ripetere più volte che mai avrebbe violato per prima il confine belga. In realtà le cose era state un po’ più complesse perché i vertici militari inglesi e francesi, che prendevano accordi molto più in là di quanto il governo di Londra avrebbe gradito, erano preoccupati per la scarsa preparazione militare belga e per il fatto che Bruxelles non chiarisse come si sarebbe comportata nel momento in cui i tedeschi avessero agito. In particolare infastidiva il fatto che il governo belga non spiegasse se, nel caso in cui la Germania per prima avesse violato la neutralità, Francia e Gran Bretagna fossero autorizzate ad entrare immediatamente nel paese per contrastare l’avanzata tedesca. Comunque alcune mezze parole e l’avvio di un programma di riforme militari fu sufficiente perché Parigi decidesse che, al momento della guerra, si sarebbe dovuto, fino a che le necessità militari lo avessero permesso, evitare di entrare in Belgio. Nonostante il peggiorare della crisi di Luglio tanto il Primo ministro Broqueville che il ministro degli esteri Davignon ostentarono ottimismo e all’annuncio che in Germania era stato proclamato il Kriegsgefahrzustand si decise solo per la mobilitazione dell’esercito da schierarsi però lungo il confine sia con il Reich che con la Francia. Ancora il 31 Luglio Davignon rispondeva agli ambasciatori inglesi e francesi che il Belgio, seppur intenzionato a difendere armi alla mano la sua neutralità, aveva piena fiducia che la Germania avrebbe rispettato il trattato del 1839… la sua fiducia fu annientata di colpo dall’ambasciatore tedesco alle 19:00 del 2 Agosto. Eppure qualche dubbio il ministro degli esteri forse il 1° Agosto iniziò ad intravederlo visto che da Berlino latitava un’esplicita affermazione di rispetto della neutralità belga, che invece Parigi aveva offerto già da giorni, e che quella stessa sera Davignon diede il suo assenso a una lettera che Alberto intendeva inviare a Guglielmo per ricordargli l’atteggiamento tedesco nel 1870. Al 1° Agosto però dal Reich non potevano giungere rassicurazioni del genere perché già da quarantott’ore era arrivato alla legazione tedesca a Bruxelles un plico che conteneva il testo dell’ultimatum da presentare al governo belga quando fosse giunto il momento.
Tra tutti i documenti della crisi di Luglio l’ultimatum al Belgio resta sicuramente il più ipocrita ed infame. Questo fu redatto da Moltke già il 26 Luglio, ma in ciò non bisogna vedere una prova delle intenzioni aggressive della Germania, quanto invece una semplice precauzione dettata dal rapido peggioramento della situazione europea. In esso si chiedeva a Bruxelles di garantire una neutralità benevola a Berlino in quanto, essendoci “prove” dell’intenzione francese di attaccare il Reich passando per il Belgio, si temeva che questi non fosse in grado di mettere in atto una difesa tale da garantire la sicurezza dei confini tedeschi senza che le truppe germaniche intervenissero in prima persona. In cambio di ciò la Germania garantiva l’integrità e l’indipendenza belga, di acconsentire a future soddisfazioni territoriali di Bruxelles a scapito della Francia e di pagare tutto ciò che le sue truppe avessero consumato; se però il Belgio avesse deciso di resistere “la Germania, suo malgrado, si vedrebbe costretta a trattarlo come un nemico.”. Il ministero degli esteri fece qualche lieve alterazione al testo ad esempio rimuovendo la promessa di compensazioni territoriali in quanto, da giorni, si stava ripetendo a Londra che la Germania non intendeva modificare l’assetto territoriale della Francia e affermare il contrario nell’ultimatum a Bruxelles sarebbe stato estremamente provocatorio. Nonostante ciò il tenore del documento non cambiava: la Germania chiedeva al Belgio di girarsi dall’altra parte e tenere il sacco mentre lei svaligiava la Francia. In seguito tutti, anche in Germania, furono concordi che l’ultimatum fu un gigantesco errore psicologico perché di fatto metteva Bruxelles nell’alternativa tra l’umiliazione e la resistenza; tentare poi di gabellare il tutto come un generoso atto per prevenire un attacco francese non solo sottintendeva che il Belgio non fosse in grado di difendersi da sé, ma faceva finta di ignorare ciò che il Kaiser e lo stesso Moltke avevano ripetuto negli ultimi anni tanto a Leopoldo II che ad Alberto I. Qualcuno ha supposto che se invece dell’ultimatum i tedeschi si fossero limitati al fatto compiuto chiedendo scusa in un secondo momento forse il tutto sarebbe apparso come meno preordinato e dunque più digeribile per l’orgoglio nazionale belga; tesi interessante, ma difficilmente credibile data la presenza a Bruxelles di due personalità integre e moralmente irreprensibili come Alberto I e Broqueville. Altri hanno affermato che se Berlino si fosse limitata a muovere le sue truppe a sud della Mosa senza avvicinarsi alla Manica una reazione inglese sarebbe stata meno probabile; questa tesi sembra più veritiera dati alcuni documenti emersi dagli archivi di stato di Londra, ma farlo avrebbe voluto dire modificare la sostanza del piano Schlieffen che era proprio ciò che Moltke non era assolutamente intenzionato a fare. La verità è che entrambe queste ipotesi avrebbe richiesto un minimo di flessibilità mentale e di lungimiranza politica, doti entrambe di cui il capo di stato maggiore tedesco in quel momento era privo data la sua ossessione a mettere in moto il sacro piano di guerra il prima possibile. Che le cose non sarebbero andate come sperava lo stato maggiore del Reich l’ambasciatore tedesco dovette intuirlo non appena consegnò l’ultimatum a Davignon; il pur germanofilo ministro in un primo momento impallidì balbettando “No! Non è vero!” per poi prorompere in una reazione di furiosa indignazione negando sia che vi fosse in atto un attacco francese su Namur, sia che il Belgio, in una eventualità del genere, non avrebbe garantito la difesa del suo territorio e dunque la sicurezza tedesca. Tanto il primo ministro Broqueville che re Alberto, non appena messi al corrente del documento, non ebbero esitazione a decidere subito per la linea del rifiuto totale delle pretese tedesche e atteggiamento simile venne assunto all’unanimità dal Consiglio di Stato dove di nuovo vi furono manifestazione di profonda indignazione per le parole di Berlino. Probabilmente parte di questa vemenza era dovuta al rendersi conto di quanto preordinato e fraudolento fosse stato l’atteggiamento tedesco in quei mesi (es. il costante rifiuto di dare qualsivoglia garanzia sul rispetto della neutralità belga), comportamento comunque che era stato volutamente sottovalutato da Bruxelles per la sua ossessione di mantenersi super partes. Gran parte del Consiglio di Stato non fu dedicato al decidere sul come rispondere a Berlino, ma ad indagare su quale fosse lo stato effettivo delle forze armate belga. I generali affermarono che il paese era pronto “ma manca l’artiglieria”, in realtà mancava molto di più dell’artiglieria e alcune fantasiose fughe in avanti come un’avanzata su Aquisgrana sarebbero ben presto state affossate della spaventosa violenza del rullo compressore tedesco. Più seria e significante fu invece la discussione su quale atteggiamento si sarebbe dovuto tenere di fronte ad offerte d’aiuto da parte di Francia e Gran Bretagna; il re riteneva che queste dovessero essere condizionate da precise garanzie in merito all’integrità territoriale belga e all’indipendenza del suo esercito, ma il ministro di Stato Hymans troncò corto affermando “Quando si sta per annegare, chi sarebbe mai tanto sciocco da chiedere a chi lo salva di far vedere le sue carte?”. Si decise così per il compromesso di respingere ogni richiesta d’aiuto fintanto che i tedeschi non avessero dato seguito alle loro minacce; ciò tradiva la speranza di Bruxelles che Berlino all’ultimo rinsavisse e recedesse dal suo intento. La risposta preparata all’ultimatum fu, nel suo contenuto, una durissima requisitoria contro l’atteggiamento del Reich che contribuì a far perdere a Berlino la battaglia dell’opinione pubblica internazionale “L’attentato alla sua indipendenza (del Belgio) di cui la minaccia il governo tedesco costituirebbe una flagrante violazione del diritto delle genti. Nessun interesse strategico vale e giustifica la violazione del diritto. Il governo belga, accettando le proposte che gli si sono notificate, sacrificherebbe l’onore della nazione e nello stesso tempo tradirebbe i suoi doveri di fronte all’Europa. Cosciente della parte che da oltre ottant’anni il Belgio rappresenta nella civiltà mondiale, esso si rifiuta di credere che la sua indipendenza non possa essere conservata che a prezzo della violazione della sua neutralità. Ove questa speranza vada delusa, il governo belga è fermamente deciso a respingere con tutti i messi in suo potere qualsiasi attentato al suo diritto.”. Alle 7:00 del 3 Agosto questa risposta venne consegnata alla legazione belga mentre il contenuto dell’ultimatum tedesco veniva reso pubblico scatenando vementi reazione di orgoglio nazionale e ostilità anti-tedesca nella popolazione. Comunque come detto Bruxelles si illuse che questa reazione ferma facesse vacillare la volontà tedesca e così rifiutò una prima offerta di assistenza militare da parte francese, anzi finché le truppe tedesche non varcarono la frontiera alle forze belga al confine con la Francia fu ordinato di aprire il fuoco contro soldati francesi che fossero entrati in Belgio armati. Questo atteggiamento teso un po’ a conservate la purezza di fronte al mondo, un po’ a non dare alibi alla Germania per la sua azione, creò molta apprensione a Parigi dove si temeva che alla fine davvero i belgi si sarebbero scansati al passaggio dei tedeschi. A Berlino la risposta creò un certo disappunto in Moltke che chiese al ministero degli esteri di non renderla pubblica nella convinzione che, una volta avuto un assaggio della potenza del Reich, Bruxelles sarebbe venuta a più miti consigli; così alle 8:00 del mattino del 4 Agosto le prime avanguardie tedesche entrarono in Belgio nei pressi di Gemmenich gridando “Viva il Belgio!”. Speranze vane dato che quella stessa mattina, senza ancora sapere dell’avvenuta invasione, re Alberto si era recato in Parlamento, tenendovi un discorso teso in cui faceva appello alla resistenza e all’unità nazionale, al termine del quale all’unanimità venne votata la resistenza ad oltranza. Quasi sicuramente questa ambiguità del governo tedesco, la risposta all’ultimatum non divenne pubblica in Germania che dopo la guerra, contribuì a rendere incomprensibile per soldati e gente comune l’atteggiamento belga, un membro della legazione a Bruxelles disse “Poveri matti! Perché non si tolgono dalla strada del rullo compressore? Non li vogliamo ferire, ma se si mettono sulla nostra strada verranno schiacciati come polvere!”, e a creare quella rabbia che avrebbe dato luogo al così detto “stupro del Belgio”. Di fronte alla conferma che truppe tedesche erano penetrate in Belgio, rendendo effettiva la violazione della neutralità, al governo di Broqueville non rimase altra scelta se non rivolgere un appello a Francia, Gran Bretagna e Russia per ricevere assistenza nell’azione di difesa dell’indipendenza del territorio belga: “Il governo belga è fermamente deciso a resistere con ogni mezzo in poter suo. Il Belgio fa appello all’Inghilterra, alla Francia e alla Russia perché cooperino, come garanti, alla difesa del suo territorio.”. La palla adesso passava a Londra, unico attore ancora alla finestra, che veniva adesso direttamente chiamato in causa, come garante dell’indipendenza belga, a decidere quale ruolo dovesse giocare nella tragedia che stava per compiersi.
Bibliografia:
- Luigi Albertini, Le origini della Grande Guerra Vol. 3
- Christopher Clark, I sonnambuli – Come l’Europa arrivò alla Grande Guerra
- Margaret MacMillan, 1914 – Come la luce di spense sul mondo di ieri
- Barbara Tuchman, I cannoni d’Agosto
- Basil H. Liddell Hart, La prima guerra mondiale
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