
DI CARLO BONACCORSO
INTRODUZIONE
Dopo l’Unità d’Italia, avvenuta nel 1861, i territori dell’ex Regno delle Due Sicilie subirono un forte tracollo economico e sociale che peggiorò negli anni successivi. Molti dei fautori dell’impresa garibaldina, camice rosse della prima ora, dovettero riconoscere il fallimento di quell’impresa che negli anni a seguire venne riconosciuta come Risorgimento. Quest’ultimo, infatti, letto in chiave mazziniana, si poneva inizialmente l’obiettivo di creare uno stato federale in grado di coinvolgere nella vita politica i cittadini tutti; un movimento che dal basso potesse spingersi verso l’alto. Così non fu. La centralizzazione e gli eccidi che le truppe piemontesi perpetrano nel Sud Italia, distrussero le speranze di chi sognava una Italia popolare e confederata. Lo stesso Gramsci, anni dopo, nei suoi Quaderni dal carcere, parlò di “rivoluzione mancata”, riferendosi al mancato coinvolgimento popolare durante il processo unitario, descrivendolo come una operazione portata avanti da élite borghesi che estromisero le classi umili, peggiorando di fatto la loro situazione. La frangia “moderata” che sostenne la centralizzazione dello stato, non fece altro che alimentare quell’ideologia autonomista che crebbe negli anni successivi al 1860 in Sicilia. Le diverse sollevazioni che avvennero nell’isola subito dopo l’Unità, furono la prova non solo di un deciso malcontento, ma soprattutto dimostrarono quanto forte poteva essere la spinta autonomista nella terra di Trinacria; le due guerre e il ventennio di dittatura, poi, non fecero altro che accrescere quei sentimenti anti italiani che portarono a quell’ondata di separatismo che contraddistinse il secondo dopoguerra siciliano.
L’IDEOLOGIA AUTONOMISTA IN SICILIA
Già prima del processo unitario, in Sicilia, rivolte erano scoppiate contro i Borboni. In particolare, quella del 1848, assunse caratteri indipendentisti. La storiografia, oggi, individua in essa un desiderio di unità, ma differenti furono i progetti di quel governo provvisorio che governò per un anno lo stato di Sicilia. Non volendo il Re concedere autonomia all’isola, nel Gennaio di quell’anno la Sicilia insorse. Classe baronale e frange della popolazione cacciarono i Borboni e nominarono un governo provvisorio guidato da Ruggero Settimo. Il 25 Marzo ci furono le elezioni e venne proclamata ufficialmente la nascita dello Stato di Sicilia. Non stiamo qui ad addentrarci nell’esame delle differenti ideologie presenti all’interno del neonato Parlamento, ma i contrasti furono talmente forti che poco tempo dopo l’esercito del Regno delle Due Sicilie, sconfisse il fragile esercito siciliano e riconquistò l’isola. Bisogna però considerare di grande importanza l’intenzione unanime dei promotori della rivolta: la creazione di uno stato indipendente. Il 1 Aprile del 1848, infatti, venne proclamata l’adesione della Sicilia libera e indipendente ad una federazione di Stati Italiani. L’obiettivo, di fatti, non fu quello di una unità totale della penisola, bensì una confederazione di stati italiani sotto un’unica entità politica ma soprattutto economica: La Lega Italica. Ben differente da quello che poi fu l’evoluzione del processo unitario. Da quel fallimento fino al 1860, l’antinapoletanismo crebbe così che i progetti unitari divennero sempre più popolari. Attenzione però: la concezione unitaria nell’isola non prevedeva nessun accentramento (motivo d’odio nei confronti di Napoli), ma piuttosto decentramento amministrativo o federalismo. Moderati e democratici convenivano su questo.
Interessante, a questo proposito, è il pensiero di Francesco Ferrara economista palermitano; egli, nel ’60, condannava l’ipotesi (poi divenuta realtà) di un sistema accentratore, proponendo per la Sicilia qualcosa a cavallo tra decentramento e autonomia: Le abitudini autonomistiche – egli affermava – soffocate ora dall’entusiasmo della nazionalità nascente, non perciò sono morte, né sradicate dal cuore della moltitudine. Il timore di nuocere all’unità di azione oggi le comprime; ma più tardi la pace e sicurezza potranno farle risorgere con tutto il vigore che son capaci di attingere nei secoli che le hanno nutrite1. Lo stesso Mazzini, cui i democratici siciliani erano in contatto, si dichiarò favorevole ad una amministrazione speciale in Sicilia, consultandosi proprio con gli amici isolani: Se anche per consenso comune la tesi unitaria prevalesse, noi sorgeremmo nell’Assemblea per chiedere…che la Sicilia riceva indipendenza di amministrazione, un corpo suo che diriga i suoi interessi economici e diritti di nomina di tutti i suoi impiegati, salvo i pochi incaricati di rappresentare il nesso veramente politico con la Nazione2. Ci fu, dunque, un accesso dibattito in Sicilia, circa la posizione che essa avrebbe dovuto mantenere all’interno del neonato stato italiano. Non solo periodici e riviste, ma anche opuscoli anonimi, dimostrarono quanto fosse viva l’idea di una autonomia speciale, cosa questa desiderata dalla maggior parte degli isolani. Non solo da un punto di vista economico e sociale, ma anche territoriale; mentre le terre del Nord Italia, non avrebbero problemi ad accettare una annessione completa al regno del Piemonte, in quanto conseguenza della realtà geografica, diversa invece è per una isola distante chilometri, dove un centralismo ridurrebbe tale territorio alla povertà ed alla rovina. E fu quello che, effettivamente, avvenne. Unità sì, ma rifiutando l’accentramento di tipo francese. Si arriva così a quell’ultimo tentativo, prima del plebiscito, di trovare una soluzione al problema della Sicilia; il Consiglio Straordinario di Stato, composto da figure eminenti della politica siciliana, cercò di studiare il tipo di amministrazione migliore per l’isola e presentare successivamente le proposte elaborate al Parlamento generale. Siamo nell’Ottobre del 1860. Come riporta Massimo Ganci nel suo “L’Italia antimoderata”, il Consiglio riuscì ad elaborare uno schema amministrativo articolato sui seguenti concetti: 1) La Sicilia come una delle grandi divisioni territoriali, con una esistenza propria; 2) un Luogotenente del Re avrebbe dovuto avere il potere esecutivo delegato dallo Stato e di conseguenza mettersi a capo della Regione; 3) sempre la figura del Luogotenente, sarebbe stata responsabile di un Consiglio deliberante elettivo; 4) quest’ultimo avrebbe avuto capacità di legiferare con impegno da parte del Luogotenente della pubblicazione entro 15 giorni dalla deliberazione; 5) alla Regione sarebbe spettata competenza nei Lavori Pubblici, Istruzione pubblica, Opere pie e Istituzioni di credito. Una proposta che si rifaceva pienamente ad una effettiva autonomia. E non venne mai applicata.
Con l’avvento della Destra al potere, infatti, si optò per una sorta di dittatura temporanea in cui lo Stato, pienamente accentratore, si sarebbe fatto carico di uniformare la vita economica e sociale di tutto il paese, decretando poi la fine di tale regime politico. Tutto ciò non avvenne e il Meridione si avviò inevitabilmente verso quel tracollo che mai sembra essere terminato. Quella dittatura temporanea, in effetti, non ebbe mai fine. Accentramento e cesarismo, dunque, si instaurarono in Italia, tralasciando le particolarità di quelle zone differenti dal Nord Italia che avrebbero necessitato di altri interventi; invece, industrializzando una parte del paese, a scapito di un’altra, emanando decreti e leggi uguali per tutti i territori (ma inutili ed inefficaci soprattutto al Sud), si arrivò ad una netta contrapposizione Nord Sud, dando inizio a quella Questione meridionale mai veramente risolta.La scelta politica della Destra, dunque, alimentò la corrente autonomista siciliana, con tendenza verso il separatismo. Il Cattolicesimo, dal canto suo, con una forte riserva antiunitaria, alimentò tali sentimenti anche se risulterebbe riduttivo limitarlo solo a questo, o vedere solo in esso la causa di una forte presenza dell’ideologia autonomista/federalista/separatista. I liberali e successivamente anche i socialisti, rivendicarono posizioni fortemente autonomiste.
Non possiamo dimenticare la posizione fortemente autonomista di Francesco Paolo Perez, che con la sua opera La centralizzazione e la libertà, scritta nel 1862, descriveva in maniera impeccabile il problema della struttura amministrativa dello Stato; per una maggiore maturità del popolo, l’autogoverno rimane l’unica strada da percorrere: L’unità politica italiana in tanto è e può sussistere in quanto l’individuo vi è stato condotto e mantenuto da quella sede crescente di associazioni e governi che dalla Famiglia, dal Municipio, e dalla Regione sono venuti gradatamente elevendolo a riconoscere il bisogno dell’associazione politica di tutta la Nazione3. Francesco Paolo Perez, dunque, dimostra di portare avanti proposte fortemente autonomistiche, sviluppando una coscienza siciliana che negli anni successivi andrà sempre più sviluppandosi.
Andando avanti nel tempo, figure più estreme come il democratico (poi socialista) Napoleone Colajanni, sostennero la tesi dell’auto governo e della creazione di una classe politica siciliana in grado di combattere i clan politici e mafiosi che soffocavano la Sicilia e la rendevano inferiore al resto dell’Italia. Proprio da questo si arriverà poi al famoso Memorandum dei socialisti, redatto nel 1896, dopo l’esperienza dei Fasci dei Lavoratori, in cui veniva chiaramente precisato il bisogno di un ordinamento locale che rendesse l’isola una unità politica. Rifacendosi ad esperienze quali la Rivolta del Sette e Mezzo, avvenuta nel 1866 e chiamata così per la sua durata, il Memorandum condannò l’accentramento voluto dai governi italiani, accentramento che di fatto portò la Sicilia ad una povertà estrema, fregandosene dei bisogni dell’isola, chiaramente differenti da quelli di altri territori, rendendola misera.
Arriviamo così al Novecento, dove il fallimento dello Stato liberale dava spazio a due correnti: quella socialista e quella cattolica. Il primo viveva un periodo di forte instabilità: il suo massimo esponente, Turati, trovò una sorte di equilibrio con il liberal Giolitti, estromettendo il meridionalismo dai suoi obiettivi. Proprio per questo, escluso qualche esponente della corrente socialista, il socialismo in Italia non diede spazio ad istanze regionalistiche. Di conseguenza, fu la corrente cattolica a farsi carico di queste rivendicazioni, grazie alla figura di Don Luigi Sturzo. Egli sosteneva la necessità di una nuova concezione dello Stato che facesse della Regione una unità convergente e non divergente dallo Stato4. Bisogna comunque considerare la moderazione del nostro, in quanto non sostenne mai appieno l’autonomismo in tutte le sue forme, cercò una conciliazione tra la visione tendente all’accentramento e quella democratica che sosteneva l’autogoverno locale. Si dovevano considerare intoccabili, secondo lui, le funzioni fondamentali dello Stato come politica interna ed esterna, finanza, guerra, giustizia, trattati commerciali, etc., in quanto lo Stato italiano era “unitario e non federale”5. Il suo Partito Popolare Italiano fu espressione di tutto ciò, contribuendo ad un rilancio dell’autonomismo nel primo dopoguerra. Nel corso degli anni, diversi furono gli esponenti ed intellettuali che portarono avanti rivendicazioni autonomistiche. La marcia su Roma prima e la definitiva presa del potere da parte del Fascismo, costrinsero al silenzio tali rivendicazioni che, però, non scomparvero mai durante il ventennio e che si ripresentarono prepotenti dopo la liberazione della Sicilia da parte degli alleati. Esplose, infatti, l’indipendentismo siciliano.
IL MOVIMENTO PER L’INDIPENDENZA DELLA SICILIA
Tendenzialmente, la storiografia presenta il MIS (Movimento per l’Indipendenza della Sicilia) come un movimento filo americano, voluto da essi e mafioso. Tutto ciò porta a screditare il MIS, oscurandone la enorme partecipazione popolare e le vicende complesse che portarono alla sua nascita e alla sua evoluzione.
Dopo lo sbarco americano in Sicilia, avvenuto il 10 Luglio 1943 sotto il nome in codice “Husky”, l’isola venne liberata dalla presenza fascista, incontrando di fatto poca resistenza. La riunione di Casablanca, avvenuta mesi prima tra Churchill, Eisenhower, Montgomery e Roosevelt, individuò la Sicilia come punto di approdo per la liberazione di tutta la penisola italiana. Oltre alla scarsa preparazione dei soldati italiani, la facile conquista fu anche conseguenza di un grosso malcontento popolare nei confronti del fascismo, autore di politiche scellerate. Uno tra questi, come ricorda giustamente Massimo Ganci, fu l’allontanamento di tutti i funzionari pubblici siciliani, accusati di tendenze separatiste. In effetti, durante il ventennio, diversi furono i settori e le organizzazioni che presentavano al loro interno elementi antifascisti e indipendentisti. Soprattutto tra le organizzazioni giovanili (Gruppi Universitari Fascisti); lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e i danni che essa portò alla società siciliana, accentuarono il malcontento, portando i dissidenti presenti all’interno dei GUF, ad un avvicinamento verso quelle organizzazioni clandestine antifasciste. Non solo studenti ma anche e soprattutto docenti. Come Antonio Canepa, considerato il padre dell’indipendentismo siciliano, in chiave socialista. Già nel 1942, circolavano opuscoli indipendentisti, di diversa connotazione politica. Quello di Lucio Tasca, proprietario terriero, glorificava il latifondo, definendolo come unità inscindibile per l’economia isolana. Il titolo, infatti, Elogio del latifondo siciliano, parlava chiaro. Di tendenza fortemente conservatrice, egli sosteneva l’indipendenza come l’unica reale possibilità di sviluppo per la Sicilia.
Un altro opuscolo, La Sicilia ai Siciliani, apparteneva al già citato Antonio Canepa che sotto lo pseudonimo Mario Turri, sosteneva una indipendenza voluta dal popolo, descrivendo le tante rivoluzioni anti borboniche prima e anti italiane dopo e presentando l’insularità come fattore determinante. La sua era una ideologia indipendentista di stampo socialista.
Massimo Ganci parla di due principali gruppi che si svilupparono all’interno dell’indipendentismo siciliano: quello palermitano che faceva capo a Lucio Tasca e quello catanese, più evoluto ideologicamente, che si rifaceva soprattutto ad Attilio Castrogiovanni. Tuttavia, non c’era ancora quella figura preminente, in grado di riunire in un solo blocco tutte le correnti indipendentiste. Arrivò poco dopo: Andrea Finocchiaro Aprile.
ANDREA FINOCCHIARO APRILE E IL MIS
“Un vecchio gentiluomo molto simpatico, scrutando con attenzione i volti del gente, s’aggirava per le strade di Palermo la mattina di mercoledì 28 Luglio 1943. A Palermo la guerra era finita da sei giorni, altrove in Sicilia continuava. Si chiamava Andrea Finocchiaro Aprile, palermitano di nascita, massone, di professione avvocato. Aveva 65 anni. Prima del fascismo era stato – eletto per la prima volta a Corleone quando era professore di storia del diritto – deputato per tre legislature, dal 1913 al 1924, e sottosegretario prima alla guerra e poi al tesoro. Ma, avendo partecipato alla protesta dell’Aventino, nel ’24 – ’25, aveva dovuto subire qualche (minima) rappresaglia fascista; si era ritirato perciò dalla vita politica, dedicandosi esclusivamente all’attività professionale, nella capitale dove ormai da un decennio s’era definitivamente stabilito.” Così Salvatore Nicolosi descrive Andrea Finocchiaro Aprile nel suo libro “Sicilia contro Italia”, edito da Carmelo Tringale e pubblicato nel 1981. La figura principale del MIS non era dunque l’ultimo arrivato. La sua enorme esperienza politica fu determinante, soprattutto all’inizio, quando il Movimento Indipendentista ottenne un consenso popolare altissimo.
Già durante il fascismo, il leader dell’indipendentismo isolano, ebbe contatti con l’antifascismo ma salvaguardando l’apparenza. In particolare, entrò nei gruppi “Sicilia e libertà” che poco avevano a che fare con l’ideologia separatista, ma molti, successivamente, furono gli uomini che vi aderirono. Anche i giornali più importanti, tra cui L’Ora, sostennero l’indipendentismo. Tornati dopo un lungo silenzio, infatti, diedero voce ad esso.
Dopo la conquista, gli alleati instaurarono nell’isola, un governo militare, l’AMGOT. Una delle prime mosse che fece fu quella di impedire la propaganda di partiti politici, tutti tranne uno: il MIS. Perché gli alleati furono permissivi con gli indipendentisti? Poletti, ufficiale capo degli affari civili della Sicilia, era un simpatizzante separatista. Di origini italiane e, sembra, vicino agli ambienti mafiosi, permise la divulgazione di manifesti separatisti. Ridurre però il MIS a mera creazione mafiosa è ingiusta ed errata. La verità è che agli alleati faceva gola una nazione indipendente, legata agli USA, in una zona strategica come il Mediterraneo. Ecco perché figure come Canepa, non videro mai di buon occhio questo “ambiguo” sostegno, preferendo puntare sulla volontà popolare.
Tornando a Finocchiaro Aprile, il 23 Luglio1943, comparve un manifesto scritto proprio dal politico siciliano e firmato CIS (Comitato per l’indipendenza della Sicilia) e sottoscritto da siciliani di spicco; in esso, si ringraziavano le forze alleate per aver liberato l’isola dal fascismo, incentrando poi l’argomento sui bisogni del popolo siciliano e sul fallimento dell’Unità italiana. Il finale è un accorato appello a USA e Gran Bretagna affinché sostengano il processo di indipendenza: …la Sicilia, che cementerà e rinsalderà i rapporti dei tre paesi, destinati a procedere insieme sulla via della civiltà e della libertà6.
La reazione delle altre componenti politiche non si fece attendere; in particolare, il Partito Comunista, pur sostenendo le rivendicazioni meridionaliste, attaccò duramente Finocchiaro Aprile, accusando il movimento di essere conservatore e reazionario.
Il 28 Luglio, Palermo si svegliò con dei manifesti ancora a firma CIS, nel quale si faceva appello al diritto di autodecisione, uno degli otto punti della Carta Atlantica e successivamente, si muovevano accuse contro la casa regnante dei Savoia, rea d’aver sorretto il fascismo e dissanguato la Sicilia sin dal 1860.
Intanto il CIS diventava MIS, Movimento per l’Indipendenza della Sicilia. Al suo interno vivevano diverse correnti, da quella repubblicana a quella monarchica, da quella latifondista a quella socialista. Proprio questo amalgama di idee, seppur bella da un punto di vista ideologico, fu in realtà uno dei maggiori problemi che il MIS e Finocchiaro Aprile dovettero gestire e sarà una delle cause della fine dell’indipendentismo siciliano. Una delle figure più affascinanti e persuasive, fu Antonio Canepa, autore dell’opuscolo diventato poi vademecum dell’ideologia separatista, La Sicilia ai Siciliani, firmata sotto pseudonimo di Mario Turri.
ANTONIO CANEPA E LA RIVOLUZIONE SOCIALE INDIPENDENTISTA
“Quando faremo la Repubblica sociale in Sicilia, i feudatari dovranno darci le loro terre, se non vorranno darci le loro teste”.
Con queste parole, Antonio Canepa dimostrava tutta la sua rabbia verso coloro che sfruttavano i poveri contadini siciliani, contribuendo a diffondere in quel ceto, un ideale indipendentista fatto di equità e giustizia sociale. Chi era Antonio Canepa? Figlio di un avvocato, Pietro e di Teresa, appartenente alla importante famiglia dei Pecoraro, Antonio nacque il 25 Ottobre 1908 a Palermo. Nel 1929 si laureò in Giurisprudenza con una tesi dal titolo “Unità e pluralità degli ordinamenti giuridici”; seppur un lavoro apparentemente insospettabile, in realtà celava idee anarchiche, socialiste, vicino al comunismo ma non tali. Dopo la laurea partecipò, insieme con il fratello e con un amico, tale Luigi Attinelli, ad un tentativo di colpo di stato a San Marino, in quel momento fascista. Il colpo fallì e dopo l’arresto, tutti vennero scarcerati in quanto Mussolini volle soprassedere per non alimentare fuochi pericolosi.
Tornato in Sicilia, si trasferì a Catania dove gli venne assegnata la cattedra universitaria di Storia e dottrina del fascismo. Rispettò con assoluta devozione tale compito e riuscì a mantenere separate le due personalità: un Antonio Canepa camerata devoto e un Mario Turri antifascista e indipendentista. Collaborò con il SIS, il sistema di spionaggio inglese e combatté con la Resistenza in Toscana che ben presto lasciò in quanto in disaccordo con i partigiani comunisti della Brigata Garibaldi. Fondò anche un suo partito, “Partito dei Lavoratori”, ma abbandonò tutto per tornare in Sicilia. Era il 20 Ottobre 1944.
Insieme con Antonio Varvaro, rappresentò l’ala di sinistra del MIS, fortemente presente all’interno del movimento. Nel Febbraio del 1945, Canepa decise di formare l’EVIS, Esercito Volontario Indipendenza Sicilia, una formazione paramilitare. I motivi della lotta armata vanno ricercati nel cambiamento che ci fu in quegli anni in Sicilia. Dopo un iniziale appoggio delle forze alleate agli indipendentisti, infatti, le forze statunitensi e inglesi, nel 1944, decisero di riconsegnare la Sicilia all’Italia, frattanto governata da un governo composto da elementi del Comitato di Liberazione Nazionale. In Sicilia il divieto di propaganda era stato tolto e i partiti del CLN attaccarono duramente il MIS (diverse furono le aggressioni alle sedi locali del movimento indipendentista); la Lega Giovanile Separatista, organizzazione giovanile vicina al MIS, si scontrò più volte con militanti del Partito Comunista e non solo, ma contò tantissimi iscritti. I partiti anti separatisti si mossero a livello nazionale per contrastare in tutti i modi l’avanzata dell’indipendentismo, in particolare la DC che con figure di alto rilievo quali Aldisio, ad esempio, combatterono duramente Finocchiaro Aprile. Questo clima di tensione, trovò il suo apice nella strage del Pane, avvenuta a Palermo il 19 Ottobre del 1944.
Le proteste di diverse categorie di professione erano all’ordine del giorno, ma una in particolare merita d’essere ricordata. Quel giorno, infatti, i dipendenti comunali, in sciopero già da alcuni giorni, decisero di manifestare davanti la Prefettura per chiedere migliori condizioni contrattuali. Quel corteo, però, a poco a poco si allargò; gli abitanti di Palermo, stanchi di povertà, miseria, oppressione ed ingiustizie, decisero in maniera del tutto spontanea di unirsi a quella protesta, trasformando uno sciopero di categoria, in una vera e propria manifestazione popolare. Vecchi, donne, giovani e bambini, scesero in strada per chiedere pane, lavoro e libertà. Il vice prefetto Pampillonia, in assenza del suo superiore ed allarmato dall’evolversi dello sciopero, decise di chiamare l’esercito: a mobilitarsi fu il 139° Reggimento Fanteria della Divisione Sabauda. Uomini armati di fucile e bombe a mano, si schierarono davanti la Prefettura con l’ordine di tenere cariche le armi. Fu un attimo: dopo una prima esplosione, partirono gli spari dei fucili e conseguentemente lanci di bombe a mano. Sul selciato rimasero 20 morti; 150 i feriti. La maggior parte delle vittime aveva un’età compresa tra i 7 ed i 16 anni. Da diverse correnti partirono accuse verso i separatisti rei, secondo alcuni, di aver armato la gente. Non ci fu mai, però, una prova evidente di tutto ciò.
Probabilmente, tali accuse miravano a screditare il Congresso del Movimento Indipendentista che in quei giorni si riuniva a Taormina. In più, bisogna menzionare la circolare dell’Agosto del 1944 inerente alla gestione di disordini, in cui si autorizzava l’esercito ad operare per servizi di ordine pubblico. I risultati, purtroppo, furono tragici. Gli ufficiali ed i soldati della divisione Sabauda vennero deferiti al Tribunale Militare, ma il 22 Febbraio del 1947 le accuse di omicidio colposo vennero ridotte in “eccesso colposo in legittima difesa”.
Tale fatto portò Antonio Canepa alla formazione di gruppi paramilitari, convinto ormai della necessità di conquistare l’indipendenza attraverso la lotta armata. In più, in quel periodo, diversi centri dell’isola vennero sconvolti da sommosse organizzate per contrastare il richiamo alla leva, voluto dal governo Bonomi. In particolare, Comiso fu il luogo dove avvenne la più rivolta più aspra. I partiti politici e i giornali loro vicini, attribuirono la colpa di questi tragici eventi agli indipendentisti in combutta con i fascisti, ma nessuna prova lo conferma. In alcuni posti, probabilmente, elementi dell’indipendentismo contribuirono alle sollevazioni, come a Comiso, dove il vessillo giallo – oro, venne alzato dopo la conquista del Municipio. Ma parlare di un piano insurrezionale è esagerato.
Tornando a Canepa, la sua formazione militare venne organizzata in gruppi e operò prevalentemente con azioni di guerriglia. Tuttavia, l’EVIS di Canepa durò poco; il 17 Giugno 1945, presso Murazzu Ruttu (contrada di Randazzo), il Comandante degli indipendentisti morì in un agguato dei Carabinieri, in circostanze ancora oggi poco chiare. Lo storico Lino Carruba, si è interessato al caso, pubblicando un libro Antonio Canepa e il separatismo siciliano, edizioni Armando Riesi. Secondo lo studioso, infatti, il motocarro oltre a trasportare Canepa, conteneva al suo interno altri volontari dell’EVIS (Carmelo Rosano, Giuseppe Lo Giudice, Giuseppe Amato il conducente, Antonio Velis ed Armando Romano). Ufficialmente morì in uno scontro a fuoco con i Carabinieri dove tra l’altro persero la vita anche Rosano (22 anni) e Lo Giudice (18 anni). Il magistrato Salvatore Riggio, che anni dopo riaprì il caso, riporta le dichiarazioni del sopravvissuto Amato, dichiarazioni queste non prive di contraddizioni. I Carabinieri intimarono l’alt al motocarro che trasportava i soldati dell’EVIS, il quale invece-come descrive Riggio- continuò la sua corsa. Uno dei Carabinieri allora sparò un colpo intimidatorio in alto ed il motocarro si fermò (anche per le cattive condizioni della strada); il carabiniere notò i mitra ed i moschetti all’interno del cassone del motocarro. Subito dopo iniziò lo scontro a fuoco. Tuttavia il magistrato cerca di mettere a fuoco le contraddizioni che emersero dal verbale dell’interrogatorio “reso l’indomani al Capitano Arturo dal maresciallo Rizzotto e secondo il quale questi, alla vista delle armi sul cassone, diede ordine ai suoi dipendenti di non sparare in quanto, spiega il Rizzotto, si rafforzò in me l’idea che si trattasse dell’operazione prevista.” Questa versione rafforzerebbe la tesi secondo cui i soldati dell’EVIS non avevano armi in pugno al momento dell’alt imposto dai Carabinieri. Sempre durante lo scontro la bomba che Canepa teneva in tasca esplose, uccidendo Rosano e ferendolo gravemente. Rimangono però diversi punti ancora oscuri sulla morte del comandante dell’EVIS, come ad esempio i mancati soccorsi. Antonio, infatti, non morì sul colpo, ma si ferì gravemente ad una gamba (come detto prima); fu lasciato solo senza aiuti, morendo poco dopo dissanguato. Un altro fatto poco chiaro avvenne al cimitero, dove il custode ricevette quattro bare contenenti i militari dell’EVIS morti nello scontro; tuttavia, lo stesso custode si rese subito conto che uno degli uomini all’interno delle bare non era ancora morto, riuscendo così a salvarlo.
La direzione dell’EVIS passò a Concetto Gallo, pseudonimo Secondo Turri, il quale prese la decisione di coinvolgere anche diversi gruppi di banditi, tra cui Salvatore Giuliano, per contrastare meglio le forze italiane. Degna di nota, fu la battaglia di San Mauro, avvenuta il 29 Dicembre 1945, in cui pochi combattenti dell’EVIS contrastarono un intero battaglione italiano, composto da 3000 soldati e guidati dal Generale Fiumara. Concetto Gallo salvò i pochi uomini rimasti, venendo catturato. L’EVIS venne eliminato e di lì a poco anche il MIS (che non appoggiò mai ufficialmente il movimento armato), iniziò il suo declino per opera delle altre forze politiche.
I PARTITI ITALIANI CONTRO GLI INDIPENDENTISTI
Partito Comunista e Democrazia Cristiana furono i nemici più acerrimi del Movimento indipendentista. Entrambi presenti all’interno del CLN, le due realtà politiche fronteggiarono l’indipendentismo per motivazioni diverse. Il primo, galvanizzato dal ritorno di Togliatti dall’URSS, si pose come obiettivo la conquista della masse agrarie del Sud, ma con strumenti legalitari, cosa questa che lo mise in contrasto con il Partito Socialista. Bisogna altresì precisare, che non tutti i comunisti siciliani erano contrari all’ideale indipendentista. Il Partito Comunista Siciliano, infatti, diede il suo appoggio al MIS, distaccandosi dal PCI.
La Democrazia Cristiana, invece, aveva in Aldisio la sua figura più rappresentativa e forte in Sicilia; membro della giunta consultiva dell’Alto Commissariato per la Sicilia, combatté Finocchiaro Aprile con tutti i suoi mezzi a disposizione, preferendo una soluzione autonomista per la gestione amministrativa dell’isola.
Il 1944 fu l’anno più caldo in Sicilia; guerriglie urbane tra separatisti e unitari avvenivano ogni giorno, la dialettica nelle orazioni era feroce; Aldisio, al tempo Ministero degli Interni, vietava i comizi agli indipendentisti che lo etichettarono come il loro nemico numero uno; tuttavia, nei municipi e per le strade, era il MIS ad avere la maggioranza. In quell’anno infatti, raggiunse i 480000 iscritti, contro i 25000 del Partito Comunista. Un abisso che portò i partiti unitari a coalizzarsi per fronteggiarlo. Ed una delle prime mosse fu quella di eliminare l’Alto Commissario Musotto, mettendo al suo posto Aldisio. La sua nomina venne caldeggiata da un comunista, Li Causi. Grazie alla sua posizione, l’uomo della DC operò immediatamente contro i separatisti; chiese l’allontanamento degli ufficiali alleati vicini al MIS e tirò dalla sua parte i giornali che commentarono la sua nomina con articoli tendenzialmente favorevoli. Solo le testate indipendentiste furono contrarie. A saltare fu poi il sindaco indipendentista di Palermo, Lucio Tasca. I partiti unitari chiesero ai loro assessori di dimettersi, lasciando Tasca da solo. Non esistendo ancora un Consiglio Comunale, il sindaco presentò le proprie dimissioni, salutando i cittadini con molta amarezza: Cittadini! – esordiva – su richiesta del locale Comitato di Liberazione, i partiti politici hanno invitato gli Assessori loro aderenti a dimettersi dall’Amministrazione comunale provocando in questo modo la crisi. Alla dittatura fascista si sostituisce quella del Comitato di Liberazione7.
La lotta continuò senza sosta e Aldisio ottenne sempre più vittorie. A nulla valse il memorandum scritto da Finocchiaro Aprile e indirizzato alla conferenza di San Francisco delle Nazioni Unite, rifacendosi al diritto all’autodeterminazione; Aldisio riuscì a far chiudere le sedi del MIS, stringendo sempre più a tenaglia il leader indipendentista fino al suo arresto avvenuto il 1 Ottobre 1945; insieme con lui fu arrestato anche Antonio Varvaro ed entrambi vennero confinati a Ponza. La repressione verso tutto l’ambiente indipendentista fu feroce. Aldisio cercò di portare il MIS verso una ideologia federalista, più facilmente accettabile.
Finocchiaro Aprile, però non accettò e rimase confinato fino al Marzo del 1946 e sempre in quell’anno, eletto deputato all’Assemblea Costituente (il MIS prese in Sicilia il 9%). Lì cercò di dire la sua durante la creazione dello Statuto d’Autonomia che di fatto, avrebbe dato alla Sicilia quell’autonomia speciale che negli anni successivi nessuno mai cercò di applicare realmente. Andrea Finocchiaro Aprile ed il MIS dovettero accettare quell’autonomia che mai amarono.
CONCLUSIONI
Parlare di autonomia e separatismo dal 1860 fino al 1947 è impresa ardua, in quanto la storia di quel periodo è tanta e anche se diversi studiosi si sono occupati di studiarla, essa rimane ancora misteriosa sotto certi aspetti. Si è cercato qui di descrivere in maniera generale ma vera, l’evoluzione di quelle ideologie che da sempre hanno riempito le teste e i cuori dei siciliani. E ci sembra anche giusto ricordare chi, in nome della propria terra, ha cercato di fare il bene, seppur con i loro errori.
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Note:
Eduardo D'Amore
9 Ottobre 2017No problem. If you want to stay up to date on blog activities just sign up for our Facebook page Restorica