Di Carlo Bonaccorso
Con questa terza pubblicazione, andremo ad esaminare il contesto economico e sociale nel quale crebbero e si svilupparono i Fasci rurali e le motivazioni che indussero i lavoratori delle campagne e i minatori ad organizzarsi; con uno sguardo agli anni precedenti al gennaio del 1893 e alla strage di Caltavuturo che fu d’innesco all’esplosione del primo movimento di massa dei lavoratori dell’Italia unita.
La letteratura sui fasci è esaustiva ed ha ampiamente trattato molti degli aspetti politico-economici e sociali legati ad essi; quello che qui si vuol fare è dare uno sguardo ulteriore a quei fatti che seppur distanti da noi più di cento anni, ancora oggi trovano poco spazio nella storiografia nazionale. Ed il motivo è legato probabilmente ad alcuni loro aspetti di difficile interpretazione; d’altronde, la classe contadina siciliana ha sempre visto affibbiarsi diverse etichette: “servile”, “passiva”, ma anche “ribelle” riferito a quel ribellismo spontaneo privo di organizzazione, frutto di una violenza scatenata da uno sfogo di rabbia per una situazione sociale ed economica tragica. Ecco perché è sempre risultato difficile vedere nei Fasci siciliani una vera e propria forma di organizzazione sindacale decisa e compatta e che ebbe la capacità di portare avanti le proprie rivendicazioni senza l’uso della violenza, con un programma chiaro e ideologicamente posizionato. Certo gli errori furono tanti, ma non tali a nostro avviso da oscurarne l’importanza; i Fasci furono uno spartiacque nella storia siciliana e nazionale in quanto ebbero il merito di togliere quelle etichette ad una classe lavoratrice che da quel momento in poi seppe indubbiamente organizzarsi con maggior vigore. Come disse Labriola, essi furono il secondo grande movimento di massa dopo quello di Roma del 1888-1889 e certo con più fondamento di cause permanenti.
Ma in quella seconda metà dell’Ottocento, pochi avrebbero previsto la formazione di organizzazioni sindacali contadine. Se le grandi città, infatti, avevano già da tempo avuto modo di constatare l’effettiva azione delle organizzazioni operaie, la campagna era estranea, se non in alcune eccezioni e in forme “controllate”, all’attivismo sindacale. La crisi agraria che scoppiò negli anni ’80 dell’Ottocento (1883-1895) e che raggiunse il suo apice nel 1892, portando alla caduta dei salari, l’aumenti dei fitti, recessione produttiva, aumento della disoccupazione, crollo dei prezzi agricoli, concorse a far accelerare un processo di risveglio che tuttavia era già in atto anni prima. Risveglio che coinvolse i piccoli proprietari terrieri, soprattutto coloro che da anni si dedicavano alla produzione di vino e agrumi, pesantemente danneggiati dalla guerra doganale che il governo italiano della Sinistra storica scatenò contro la Francia, conseguenza del legame che andava instaurandosi con la Germania, venendo meno così al trattato commerciale stipulato nel 1861 e rinnovato nel 1881; un mercato quello francese estremamente importante per la Sicilia per l’alta richiesta di vino e agrumi. Le tariffe protezionistiche che vennero introdotte nel 1887 garantivano la tutela di prodotti industriali prodotti prevalentemente al Nord (metallurgici e tessili) e dei cereali che favorirono unicamente i grossi latifondisti del Sud. Quello che fu il primo slancio industriale e moderno dell’Italia unita, trovò la sua collocazione prevalentemente nella zona del Nord, voluto da quella Sinistra che pure aveva la sua roccaforte elettorale nel Sud e in special modo in Sicilia. Vi fu una tacita alleanza tra borghesia industriale settentrionale e aristocrazia terriera meridionale avallata dalle figure governative che seppero ben difendere gli interessi di entrambe, facendo ricadere gli effetti nefasti della crisi interamente sulla classe lavoratrice. In Sicilia crollarono le esportazioni di vino che negli anni precedenti avevano invece raggiunti alti livelli (negli anni compresi tra il 1870 e il 1883, la produzione balzò da 4.246.363 ettolitri a 7.652.207 ettolitri annui1); a peggiorare le cose, inoltre, il flagello della fillossera, insetto di origine americana che attaccava le radici delle piante divorandone le foglie e che distrusse le coltivazioni, portando di fatti numerosissimi piccoli produttori alla proletarizzazione. Tale crollo produttivo si sentì soprattutto nel trapanese e nella zona sudorientale dove tali coltivazioni erano maggiormente presenti e altamente produttive; Salvatore Cantarella, viticoltore, nel 1875 rilevava nel ragusano la presenza di 200 milioni di viti con una produzione di 400 mila ettolitri, dimostrando la crescita che tale produzione ebbe in quella zona.
Anche gli agrumeti crebbero di numero: da 6.040.050 piante del 1872-76 a 10.115.796 nel 1883 con numerosi investimenti da parte dei piccoli produttori e anche qui vi fu un balzo della trasformazione delle colture nelle zone soprattutto costiere. Risulta evidente, quindi, quanto devastanti furono gli effetti della crisi su questi piccoli produttori che d’un tratto si ritrovarono a non poter pagare più manodopera, dovendo far fronte a debiti insolvibili. L’arrivo di grano dall’America, inoltre, grazie ai miglioramenti nei collegamenti transoceanici, concorse a rendere ancora più acuta la crisi.
Si trattava di piccoli e medi proprietari terrieri con pochi ettari di terra, necessari alla sopravvivenza. C’era chi, inoltre, di terra non ne aveva proprio. Il tema della redistribuzione fu un argomento di rivendicazione presente da sempre nell’intera classe contadina, tornata ancora più in auge in quegli anni per via di quella mancata promessa fatta da Garibaldi all’indomani dell’Unità d’Italia:
Dalla vendita dei beni ecclesiastici, da cui doveva derivare la costituzione di un numero notevole di nuovi piccoli e medi proprietari, secondo anche le intenzioni dei legislatori, avevano tratto principalmente profitto i “capitalisti”, com’erano denominati nell’isola i detentori di cospicuo denaro e i grandi proprietari di terre. Dalla divisione delle terre demaniali (dove si era giunti a portarla a termine, ché la gran parte invece restava ancora incompiuta, o rimanevano in piedi rivendicazioni e contestazioni insolute) che era destinata, già sotto il regno dei Borboni, a fornire di terra i lavoratori campagnuoli che ne erano sprovvisti, avevano tratto vantaggio di solito i proprietari del luogo, e specialmente i borghesi delle amministrazioni municipali.2
Lo stesso Francesco Renda dichiarò che mentre i mille sbarcati in Sicilia miravano all’unità, i contadini siciliani partecipavano per veder realizzato il sogno della terra, di veder finalmente realizzata una giustizia sociale.3
Si trattava di terre ecclesiastiche confiscate e di terre demaniali, entrambe destinate ad essere assegnate ai contadini nullatenenti, con carattere ereditario, secondo Decreto del 2 Giugno 1860; i grandi proprietari terrieri, inoltre, avrebbero dovuto cedere 1/3 delle loro terre ai comuni di pertinenza. Venne confermata l’abolizione degli usi civici già decretata con i Borbone e vennero cancellati i diritti di pascolo nelle terre demaniali. Ma tale redistribuzione non venne mai fatta; il decreto venne abolito poco tempo dopo dal neonato stato italiano e la messa all’asta favorì di gran lunga l’aristocrazia terriera e la borghesia municipale che accrebbero i loro possedimenti. Quando Bertazzi, ispettore ministeriale, venne inviato nel 1878 in Sicilia per raccogliere elementi circa l’eseguita censuazione dei beni ecclesiastici, scoprì che su 5458 enfiteuti, solo 824 riguardavano agricoltori non possidenti. Pochissimo furono i non possidenti che ottennero qualche ettaro di terra, soprattutto nelle zone costiere, spesso per intervento diretto della mafia agraria che aveva interesse a mantenere il controllo popolare.
Ma questi stessi piccoli proprietari, nel momento più acuto della crisi (ed in alcuni casi anche prima), si trovarono costretti a rivendere quegli stessi lotti di terra, svendendoli per i troppi debiti accumulati e per l’impossibilità di pagare le numerose tasse quali imposta prediale, sovrimposte comunali e provinciali, tassa della viabilità obbligatoria, etc…Non esisteva a quei tempo nessun credito agrario (le casse rurali nacquero anni dopo) in grado di venire incontro alla necessità di questi piccoli proprietari. La loro tragica situazione è perfettamente sintetizzata nelle parole di De Felice Giuffrida che dalle pagine de “L’Unione” scrisse i piccoli proprietari dissolvono come neve al sole.
Inoltre, il 1gennaio 1869 il governo della Destra Storica introdusse l’odiata tassa sul macinato che produsse un forte aumento del prezzo del pane. Lo stesso Crispi condannò tale tassa, come documentato dai rendiconti del Parlamento, sessione 1868, volume V. L’imposta venne poi abolita nel 1884 dal governo della Sinistra Storica che sostituì la destra al governo nel 1876 e che introdusse però al suo posto il dazio comunale sulla farina che non apportò alcun giovamento ai lavoratori contadini. Quella stessa sinistra che, come detto prima, incentivò investimenti al Nord e produsse la guerra doganale con la Francia. Gramsci ebbe a dire salì una Sinistra che aveva continuato la politica della Destra ma con uomini e frasi di sinistra4.
Nel 1887 Crispi assunse la carica di Presidente del Consiglio, fino al 1891 quando venne sostituito da Di Rudinì che poco dopo lasciò venendo sostituito da Giolitti che limitò gli episodi di repressione, che comunque vi furono, lasciando più libertà alle organizzazioni operaie. La nascita del Partito dei Lavoratori nel 1892 e lo sviluppo dei fasci testimoniano in tal senso la scelta politica del Primo Ministro piemontese. Nel novembre del 1893 si dimise per lo scandalo legato alla Banca Romana e al conseguente tracollo di diversi istituti bancari; il ritorno di Crispi fu segnato da una dura repressione e dalle leggi antisocialiste.
Oltre ai piccoli proprietari terrieri, critiche erano anche le condizioni dei lavoratori delle miniere, concentrati principalmente nelle zone del nisseno e dell’agrigentino, in minor parte nel palermitano; i maggiori centri zolfiferi (Grotte, Racalmuto, Favara e Riesi) vivevano quasi esclusivamente di quell’attività, dove lo sfruttamento era, purtroppo, una consuetudine presente da anni; cinquanta mila famiglie vivevano di quel lavoro, come riporta Napoleone Colajanni5, due le figure professionali che più di tutte pativano le sofferenze del lavoro in miniera: il picconiere e il caruso. Se il primo è sempre stato descritto come sfruttatore del secondo, (quest’ultimo impossibilitato a frequentare la scuola, inesistente nelle zone dove le miniere erano collocate) in realtà entrambi erano vittime di quei rapporti angarici del quale beneficiava esclusivamente il padrone della miniera e in misura minore il coltivatore. Nell’assumere il caruso, il picconiere consegnava alla famiglia il “soccorso morto” o altrimenti detto “affittanza della carne umana”, un equivalente in denaro che di solito non superava le 150 lire; il caruso (che di solito non aveva più di 13 anni) si occupava del trasporto del materiale dalla miniera all’esterno, sostenendo pesi che a volte superavano i 20kg, con pesantissime ripercussioni sulla crescita fisica; la paga di 2 lire andava alle famiglie, anche se non di radio il caruso decideva di tenere per sé il denaro, generando forti liti familiari. Inoltre, se voleva liberarsi del rapporto con quel picconiere per andare alle dipendenze di un altro, la famiglia doveva restituire il soccorso morto, altrimenti il rapporto non poteva dirsi concluso. La pratica di tale affittanza venne condannata da Adolfo Rossi, che nella sua inchiesta sui Fasci Siciliani così scrisse: Nella mia vita giornalistica io ho assistito in Italia, in Francia, in Germania, in Inghilterra, in Africa, in America a scene orribili d’ogni manieria: fucilazioni, impiccagioni, linciaggi, massacri, morti d’ogni specie e nei lazzaretti e altrove. Nessuno spettacolo però mi aveva così profondamente colpito come quello della zolfara Virdilio: questo barbaro lavoro imposto a ragazzi così teneri (che nello stato in cui vivono sono poi anche vittime e della pederastia e d’altri orrori) è una cosa che grida vendetta, è la negazione di ogni più elementare principio di umanità. C’è da vergognarsi di essere nati in un paese dove una tale barbarie esiste ancora.6
Tuttavia, spesso il rapporto tra il picconiere ed il caruso diventava molto forte ed entrambi si davano l’un l’altro l’aiuto necessario per sostenere un lavoro estremamente pesante. Il picconiere veniva pagato a cottimo, non più di 2-3 lire massimo per 9 ore di lavoro, 5 giorni a settimana; a questa misera paga gli veniva tolto l’acquisto imposto del materiale per il lavoro (come l’olio per l’illuminazione) nelle botteghe delle miniere, dove le merci riportavano prezzi superiori a quelli applicati in paese. Questa imposizione, dettata dal coltivatore della miniera per rifarsi del pagamento dell’imposta fondiaria (che in realtà era dovere del proprietario), pesava enormemente sul lavoratore, con trattenute sullo stipendio che arrivavano fino al 30%. In siffatte condizioni, non stupiscono i numerosi scioperi messi in atto da questa classe lavoratrice tra il 1879 e il 1889, facendo salire la Sicilia ai primi posti in quegli anni per numero di scioperi. I minatori rivendicavano aumento di salario (che durante la crisi arrivò anche sotto L.2), il pagamento degli arretrati, l’abolizione del salario in natura. Con la costituzione del Fascio dei lavoratori di Grotte, nel 1893, seguito subito dopo dagli altri centri zolfiferi, i minatori si organizzarono efficacemente, arrivando fino al I Congresso dell’ottobre di quell’anno che produsse il documento rivendicativo. La formazione del fascio di Grotte, centro minerario più importante, avvenne anche grazie all’operato del pastore evangelico Stefano Di Mino, che già prima della costituzione del Fascio, creò un circolo operaio denominato “Savonarola”; la predicazione di un evangelismo socialisteggiante venne accolta favorevolmente da molti lavoratori delle miniere, da sempre diffidenti verso la religione cattolica e dai preti in special modo, da loro considerati amici dei padroni. Di particolare importanza per comprendere ancora di più la diffusione dei Fasci rurali, fu l’alleanza tacita tra zolfiferi e contadini che si trovarono ad un certo punto amalgamati nelle lotte; il motivo di ciò risiede probabilmente nel fatto che molti minatori erano stati in precedenza lavoratori delle campagne, braccianti per lo più e quindi consapevoli delle condizioni dei loro ex colleghi, ecco perché il latifondo fu un argomento che comprese anche le miniere.
I contadini a contratto e i braccianti siciliani impiegati nel latifondo (esteso in parte della Sicilia occidentale e centrale) erano indubbiamente le classi lavoratrici siciliane messe peggio; i primi, infatti, lavoravano con due tipologie di contratto: la mezzadria e il terratico. La prima era quella preferita dai contadini, in quanto dava loro una stabilità maggiore e soprattutto suscitava il sentimento d’attaccamento alla terra in quanto i contratti non duravano mai meno di sei anni; era presente “il soccorso”, l’anticipo cioè in grano o in fave da restituire sull’aia al momento del raccolto, o in denaro; la divisione del prodotto era di 3/4 al padrone e 1/4 al contadino; quest’ultimo metteva tutto ciò che serviva alla produzione, ad eccezione della semenza. La divisione poteva avvenire anche in 2/3 al padrone e 1/3 al lavoratore ma in questo caso il mezzadro doveva restituire la semenza anticipata; infine, in casi rari avveniva la divisione a metà, ma il lavoratore doveva al padrone la semenza più l’addito del 25%.
L’altra forma contrattuale, il terratico, era quella odiata dai contadini; essa prevedeva il compenso fisso in misura di grano o denaro al posto della ripartizione del prodotto; ma bastava un’annata di cattivo raccolto per lasciare il terratichiere senza nulla, ma costretto comunque a corrispondere la misura stabilita, trovandosi così nella tragica situazione di doversi vendere tutto per pagare. Si trattava di due forme contrattuali entrambe angariche ed ingiuste. Per di più, i gabellotti non rispettavano quasi mai i diritti dei contadini previsti dai contratti, lasciandoli nella misera più totale. C’era anche un altro tipo di contratto, presente nelle coltivazioni a vigneti, che prevedeva la coltivazione della vite gestita direttamente dal contadino dividendo il prodotto, equamente, con il proprietario. Questi lavoratori, almeno fino allo scoppio della crisi agraria, avevano un tenore di vita decisamente migliore di quelli impiegati nel latifondo.
I braccianti, chiamati più comunemente jurnatari, ceto lavoratore più numeroso, erano impiegati soprattutto a giornata; all’alba si ritrovavano tutti alla piazza del paese, in attesa di essere selezionati dal caporale. Una giornata di pioggia voleva dire niente lavoro. Nei periodi estivi, durante la mietitura, moltissimi erano impiegati per 14-16 ore di lavoro sotto il caldo atroce, spesso contraendo malattie come la malaria (presente soprattutto nella zona del catanese); la paga era una miseria: 1,50 lire a giornata, 2 massimo. Non mancarono le forme di protesta e gli scioperi; nel 1875, 400 contadini della zona del vallone, nel nisseno, fondarono la “Coalizione dei contadini”, scioperando astenendosi dal lavoro della semina; la protesta venne repressa per ordine del prefetto di Palermo. Nel luglio del 1882 duemila giornalieri impiegati nella pianura di Catania per il raccolto, scioperarono due giorni per l’aumento della mercede; riuscirono alla fine ad accordarsi con le controparti.
La diffusione delle idee socialiste non deve dunque stupire; in un contesto economico e sociale come questo, dove venivano commesse le peggiori angherie (che erano risultato dell’alleanza mafia/borghesia/aristocrazia terriera), organizzarsi diventava l’ultima speranza di riscatto. La costituzione dei Fasci rurali avvenne per merito di figure carismatiche quali Bernardino Verro a Corleone e Nicola Barbato a Piana dei Greci, che seppero organizzare i contadini nelle suddette organizzazioni; la costituzione nel 1892 del Partito dei Lavoratori Italiani, a Genova, diede inoltre ulteriore impulso alla diffusione del socialismo in Italia ed in Sicilia. Un socialismo quello isolano, primitivo, forse un po’ troppo immaturo, ma che si rilevò fondamentale in chiave futura perché gettò le basi per le lotte agrarie degli anni successivi.
Si conclude qui questo lavoro, necessario per capire fino in fondo la nascita del movimento dei Fasci nelle campagne, nascita che ha come data di riferimento il 20 gennaio 1893, quando circa 500 contadini di Caltavuturo rivendicarono l’eterno bisogno di terra, bisogno represso nel sangue da parte delle forze dell’ordine e dei campieri, per volere della borghesia municipale e dell’aristocrazia terriera.
Nella prossima pubblicazione tratteremo la nascita e l’evoluzione del fascio di Piana dei Greci con uno sguardo particolare sulla figura di Nicola Barbato.
Fonti bibliografiche:
Napoleone Colajanni, “Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause”, Sandron, 1895
Renato Marsilio, “I Fasci siciliani”, edizioni Avanti, Milano-Roma, 1954;
Salvatore Francesco Romano, “Storia dei Fasci siciliani”, edizioni Laterza, Bari, 1959;
Giuseppe Miccichè, “I Fasci dei lavoratori nella Sicilia sud-orientale”, Zuleima edizioni, Ragusa-Catania, 1981;
Francesco Brancato, Prefazione al libro “I moti dei Fasci dei lavoratori e il massacro di Marineo”, di Antonio Sclafani e Ciro Spataro, Ila-Palma editore, Palermo, 1987;
Salvatore Butera, “L’isola difficile. Sicilia e siciliani dai Fasci al dopoguerra”, Rubbettino editore, 2000;
Carmelo Botta-Francesca Lo Nigro, “Il sogno negato della libertà. I Fasci siciliani e l’emancipazione dei lavoratori”, Navarra Editore, Palermo, 2015.
Note:
1 Orazio Cancila, Variazioni e tendenze, in Giuseppe Miccichè I Fasci dei lavoratori nella Sicilia sud-orientale, Zuleima edizioni, Ragusa-Catania, 1981)
2 Salvatore Francesco Romano, Storia dei fasci siciliani, edizioni Laterza, Bari, 1959, pag. 73
3 Angelo Vecchio, Sicilia (intervista con Francesco Renda), Sigma, Palermo, 2005.
4 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 2014
5 Nella sua opera Gli avvenimenti in Sicilia e le loro cause, Colajanni, nel descrivere la condizione dei lavoratori delle miniere di zolfo, si rifà alla testimonianza dell’Ingegner Travaglia che nel suo libro I giacimenti di zolfo in Sicilia, fa un resoconto sulla figura offesa del lavoratore minatore.
6Adolfo Rossi, Agitazione in Sicilia. Inchiesta sui Fasci Siciliani, Max Kantorowick, Milano 1894
Giuseppe Bivona
16 Aprile 2021complimenti
Rosario cigna
5 Maggio 2022Molto interessante