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Dalla Terra alla Luna. Gli anni della corsa allo spazio. (Parte III – Il sorpasso americano e le tragedie del 1967)

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Come detto alla fine del precedente articolo la passeggiata spaziale di Leonov fu l’ultimo grande successo dei sovietici e, sebbene in quel momento nessuno potesse saperlo, in breve la NASA avrebbe non solo recuperato il divario, ma preso anche stabilmente la testa della corsa. Varie sono le ragioni di questo cambiamento degli equilibri: in primis il cambiamento al vertice del Cremlino dove a Krushev, fermo sostenitore per motivi di propaganda delle spedizioni spaziali, succede Breznev, per il quale i missili dovrebbero portare meno cosmonauti e più testate nucleari; inoltre la fretta con cui i sovietici approntano i loro mezzi al fine di poter essere sempre “i primi” inizia a dare dei problemi visto che l’asticella della difficoltà di ciò che si cerca di fare cresce sempre di più. Certo il genio di Korolev e dei suoi collaboratori garantisce sempre mezzi sulla carta ottimi, ma poi il dover fare tutto non nei tempi della scienza bensì in quelli della politica crea inevitabilmente il rischio che qualche componente sia grezzo o mal studiato; già la vicenda della Voskhod 1, narrata nel precedente capitolo, aveva mostrato quali deficienze e rischi erano legati al fatto di dover accontentare i vertici del partito piuttosto che seguire una precisa tabella di progressi. La NASA invece ha scelto da tempo una via diversa: miniaturizzazione dei componenti e preparazione di mezzi il più sicuri ed affidabili possibile prima di tentare missioni con equipaggio a bordo, anche se ciò comporta il finire sotto il fuoco incrociato del Congresso e della stampa ogni volta che i russi conquistano un nuovo record. La strategia della tartaruga sta però per dare i suoi frutti. Concluso il programma Mercury delle capsule monoposto nel 1964 la NASA passa al programma Gemini che, come da nome, prevede capsule in grado di portare due astronauti in orbita. Gemini però non è un mero emulo del programma Voskhod dei sovietici in quanto è concepito con il preciso scopo di iniziare a studiare e testare le procedure necessarie per una futura missione sulla Luna. Da che infatti il satellite della Terra è divenuto il bersaglio grosso cui puntare una domanda è iniziata a serpeggiare sia dentro che fuori gli ambienti delle agenzie spaziali: ok vogliamo scendere sulla Luna, ma come si fa? Le soluzioni fondamentalmente erano due: o una capsula che, dopo essere stata messa in orbita, permettesse agli astronauti di discendere direttamente sulla superfice lunare per poi di lì ripartire, oppure il lancio insieme alla capsula di un “mezzo da sbarco” che avrebbe portato l’uomo sulla Luna mentre la capsula restava in orbita del satellite pronta a recuperare gli astronauti che vi erano sbarcati. La prima opzione si rivelò subito la più complessa perché approntare una capsula multifunzione comportava il superamento di problemi tecnici e di rischi considerati eccessivi dal momento che si doveva coniugare la sicurezza delle operazioni con la necessità di battere sul tempo l’avversario; al contrario la seconda possibilità, benché anche questa non scevra di complicazioni, apparve la più facilmente percorribile. Sia i sovietici che gli americani già ne 1962 si orientarono così verso questo approccio “indiretto” alla Luna, ma, essendo impossibile per ragioni tecniche e di peso complessivo attaccare direttamente il “mezzo di sbarco” alla capsula spaziale sin dal momento del lancio, bisognava fare in modo che, una volta in orbita, la capsula si unisse con il “mezzo di sbarco” il tutto effettuato manualmente dagli astronauti stessi; bisognava cioè fare quello che in gergo tecnico sarebbe stato battezzato rendez-vous spaziale. Lo scopo del programma Gemini era esattamente questo: realizzare un perfetto rendez-vous che dimostrasse la fattibilità della cosa e permettesse di iniziare a preparare il futuro sbarco sulla Luna. Dopo i primi due lanci di prova dell’Aprile 1964 e del Gennaio 1965, il 23 Marzo dello stesso anno, cinque giorni dopo il lancio della Voskhod 2, tutto era pronto per mandare in orbita due astronauti a bordo della Gemini 3. Come la Voskhod altri non era che una evoluzione della precedente capsula Vostok così la Gemini era una evoluzione della Mercury adattata per ospitare un equipaggio di due astronauti e per garantire la manovrabilità necessaria alla difficile manovra di rendez-vous. A bordo vi erano il comandante Virgin Grissom (veterano della Mercury 2) e il capitano di corvetta John Young, la vecchia e la nuova generazioni degli astronauti della NASA come in una sorta di metaforico passaggio del testimone. Il lancio, a bordo di un razzo Titan II riadattato per scopi civili, fu un completo successo e la missione, dopo 4 ore e 53 minuti di permanenza in orbita, si concluse felicemente con l’ammaraggio nell’Oceano Atlantico. Come si vede nulla di trascendentale e i tempi di permanenza nello spazio dei sovietici sono ancora distanti, la sola Valentina Tereshkova con le sue 17 ore è stata nello spazio più tempo di tutti gli americani messi insieme, ma tanto basta per confermare la validità del mezzo e per dare impulso a far andare il programma a pieno regime. Infatti solo due mesi dopo, il 3 Giugno, l’equipaggio della Gemini 4 (James McDivitt e Edward “Ed” White) è pronto ad andare in orbita e stavolta non per fare una semplice toccata e fuga. Si prevede infatti tutto in una volta: lunga permanenza (4 giorni), sperimentazione delle nuove tute più leggere, prova delle manovre di rendez-vous e camminata spaziale; l’EVA inizialmente non era prevista, o meglio era previsto il “semplice” sporgersi di un astronauta fuori dalla capsula per fotografare la Terra, ma dopo il colpo ad effetto dei russi si decise di rischiare per pareggiare il conto. Il rendez-vous è un completo fallimento perché il finto modulo di sbarco, il secondo stadio adattato del razzo Titan II, inizia a girare rapidamente su se stesso allontanandosi dalla Gemini 4 e le manovre compiute dagli astronauti per tentare di recuperarlo fanno solo sprecare carburante. In effetti sebbene per come descritto il rendez-vous possa apparire una manovra semplice in realtà si tratta di qualcosa di estremamente complesso perché con spostamenti millimetri gli astronauti devono centrare un punto preciso ed estremamente piccolo del modulo di sbarco, il tutto, ovviamente, con la difficoltà aggiunta del trovarsi in orbita. Non è un caso che i tecnici della NASA racconteranno di come, da Gemini 4 in poi, uno dei momenti più stressanti delle missioni spaziali sarebbe sempre stato proprio quello del rendez-vous perché fallirlo voleva dire nel migliore dei casi abortire la missione, nel peggiore un disastro in orbita. Le manovre per il rendez-vous portano a un ritardo nella scaletta della missione, ma nonostante ciò alla terza orbita Ed White può compiere la prima EVA americana uscendo dalla Gemini 4 con l’ausilio di una “pisola a razzo” per avere la spinta necessaria. Al contrario di Leonov, che come abbiamo visto ebbe non pochi problemi soprattutto in fase di rientro, White “cammina” nello spazio senza difficoltà restando fuori dalla Gemini 4 per venti minuti e rientrandovi solo dopo un doppio perentorio ordine della stazione di controllo. Appena qualche problema nel richiudere il portello della capsula e poi la Gemini 4 si pressurizza di nuovo permettendo un sereno prosieguo della missione, che si conclude il 7 Giugno con l’ammaraggio a 370 km a Nord di San Salvador. Nonostante il mancato rendez-vous la missione fu un grande successo sia perché metteva finalmente gli Stati Uniti a pari con l’URSS, sia perché l’affidabilità dimostrata dalla capsula Gemini incoraggiava a dare l’avanti tutta al programma. Così il 21 Agosto si triplica: Gemini 5 con a bordo Gordon Cooper e Charles Conrad; scopo della missione, della durata di otto giorni, migliorare le manovre di rendez-vous nonché provare le nuove celle di combustibile installate al poste delle precedenti batterie elettriche. La scelta del nuovo componente non si rileverà felice perché la bassa pressione delle cellule metterà a serio rischio il prosieguo della missione che però infine potrà andare avanti e concludersi con un secondo imprevisto: un errore del computer di bordo porta la capsula su una diversa rotta di rientro che farà compiere l’ammaraggio a 166 km dal punto previsto (può sembrare poco, ma se quei 166 erano la differenza tra mare e terra ferma…). Di positivo c’è che le 191 ore in orbita della Germini 5 portano Cooper e Conrad a battere il record di permanenza nello spazio del cosmonauta russo Bykovsky (Vostok 5) che comunque mantiene ancora oggi il tempo in solitaria; di contro oltre ai vari problemi tecnici, la manovra di rendez-vous si è ancora una volta dimostrata difficile e macchinosa. Ancora di positivo c’è la grande quantità di foto che gli astronauti sono riusciti a fare al nostro pianeta dallo spazio, la conferma della possibilità di scorgere alcune cose che avvengono sulla Terra (riabilitando così lo stesso Cooper) e infine, ma non ultimo se pensiamo al punto di vista degli astronauti, l’apprezzamento per il nuovo cibo liofilizzato messo a disposizione degli esploratori nello spazio. Qualche politico si indigna per certi atteggiamenti che gli astronauti hanno tenuto in orbita (mettersi a cantare durante un collegamento con la sala operativa o passarsi il cibo simulando un lancio da baseball) e chiedono un comportamento più consono visto il costo del programma spaziale, ma la NASA, giustamente, fa finta di niente consapevole che, dato lo stress intrinseco di una missione spaziale, avere un minimo di tolleranza per certi gesti che servono solo a scaricare la tensione non è poi così grave. Le difficoltà con il rendez-vous preoccupano però Cape Kennedy che decide di tentare di nuovo stavolta usando un modulo bersaglio appositamente creato e chiamato Agena; il 25 Ottobre l’Agena viene lanciato e dovrebbe essere seguito a breve dalla Gemini 6, ma il modulo, per un problema tecnico, non raggiunse mai l’orbita costringendo a cancellare la missione. Critiche feroci verranno fatte alla NASA per il fallimento soprattutto perché il prolungato silenzio dei russi fa temere che questi siano a un passo dal realizzare un perfetto rendez-vous; in realtà i russi come detto iniziano ad avere il fiato corto, ma la NASA, forse anche per mettere a tacere i contestatori, decide di scardinare l’ultimo primato rimasto in mano agli avversari: mettere in orbita contemporaneamente due capsule e farle viaggiare insieme per un certo periodo di tempo. Il 4 Dicembre 1965 decolla la Gemini 7 con a bordo James “Jim” Lovell e Frank Borman mentre undici giorni dopo sarà la Gemini 6, con a bordo Wally Schirra e Thomas Stafford, a lasciare le Terra.  La missione principale è quella di Gemini 7 che dovrà restare due settimane in orbita e, messo per una volta da parte il rendez-vous,  dovrà condurre una serie d’esperimenti biomedici per accertare gli effetti sul corpo umano di una lunga permanenza nello spazio. L’arrivo della Gemini 6 è un momento di grande tensione perché la manovra per mettere le due capsule una a fianco dell’altra è delicatissima e il minimo errore potrebbe portare a un “tamponamento” catastrofico; fortunatamente ai comandi vi sono due piloti esperti, che già sulla Terra hanno preso accordi a quattrocchi su come coordinarsi ed interpretare i reciproci movimenti, e così quando Stafford comunica “Li vediamo proprio davanti a noi a 120 piedi (40m)” la tensione può crollare lasciando il posto alla gioia. Per venti ore le Gemini 6 e 7 volano affiancate ad una distanza massima tra i 35 m e minima di 30 cm (Lydon Johnson venutolo a sapere chiamerà personalmente la NASA per sapere se non c’è rischio di collisione). Finito lo spettacolo la Gemini 6 fa di nuovo rotta verso casa (ammarando il 16 dicembre sulle note di Jingle Bells suonato da Schirra con una armonica di contrabbando) mentre la Gemini 7 resta ancora due giorni in orbita in modo da accumulare il record assoluto di 306 rivoluzioni attorno la Terra e 330 ore di permanenza nello spazio. Chris Kraft, primo direttore di volo della NASA, disse che fu solo dopo il doppio volo di Gemini 6 e 7 che tutti iniziarono ad essere convinti dei loro mezzi nonché di stare affrontando i sovietici da pari a pari. Resta però il nodo cruciale non ancora sciolto del rendez-vous e così si decide di dedicare le ultime cinque missioni Gemini previste interamente a cercare di risolvere questo problema. Gemini 8 decolla il 16 Marzo 1966 con a bordo Neil Armstrong e David Scott con l’obiettivo di agganciare l’Agena, stavolta entrata in orbita senza problemi. Tutto sembra andare perfettamente e finalmente il rendez-vous riesce con un perfetto aggancio; i problemi purtroppo però iniziarono subito dopo cioè quando Scott dà ordine al cervello elettronico dell’Agena perché prenda il controllo dell’intera baracca facendo fare ai due mezzi uniti una rotazione di 360°. Il computer però non funziona a dovere e, mentre trasmette a Terra segnali che lasciano intendere che l’Agena si è staccata dalla Gemini, inizia a far ruotare come una trottola il vascello spaziale. La situazione è estremamente pericolosa sia perché le pulsazioni degli astronauti sono altissime, sia perché, causa un collegamento pessimo, al controllo missione non si capisce bene cosa stia succedendo. Fortunatamente Armstrong e Scott riescono a mantenere il sangue freddo e, dopo non poco penare, usano i razzi di rientro per riprendere il controllo del mezzo; l’operazione ha quasi svuotato le riserve di carburante e così, in accordo con le linee guida che la NASA si è data per garantire la sicurezza delle missioni, si decide per un rientro immediato della Gemini 8 che ammarerà solo dieci ore dopo essere stata messa in orbita. La rapida individuazione del colpevole della scampata catastrofe, un solenoide difettoso, non rallentò il ritmo delle operazioni soprattutto adesso che finalmente il tanto agognato rendez-vous si era avuto. Anche però la successiva missione Gemini 9 (nata forse sotto una cattiva stella visto che l’equipaggio originario morì durante un incidente aereo) avrà dei momenti di forte tensione, precisamente in occasione della EVA dell’astronauta Eugene Cernan. Cernan rimarrà fuori dalla capsula Gemini 2 ore e 9 minuti, un nuovo record, ma saranno due ore che l’astronauta non ricorderà con piacere; teoricamente stavolta non ci si sarebbe limitati ad “uscire a fare una passeggiata”, come era successo le vole precedenti, bensì si dovevano compiere una serie di operazioni e manovre. Fu però ben presto evidente che le apposite maniglie e fessure della Gemini non erano assolutamente adatte allo scopo, soprattutto era quasi impossibile reggersi alla capsula e tenere in mano qualsivoglia strumento; la fatica iniziò a farsi sentire e le pulsazioni di Cernan salirono costantemente fino a toccare i 180 battiti al minuti, a un certo punto il vetro del casco iniziò ad appannarsi per la condensa del sudore mentre la temperatura interna e la sudorazione crescevano esponenzialmente. Anni dopo il secondo astronauta della missione Thomas Stafford affermò di aver seriamente temuto che Cernan non sarebbe stato in grado di rientrare nella Gemini e che, in quel caso, aveva già deciso di non abbandonare il compagno dello spazio, ma di tentare un rientro con lui lì fuori anche se questo avrebbe voluto dire morte certa per entrambi. Fortunatamente questo estremo sacrificio non  fu necessario perché Cernan riuscì a riguadagnare la Gemini; era fisicamente stremato, aveva perso peso e negli stivali il sudore aveva formato delle piccole pozze d’acqua, ma era vivo. A riprova però che quella era una missione iellata ci furono problemi a richiudere il portello e, causa un guasto a un razzo direzionale, la capsula iniziò a ruotare su se stessa; alla fine però il 6 Giugno ’66 la Gemini 9 rientrò sulla Terra con un equipaggio stanco, ma fondamentalmente in buone condizioni. Le ultime tre missioni Gemini, 10 (18-21 Luglio Young-Collins), 11 (12-15 Settembre Conrad-Gordon) e 12 (11-15 Novembre Lowell-Aldrin), si svolgeranno senza problemi riuscendo tutte in un perfetto aggancio dell’Agena. In particolare la 11 è ricordata per alcune spettacolari foto della Terra, in una si poteva vedere il pulviscolo dell’incendio di un oleodotto in Arabia Saudita, e per il primo tentativo riuscito di creare, seppur per poco tempo, una gravità artificiale attraverso la rotazione di due astronavi unite da un cavo. Invece con Gemini 12 Buzz Aldrin stacca il nuovo primato di EVA restando fuori dalla capsula per cinque ore e mezza senza fortunatamente andare incontro ai problemi di Cernan. Con l’ammaraggio della Gemini 12 il 15 Novembre 1966 si chiude il programma Gemini che ha fornito informazioni vitali per la prossima fase della corsa alla Luna; la NASA può finalmente dire che, nella gara al nostro satellite, per la prima volta gli Stati Uniti sono passati in vantaggio sui sovietici. Già i sovietici… ma che cosa stanno facendo i sovietici in quel periodo? Il biennio della Gemini non sarebbe negativo per i sovietici se la gara in atto fosse stata meramente scientifica, ma stando in campo anche questioni di carattere politico e di prestigio non si può negare che gli USA abbiano fatto score pieno. Con una Voskhod obbiettivamente troppo problematica dal punto di vista tecnico per farvi affidamento sul lungo periodo si decise di prendersi una pausa dal mettere uomini in orbita per potersi concentrare sulla progettazione della nuova generazione di capsule triposto (le Sojuz) e del razzo N1 che avrebbe dovuto permettere di spingerle fino alla luna. Ovviamente non si poteva restare con le mani in mano e così si tornò a lavorare con le sonde ottenendo ancora una volta alcuni primati che, come detto, furono scientificamente importanti, ma che propagandisticamente confrontati con i successi americani… Con il Lunik 9 i sovietici riuscirono nel primo atterraggio morbido di un oggetto sulla superfice lunare (fino ad allora si mandava solo roba “a sbattere”); la sonda toccò la Luna il 3 Febbraio 1966 e trasmise dati e immagini del nostro satellite per quattro giorni. Il successivo Lunik 10 (31 Marzo 1966) fu invece il primo satellite umano a inserirsi stabilmente nell’orbita di un altro corpo celeste; da lì per due anni avrebbe monitorizzato la Luna permettendo una serie di scoperte di grande rilevanza come la natura simil-basaltica delle rocce lunari nonché la presenza sotto il mare di Basins di zone con un’elevata concentrazione di massa. Merita di essere ricordato poi anche che i sovietici nel Marzo 1966 con la loro sonda Venere 3 fecero per la prima volta schiantare un oggetto artificiale sulla superfice di un altro pianeta; sebbene la mia narrazione si focalizzi sulla “gara alla Luna” ho voluto ricordare questo evento per rimuovere l’idea sbagliati che in quegli anni la Luna fu l’unico ed esclusivo oggetto dell’esplorazione spaziale. Tornando all’aldilà dell’Atlantico chiuso con Gemini adesso è venuto il momento di Apollo e di fare un passo indietro per raccontare di come era stata risolta l’ultima questione prima di lanciare l’assalto alla Luna: EOR o LOR? Questi acronimi voglio dire earth orbiter rendez-vous e lunar orbiter rendez-vous; in sostanza dove e come si doveva svolgere il rendez-vous tra la capsula e il modulo da sbarco? Nel primo caso i due mezzi sarebbero stati lanciati con due missili e avrebbero fatto il rendez-vous in orbita terreste facendo però fare anche il rifornimento carburante dell’Apollo in orbita (cosa che non entusiasmava tutti); il secondo metodo invece prevedeva di mandare con un solo razzo tutti i mezzi in orbita e poi il rendez-vous tra capsula e modulo di sbarco sarebbe avvenuto in orbita lunare. Il nuovo missile Saturn V di Von Braun rendeva perfettamente fattibili entrambi i sistemi, ma in principio l’EOR riscosse i maggiori apprezzamenti almeno fin quando John C. Houbolt non bussò a una riunione delle massime teste della NASA per presentare un modellino in legno del suo LEM (Lunar excursion veicle) cioè un mezzo da sbarco leggero e maneggevole perfetto per un approccio LOR. Le prime reazioni furono scettiche se non proprio sprezzanti (“Questo signore ci sta prendendo in giro” disse il progettista della Mercury Faget) e per mesi Houbolt fu messo alla porta da chiunque cui tentava di parlare. Infine però, quando nel 1961 venne annunciato che l’EOR sarebbe stato il metodo per portare un uomo sulla Luna, Houbolt prese carta e penna per scrivere al co-amministratore della NASA Robert Seamans che rimase conquistato dal progetto e pretese che fosse preso seriamente in considerazione. Con questo importante patrono dalla sua Houbolt poté finalmente mostrare i dati e i calcoli che aveva fatto dimostrando come il suo LEM, grazie al poco peso, avrebbe potuto essere inserito direttamente nello stesso Saturn V usato per la capsula Apollo, eliminando così il problema del trasferimento del carburante, e poi da questa trasportato facilmente sino all’orbita lunare per infine scendere dolcemente sulla superfice del nostro satellite. Von Braun e soci si misero a studiare l’idea e infine dissero che sì non solo il progetto era fattibile, ma a conti fatti era anche migliore rispetto a ciò che si era pensato in relazione a un approccio EOR. Iniziò così a prendere corpo la capsula Apollo e il modulo LEM, il tutto da mettere su un razzo Saturn V e da sparare nello spazio direzione Luna; l’intero vascello in realtà era il composto di tre parti autonome: il modulo di comando triposto dove avrebbero preso posto gli astronauti, il modulo di servizio con i sistemi di propulsione e di assistenza al volo e infine il LEM biposto descritto così da un tecnico della NASA “un veicolo con quattro gambe tubolari divaricate che gli conferiscono l’aspetto di un grosso insetto.”. Dal 1962, mentre le capsule Gemini volavano in orbita, si lavorò alacremente migliorando il modellino iniziale di Houbolt e impegnando le migliori risorse dell’America per creare quel vascello che avrebbe condotto l’uomo sulla Luna. Tra industrie, centri di ricerca e università fino a più di 400.000 persone avrebbero lavorato al programma Apollo: la Boeing creò il Saturn V, il MIT dei computer di bordo che restassero sotto i 30 kg, la North American Aviation il modulo di comando mentre il LEM fu opera della Grumman Corporation. C’era un generale entusiasmo nell’aria, il programma Apollo era tutto fuorché segreto e la stampa, sia americana che straniera, forniva costanti aggiornamenti sullo stato d’avanzamento dei lavori tanto che già nel 1966 comparvero schizzi piuttosto accurati su quello che sarebbe stato l’aspetto finale di Apollo e LEM insieme. I successi del programma Gemini, così rapidi uno dopo l’altro, danno l’impressione che gli USA stiano procedendo a marcie forzate e si vaticina già una data, il 1968, in cui il primo uomo metterà piede sulla Luna; nessuno si aspetta invece che l’anno che stava per entrare, il 1967, sarà il più tragico fino ad allora nell’esplorazione spaziale. Se escludiamo la vicenda dei cosmonauti perduti ufficialmente fino al 1967 nessun astronauta era morto per cause direttamente legate al programma spaziale; nonostante i problemi che abbiano spesso raccontato e le difficoltà che dovettero affrontare gli uomini e le donne che salirono nello spazio tutti alla fine erano rientrati vivi (provati) e vegeti. Forse era inevitabile che questa buona stella prima o poi tramontasse, ma tale consapevolezza non rende sicuramente ciò che sto per narrare meno doloroso. Il 27 Gennaio gli astronauti Virgil Grissom, Edward White e Roger Chaffe entrano nell’Apollo 1 per una simulazione al suolo di una seri di procedure in vista del primo lancio della nuova capsula. Sin da subito si capisce che l’Apollo è ancora un mezzo acerbo e infatti Grissom si lamenta del pessimo sistema di comunicazione; soliti contrattempi nella norma come ne abbiamo visti molti, ma poi all’improvviso White urla “C’è fuoco in cabina!”. Dal centro di comando si sentono per nove secondi gli astronauti lottare contro l’incendio tentando disperatamente di aprire il portellone (che richiede oltre un mezzo giro di manovella) poi più nulla. Improvvisamente un’esplosione e poi lingue di fuoco iniziano ad uscire dalla navicella; ci vorranno 14 minuti per domare l’incendio e quando finalmente si potrà aprire l’Apollo l’unica cosa non bruciata che verrà ritrovata sarà un foglio con le procedure del giorno sulle ginocchia di White. L’inchiesta appurerà che l’incendio è nato da un cortocircuito sotto il sedile di Grissom e si è poi propagato rapidamente per l’ossigeno puro che compone l’atmosfera della navetta; unico punto “positivo” è che i tre astronauti sono morti asfissiati e non carbonizzati come si era temuto in un primo momento. Mentre i tre caduti sono sepolti con tutti gli onori nel cimitero nazionale di Arlington, che diciannove anni dopo ospiterà anche i resti degli astronauti del Challenger, iniziano ovviamente le polemiche e gli interrogativi sul programma spaziale e la direzione che ha preso. Ovviamente l’Apollo va ripensato in alcuni suoi componenti prima di rischiare di spedirlo in orbita, ma soprattutto qualcuno inizia a chiedersi se io gioco valga la candela; se, come tutti sembrano concordi, in caso di errore  dalla Luna non ci può essere ritorno vale davvero la pena rischiare la vita di due uomini per delle scoperte che possono essere effettuate anche solo mediante l’uso di sonde artificiali? Insomma è l’intera idea di una missione umana sulla Luna ad essere messa in discussione soprattutto se, come velatamente qualcuno insinua, più che il progresso o la scienza l’interesse primario è battere i sovietici. NASA e astronauti però fanno quadrato; viene ricordato cosa aveva detto proprio Grissom prima di partire con la Gemini 3 “La conquista dello spazio è una cosa degna per cui rischiare la vita” mentre il direttore del centro di Houston Robert Gilruth afferma “Per me è la più ambiziosa e impegnativa avventura della storia dell’uomo… La nostra opera deve rappresentare il meglio di ciò che uomini impegnati, capaci e ispirati riescono a fare.”. Alla fine si decide di andare avanti, allungando un po’ la tabella di marcia per rivedere l’Apollo, anche se quello che di lì a poco sarebbe successo in Russia mostrerà ancora una volta che l’esplorazione dello spazio a volte richiede i suoi caduti. Avevamo detto che Korolev, una volta archiviata la incerta Voskhod, si era buttato anima e corpo sulla Sojuz e sul razzo N1 dovendo lottare con le invidie di vecchi nemici, i tagli ai fondi imposti dai militari e il minor interesse da parte del partito. Ovviamente anche il capo progettista aveva messo nel mirino la Luna e il suo primo piano era una circumnavigazione del nostro satellite da parte di una capsula con equipaggio umano a bordo, ma a fronte del programma Gemini Korolev aveva capito che gli americani puntavano dritti verso lo sbarco per cui bisogna sfidarli sullo stesso campo. Sfruttando la sua capacità di giostrarsi coi politici e mettere tutto sul piano della propaganda Korolev riuscì nel 1964 a ottenere l’approvazione per la messa in cantiere di un programma per l’allunaggio di un equipaggio composto da due cosmonauti: il programma L-3. Purtroppo rivalità interne all’ente spaziale sovietico rendevano tutto più difficile (Glushko, vecchio avversario di Korolev, era stato nominato a capo del programma del N1 e boicottava i propulsori a combustibile liquido del suo superiore) solo che se anni prima il capo progettista era stato in grado di far serrare i ranghi, adesso che le sue condizioni fisiche iniziavano a peggiorare la situazione diventava giorno dopo giorno sempre più ingarbugliata. Nonostante ciò Korolev andò avanti e venne anche progettata la controparte sovietica del LEM cioè il modulo LK che, unito a una capsula Sojuz, avrebbe permesso a un cosmonauta di scendere sulla Luna; certo c’erano certi aspetti che facevano storcere la bocca come il fatto che il cosmonauta, non essendo il LK collegato alla Sojuz da un tunnel interno, avrebbe dovuto entrare nel modulo da sbarco mezzo un’EVA, ma almeno si lavorava. Purtroppo il 14 Gennaio 1966 Korolev morì durante un intervento all’ospedale del Cremlino per la rimozione di un cancro; solo a questo punto l’URSS rimuoverà il mistero attorno al nome del progettista capo e lo celebrerà seppellendolo con tutti gli onori nelle mura del Cremlino, dedicandogli via, piazze a anche una città Korolyov . Oggi un cratere sia sulla Luna che su Marte portano il suo nome. A prenderne il posto sarà Vasilyij Mishyn che, sebbene ambizioso e capace, rispetto a Korolev mancava sia di quel genio assoluto che della capacità di destreggiarsi con i  gangli del sistema sovietico; non era però uno stupido e sapeva che con i fondi sempre più risicati che riceveva competere con la NASA si faceva sempre più difficile. Korolev gli aveva lasciato in eredità due programmi: il L-3 che puntava allo sbarco sulla Luna e il L-1 che intendeva invece mettere un cosmonauta in orbita intorno al nostro satellite. Mishyn decise di concentrarsi prima su quest’ultimo perché più facilmente perseguibile, ma prima di tutto era necessario far funzionare la Sojuz che era la condicio sine qua non di ogni ulteriore tentativo. Ancora una volta però la politica si mise di mezzo pretendendo un evento in occasione del decennale dello Sputnik; più precisamente il Cremlino chiese che venisse effettuato un doppio lancio in occasione del giorno della solidarietà internazionale. A Baiconur tutti erano consapevoli che la Sojuz non era ancora pronta, praticamente non c’erano stati voli di prova e i tecnici affermavano che rimanevano almeno 200 difetti di fabbricazione non ancora risolti. Dire che quella che si apprestava era una missione suicida era dire poco, ma il Cremlino insisteva e così la Sojuz 1 venne appronta. Scelto per l’ingrato compito fu il veterano Vladimir Komarov, ma nella città delle stelle c’era più di qualcuno che non ci stava a guardare quel sacrificio inutile. Primo tra tutti Gagarin che, dopo aver chiesto inutilmente di poter prendere il posto dell’amico, sperando che il suo prestigio avrebbe convinto il partito a cancellare la missione, si decise per un atto di grande effetto in un paese come la Russia di Breznev: scrisse una lettera aperta, e controfirmata da altri cosmonauti e scienziati tra cui Mishyn, in cui denunciava i rischi della Sojuz. La lettera fece tutta la trafila burocratica fino al tavolo del direttore del KGB, ma nessuno se la sentì di portarla all’attenzione del segretario del partito e così il 24 Aprile 1967, tre mesi dopo la tragedia dell’Apollo 1, Komarov salì sulla Sojuz 1. Come previsto da tutti i problemi iniziarono sin dal momento dell’ingresso in orbita: il consumo di carburante era superiore alle aspettative, uno dei pannelli solari non si era dispiegato come doveva, il collegamento radio era pessimo e c’era un guasto nel sistema d’atterraggio. Tentando un impresa alla Macgyver Komarov cercò di salvare il salvabile quanto meno per provare a tornare a casa vivo mentre al centro di comando ci si dannava l’anima per dargli delle indicazioni utili. Infine si decise di abortire il tutto e, mentre la seconda Sojuz veniva rapidamente tirata via dalla piattaforma di lancio, Mishyn diede ordine di far rientrare Komarov dopo 18 orbite e 26 ore. Purtroppo però tutti, cosmonauta compreso, sapevano che le speranze di un rientro felice erano quasi nulle e così Komarev chiese di poter parlare un’ultima volta con la moglie per poterle affidare le figlie; il primo ministro Kossighin si fece vivo per esprimere al cosmonauta la vicinanza e la riconoscenza dell’URSS (e spero sia stato mandato a quel paese). La fine di Komarov è incerta legata a varie versione: quella eroico-patriottica sovietica dell’uomo che cade fiero nell’adempimento del suo dovere e quella di sottobanco di ascoltatori clandestini dell’uomo disperato consapevole di stare per morire…. io mi limito al virgiliano parce sepulto. La Sojuz rientrò attraversando l’atmosfera a tutta velocità e, a causa del guasto del sistema di atterraggio, i paracadute non si aprirono facendola schiantare al suolo. I poveri resti di Komarev furono recuperati e tumulati solennemente nelle mura del Cremlino; la NASA avrebbe voluto mandare un proprio astronauta a rendere omaggio al compagno caduto, ma le ottuse logiche da guerra fredda spinsero Mosca a dichiarare non gradita la presenza di Frank Borman. Così in meno di quattro mesi l’esplorazione spaziale aveva chiesto il suo primo tributo di vite; quattro astronauti/cosmonauti erano caduti generando profonda impressione non solo in Unione Sovietica e Stati Uniti, ma in tutto il mondo. Dopo anni di successi strepitosi adesso ci si risvegliava dal sogno con la consapevolezza che lo spazio poteva anche uccidere, quasi come se la natura avesse voluto rimettere l’uomo al proprio posto ricordandogli che non è ancora padrone di ciò che è al di fuori della Terra. Tanto l’URSS che gli Stati Uniti si rimetteranno presto in piedi e, dopo aver risposto che sì nonostante tutto quella dell’esplorazione spaziale è un’avventura per cui vale la pena rischiare perché lo spazio, da rispettare ma non da temere, è il futuro dell’umanità, si prepareranno per il balzo finale. Dopotutto, secondo me, per la Luna valgono le stesse parole pronunciate dall’alpinista George Mallory per rispondere a chi gli chiedeva perché lui e altri volessero a tutti i costi scalare l’Everest: “Perché è lì!”, e questo sintetizza tutto della natura umana.

 

Bibliografia:

  • Paolo Magionami, Gli anni della Luna
  • Carlo Pinzani, Il bambino e l’acqua sporca – La guerra fredda rivisitata

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